DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Metropoli contro provincia Ecco la frattura del futuro




Il Giornale 4 febbraio 2015

Da quando il premier Manuel Valls, in seguito al massacro di Parigi, ha dichiarato che in Francia esiste un «apartheid territoriale, sociale, etnico» tutti i giornali transalpini hanno cominciato a intervistare Christophe Guilluy, professione geografo.
Un tipo di geografo che mescola la cartografia alla antropologia. Guilluy è autore di due libri molto discussi. Il primo, Fracture françaises (Champs), uscito nel 2013. Il secondo, La France périphérique (Flammarion), approdato in libreria alla fine del 2014. Guilluy è studioso difficile da etichettare: qualcuno ha azzardato «neo-con di sinistra». L'analisi delle fratture in seno alla società francese, che forse prefigurano il destino dell'intera Europa, potrebbe infatti essere definita «di destra» (oppure semplicemente realistica). L'analisi delle motivazioni di tali fratture, e le possibili soluzioni, potrebbero invece essere definite «di sinistra» per la forte critica al libero mercato globale e l'accento posto sempre sul termine «uguaglianza».
Nell'ultimo saggio, Guilluy, mappe alla mano, mostra l'esistenza di due Paesi in via di separazione. Da una parte ci sono le aree metropolitane, dall'altra l'immensa provincia. Le aree metropolitane sono integrate nel mercato internazionale e sono abitate in prevalenza da chi ricopre un ruolo dirigenziale (di livello più o meno alto) e da lavoratori precari, intercambiabili, non qualificati. La mobilità degli uomini e delle merci in questo contesto è la regola. I numeri dicono che tali aree producono due terzi della ricchezza francese. Nelle grandi città vivono dunque i francesi danarosi e gli immigrati. In teoria il modello d'integrazione è quello multiculturale propugnato sia dai socialisti sia dai conservatori dell'Ump. In pratica ci pensano i soldi a erigere barriere invisibili ma insuperabili tra quartieri ricchi e quartieri poveri. La rivolta delle banlieues? Non è un problema urgente come pare. I guai veri infatti sono altrove: in provincia.
La provincia è popolata dalla famosa classe media: tutti ne parlano ma è stata spazzata via. La provincia ha pagato il conto della globalizzazione. La grande industria ha chiuso i battenti, o si è trasferita altrove, lasciando a spasso gli operai specializzati. L'agricoltura è in difficoltà. I piccoli imprenditori anche. Impiegati e burocrati vari dipendono dallo Stato, sempre meno disposto a investire. Poi ci sono i pensionati e i giovani alla eterna ricerca di un lavoro. Nelle piccole città la disoccupazione picchia duro e l'incontro con gli immigrati è scontro quotidiano. Anche qui, come nelle aree metropolitane, si opta per la separazione: i francesi, appena possono, abbandonano i quartieri ad alta immigrazione. Non lo fanno per razzismo ma per evitare il peggio, cioè la violenza. Nella Francia periferica, stanziale, protezionista, fuori dalle rotte della globalizzazione, è avvertita come una necessità la trasmissione ai giovani della propria eredità culturale. Forte è infatti la sensazione, non sempre corrispondente ai numeri reali, di essere diventati minoranza sul proprio territorio.
I due partiti tradizionali, socialisti e Ump, si rivolgono agli elettori delle grandi città. I socialisti pescano nei quartieri periferici, l'Ump dai quartieri residenziali ma in definitiva si contendono lo stesso pubblico e fanno riferimento allo stesso modello di sviluppo economico (e di società). Previsione: si scomporranno e ri-comporranno diventando una cosa sola. L'alleanza di destra e sinistra contro il Fronte Nazionale, immaginata da Houellebecq in Sottomissione , potrebbe diventare realtà, e in alcune città lo è già.
A proposito di Marine Le Pen. Il Fronte Nazionale trova spazio proprio nella Francia periferica e risponde, almeno in parte, all'esigenza della (ex) classe media di riprendere voce in politica. A lungo, infatti, il popolo è stato trascurato, reso invisibile. Da tempo, la sinistra e i sindacati hanno smesso di rappresentare i suoi interessi: non fanno parte del progetto economico delle classi dirigenti. Il mondo intellettuale dà un giudizio quasi sempre sprezzante della classe media. Di fatto le masse che non si omologano al modello metropolitano sono tacciate di volta in volta di populismo, razzismo, xenofobia. Accuse infondate ma perfette per chiudere la discussione come «inammissibile». In realtà, l'assenza di un serio dibattito sui flussi migratori, e su come regolarli, alimenta la diffidenza verso la comunità dall'identità più forte, quella musulmana.
«Apartheid» è certamente una esagerazione. Ma Valls, spiega Guilluy in un'intervista con Le Figaro , in fondo ha voluto tirare uno schiaffo alla sinistra che si rifiuta di vedere la realtà.



Gli estremisti della dieta. Così trovare il cibo giusto diventa un’ossessione. Ecco le nuove tribù alimentari


VERA SCHIAVAZZI
AFFETTATE finemente
un Brusselkale
(nuova verdura nata
dai cavolini di
Bruxelles e il sapore
amaro del cavolo russo) appena
sciacquato e conditelo con
poco olio di nocciola e un po’ di
farina di amaranto, rigorosamente
priva di glutine. Ed eccovi
finalmente introdotti nel circolo
più snob e più chic delle ossessioni
alimentari del 2015. Il
Raw vegan, cibo crudo e del tutto
privo di ingredienti animali è
di gran moda, si diffondono ricette
e manuali nonché istruzioni
per non farsi prendere dal
panico quando il passaggio a un
cibo tanto sano crea nausee e
senso di intossicazione a chi per
anni ha mangiato di tutto. Anche
smoothies e centrifugati
impazzano, e il fruttarianesimo
conosce una nuova stagione di
popolarità. Benché gli esperti
continuino a litigare tra chi ammette
il consumo di noci e semi
e chi lo ripudia, ammettendo solo
i frutti sugosi caduti dalla
pianta, perché ingerire i semi è
in contrasto con il gianismo,
che prevede che neppure i vegetali
possano essere uccisi. A
Torino, un padre è stato condannato
a dieci mesi per maltrattamenti:
aveva detto alle figlie
che erano grasse, obbligandole
a fare sci e a mangiare cibi
macrobiotici (cereali e legumi
in particolare, sulla base di una
dieta che distingue i cibi in yin e
yang). E ci sono casi anche più
estremi: il 17 gennaio Alain
Fourré è morto di fame, nella
sua casa vicino a Ivrea, dopo un
“digiuno di purificazione” durato
tre settimane.
In molti cercano di trasferire ai
figli le proprie scelte alimentari
(Sonda Edizioni ha appena pubblicato
“VegPyramid Junior”, e
cresce il numero di pediatri felici
di accogliere coppie vegetariane
con i loro figli) e nelle mense delle
grandi città ci si batte perché anche
l’opzione senza carni sia a disposizione
di tutti.
Oltre ai disturbi alimentari più
gravi, come anoressia e bulimia,
emergono vere e proprie manie,
imparentate non troppo alla lontana
con una ricerca delle intolleranze
che può espandersi fino ai
30 esami diagnostici ogni anno.
C’è una sorta di rifiuto del cibo, o
quanto meno del cibo come piacere.
«Cerchiamo di far diventare regolari
i nostri pasti fino all’ossessione,
spiegando anche ai bambini
che cosa mangiare e quando,
mentre è l’irregolarità l’unica
strada per proteggersi dalle malattie
e dall’obesità — spiega Fabio
Piccini, medico e psicoanalista
che si è dedicato agli studi in
Scienza della Nutrizione — Dalle
linee guida americane fino a quelle
nostrane la situazione non ha
fatto che peggiorare, mentre bisognerebbe
lasciare a tutti il piacere
di cibarsi di ciò che desiderano:
vegetariani un giorno, carnivori
un altro, e magari a digiuno
un terzo». Contro gli Ogm è nata la
Marker Assisted Selection, promossa
da Greenpeace: contadini e
biotecnologi scelgono le piante
più resistenti e le sviluppano. Ma
c’è anche chi al cibo non vuole proprio
pensare più. E preferisce sostituirlo
con beveroni nutrienti,
come il Soylent inventato da Rob
Rhinehart, un ingegnere che aveva
fatto fallire la propria (prima)
start up. È una brodaglia marrone
ottenuta mescolando farmaci nutrienti
con acqua, che ha fatto diminuire
a 50 dollari al mese la sua
spesa alimentare e che lo scorso
gennaio ha ricevuto finanziamenti
per la ricerca per 20 milioni da
una cordata di investitori guidata
da Andreessen Horowitz. «Non ha
senso cucinare quando non se ne
ha il tempo — dice Rhinehart — e
nessuno vieta a chi consuma Soylent
di fare pasti regolari quando
ne ha la voglia. Anzi, è probabile
che li apprezzerà di più». Ma anche
in Europa c’è già Joylent, ricetta
assai simile, nato in Olanda
e aromatizzato per essere più “appetibile”.
Soluzioni globali, ma
non così diverse da quelle che il
gossip racconta sulla dieta delle
star: Jennifer Lopez che “sniffa”
olio di pompelmo, capace di agire
sugli enzimi del fegato aiutando a
perdere peso, o Gwyneth Paltrow
e Madonna intente a consumare
grandi dosi di tisana al tarassaco,
il dandelion tea che stimola la secrezione
biliare, riduce o grassi e
regala una pelle di pesca.
«La verità è che l’unica dieta
che fino a oggi abbia dimostrato
con prove e esprimenti di proteggere
sia dall’obesità sia dalle malattie
cardiovascolari e dai tumori
è quella mediterranea — dice Stefania
Ruggeri, ricercatrice al Consiglio

per la ricerca e la sperimen-
soprattutto
le donne le più “a rischio”
rispetto a mode come il veganesimo,
che, per altro, fanno diventare
la preparazione del cibo
più un dovere che un piacere. Il
14,8 per cento delle donne italiane
tra i 18 e i 25 anni è sottopeso.
Senza dimenticare che nel come si
mangia va considerato anche
l’importanza del convivio, l’idea
di potersi sedere tutti insieme almeno
una volta al giorno». Il veganesimo,
comunque, non è l’unica
moda a dover angosciare gli
esperti e gli scienziati: la Paleodieta
continua a circolare piuttosto
bene, con i suoi consumi rilevanti
di carne rossa e di verdura al
posto dei carboidrati, mentre il
metodo Montignac, che sceglie i
cibi sulla sola base del loro indice
glicemico, demonizzando tutto
ciò che supera la cifra 50, spiega
benissimo dove si può arrivare alla
ricerca di un cibo sempre più
“puro”, sano e controllato. «Ci si
butta su queste diete come sui
prodotti “magici”, dai Fiori di Bach
nella nuova versione australiana
fino al calcio verde, con l’idea di
poter controllare tutto e ottenere
in fretta risultati miracolosi — dice
Sabrina Zaninotto, psicologa e
dietista, autrice per Franco Angeli
di “Dimagrire imparando dai
propri errori” — È una forma di nevrosi
che non riesce mai a tenere
conto di tutti gli aspetti della propria
salute e del proprio benessere,
e la Paleodieta ne è un tipico
esempio. Si vuole restare giovani
più a lungo ed espellere dal piatto
ogni cibo contaminato, ma è un
obiettivo irragionevole».
C’è chi digiuna “a intermittenza”
per diventare più forte in palestra
(proteine e carboidrati all’alba,
poi una colazione completa,
seguita dall’allenamento e da
un pranzo subito dopo pesi e macchine,
infine niente cibo dalle tre
del pomeriggio al mattino seguente)
e chi si alimenta attraverso
un sondino nel naso per dieci
giorni, con la nutrizione enterale
chetogena che piace tanto alle
spose decise a dimagrire prima
delle nozze. E chi si inietta per via
endovenosa vitamine B e C insieme
a magnesio e calcio, con la
Party Girl IV Drip Diet, popolarissima
tra le giovani americane. Basterebbe
un ragionevole buon
senso: crudismo, per esempio,
può anche significare ottimi piatti
di grandi chef, senza con questo
diventare dipendenti da ciò che
non è passato sui fornelli. «Negli
ultimi due anni sono stati proprio
i cibi crudi o essicati a far fiorire le
ricette più interessanti nell’alta
cucina — dice Lisa Casali, autrice
di libri sull’autoproduzione di cibo
e il risparmio alimentare — Ma si
tratta di avanguardie, di una nicchia
di ricerca e non di un modello
da seguire sempre e in massa. Se
una moda come quella di auto produrre
il cibo riguarda il pane, o lo
yogurt, può essere una moda, una
tendenza come quella di dichiararsi
esperti di arte contemporanea.
Ma anche una “buona” moda,
migliore delle diete iperproteiche
insane e diseducative. Anch’io ho
scritto sul blog di chi diventava
vegetariano dopo aver letto “Se
niente importa” di Jonathan Safran
Foer. Ma non mi sentirei di attaccare
chi mangia formaggio, o
perfino salame. Il cibo è cibo, non
una guerra».



Quando il peccato di gola diventa una colpa

MARINO NIOLA

UNA volta si diceva che siamo quello che
mangiamo. Adesso invece siamo
quello che non mangiamo. Vegetariani,
vegani, fruttariani macrobiotici,
smoothisti, crudisti, gluten free, no carb, carnivori,
localivori. Pieni di dilemmi, ma non più onnivori.
L’Occidente si sta dividendo in una miriade di
tribù alimentari. Ciascuna si identifica nelle sue
passioni e ossessioni, totem e tabù. Tofu contro
carne, soya contro uova, quinoa contro grano,
curcuma contro sale. Una mutazione antropologica
che è sotto gli occhi di tutti. Tanto che
quando si invitano a cena gli amici bisogna aprire
un file excel per incrociare allergie,
idiosincrasie e manie di ciascuno per
riuscire a trovare un menù che vada bene
a tutti. In attesa che qualcuno scopra
l’algoritmo della convivialità individualista.
Perché senza accorgercene siamo
passati dall’antica regola del mangiare
di tutto un po’, alla paura che in ogni cibo si annidi
un nemico nascosto. E così la tavola, che per
gli Italiani è sempre stata una passione, sta diventando
un’ossessione.
Il fatto è che in una società come la nostra, il
grande nemico non è più la fame, ma l’abbondanza.
Che si porta dietro il suo minaccioso carico
di sensi di colpa, fobie, ansie. Così latte e glutine
diventano fantasmi epidemici, incubi allergenici.
E nonostante la percentuale di intolleranze
scientificamente accertate sia molto
bassa, cresce esponenzialmente l’onda integralista
dei rinuncianti. Come certi ayatollah del
km zero, che si rifiutano di mangiare verdure
raccolte da più di un’ora. O i Vegansexual, che si
rifiutano di fare sesso con partner carnivori per
paura di essere contaminati. O ancora gli adepti
delle paleo-diete, secondo i quali dovremmo
fare un salto indietro nell’evoluzione per tornare
ad alimentarci come i cacciatori e raccoglitori
preistorici. Carne e germogli, zero cereali. Dimenticando
che l’aspettativa di vita dei nostri
antenati preagricoli era inferiore ai trent’anni.
E adesso torna in auge anche il digiuno. Che una
volta era una pratica religiosa e serviva a rendere
puri di spirito, a purgare la coscienza. Ed era
stato cancellato dalle nostre abitudini assieme
a molti altri precetti confessionali. Mentre ora si
prende una clamorosa rivincita e si afferma come
miracolosa misura salutista. La differenza è
che una volta lo facevamo per Dio, mentre oggi
lo facciamo per l’io. Il nostro insomma è un digiuno
pagano. Elisir per la mente e per il corpo.
Riequilibratore di energie. Esorcismo
contro i radicali liberi sempre in agguato.
Con il risultato di far cortocircuitare
salute e salvezza, sicurezza alimentare
e sindrome immunitaria. Così, mixando
etica e dietetica, fioretti laici e ascetismi
calorici, la ricerca del modello alimentare
virtuoso è diventata la nuova religione
globale. Che, come tutte le religioni nascenti,
produce continue contrapposizioni, scismi,
eresie, sette, abiure. Ciascun credo dietologico
si ritiene l’unica via verso la salvezza. E verso
l’immortalità. O almeno quel suo succedaneo
che chiamiamo longevità. E che oggi è diventata
il sogno e l’incubo di un Occidente satollo e
pronto a pentirsi dei suoi peccati di gola. Così anticipiamo
il giorno del giudizio e facciamo del
dietologo una sorta di Dio giudice. O di Dio una
sorta di dietologo improprio, che dispensa premi
e castighi qui e ora. Ecco perché la dieta giusta
non è più una misura di benessere, ma una
condizione dell’essere. E siamo tutti alla ricerca
dell’alimento salvavita, del toccasana alimentare
per mettere a tacere la bilancia e la coscienza.
Così a furia di cercare l’esorcibo, siamo
scivolati nell’era di homo dieteticus.


La paura ha nuovi orizzonti. Se una volta si temeva la morte ora a spaventare è la vita: l’incapacità di avere relazioni, la mancanza di identità e di autonomia, l’angoscia della solitudine



Carla Massi

Lo diceva Don Abbondio:
«Uno il coraggio non se lo
può dare». Un personaggio
entrato nella storia per le
sue paure. Per quelle vere e
per quelle che popolavano
la sua mente. Agli italiani, se
scremiamo la codardia, sta accadendo
proprio questo. Basta analizzare
i ritratti che gli psichiatri
fanno delle ansie e delle fobie che
arrivano nei loro studi.Nuove paure,
oggi, si rincorrono nelle teste
degli italiani. E la confusione,
nel senso della perniciosa tendenza
a confondere realtà e fantasmi,
ha preso una consistenza
tale da convincere gli psichiatri a
organizzare, sull’argomento, incontri
di studio a più voci.
Oggi a Milano si terrà un
pre-congresso della Sopsi, la Società
italiana di psicopatologia
presieduta da Carlo Altamura (il
summit si svolgerà dal 23 al 26
febbraio), per discutere delle paure
di oggi. Accompagnate da
stress, vulnerabilità emotiva e affaticamento
da crisi economica.

TERRORI INTIMI

Non si parla di una paura generalizzata
e di massa, ma di piccoli-
grandi terrori intimi che, con
estrema facilità, riescono ad impossessarsi
di corpo e mente.
Una facilità maggiore, dicono gli
specialisti, rispetto al passato.
Quando, oltre che per motivi culturali,
la paura doveva essere toccata,
conosciuta, battuta.
«Un tempo non troppo lontano
dominava la paura della morte -
spiega Alberto Siracusano, ordinario
di Psichiatria all’università
Tor Vergata di Roma, che presenterà
una relazione proprio su
queste nuove emozioni - ora domina
quella della vita. Oggi tormenta
la paura della paura. Già
nota ai tempi di Giulio Cesare.
Sua moglie Calpurnia aveva messo
in guardia ilmarito, la sera prima
dell’omicidio, raccontandogli
di una premonizione sulla cospirazione
ai suoi danni. Ma Cesare
aveva risposto: “Non dobbiamo
aver paura della paura”. Nel
2015 ci troviamo a fronteggiare
questa condizione». Capace di generare,
dicono gli psichiatri, relazioni
malate, mancanza di
identità e autonomia. Disturbi
che si trasformano
in ansia allo stato
puro.

VALORI PERDUTI

Punto di partenza: la
mancanza di certezze.
Nel pubblico e nel privato.
In famiglia e sul lavoro.
«Fino alla metà degli anni
Ottanta - spiega ancora Siracusano
- si viveva sull’onda di antiche
certezze, dal matrimonio all’impiego.
Parlo di valori. Oggi è
difficile sentirsi appartenenti ad
una comunità, ad un gruppo. Certo
si appartiene ad una società
globale ma manca la definizione
di identità. Condizione che fa perdere
l’equilibrio e, nei più vulnerabili,
si declina in crisi d’ansia e
di depressione». Da qui la paura
di non riuscire a sapere “chi sei”.
Dietro la relazione tormentata
c’è il dolore (ancora paura) di entrare
in contatto con gli altri. Aggravato
dalla scomparsa sempre
più generalizzata del «freno morale
». Nel senso che, davanti ad
una difficoltà (come un amore finito),
si arriva frequentemente all’omicidio,
alla strage di famiglia.
Il terrore di soffrire da una parte,
mentre dall’altra c’è l’infantile capacità
a tenere le relazioni.

GLI ADOLESCENTI

«Una condizione che troviamo in
tanti uomini e tante donne che
chiedono aiuto quando la situazione
è già diventata dramma -
aggiunge Siracusano - Le persone
non riescono a mantenere i
rapporti, non distinguono l’impulso
dal desiderio, ma rifiutano
la conoscenza di sé. La riflessione,
il pensiero. E’ finita anche
l’abitudine ad insegnare come,
da giovani e da adulti, si costruiscono
i rapporti con tutto quello
che è intorno a noi. Adesso no.
Adesso si cresce, attraverso una
finta autonomia che si infrange
al primo ostacolo. Pensiamo agli
adolescenti, ma anche ai giovani
adulti, costruiti a modello di internet,
che si sgretolano al primo
soffio di vento. Come si deve far
fronte ad un problema questo diventa
trauma».

VISIONI APOCALITTICHE

Paura di non avere un profilo, paura
delle relazioni, paura di non
avere identità, paura di guardarsi
dentro, paura di restare soli aggrappati
ai “mi piace”. Droga, gioco,
bulimia, anoressia e alcol come
tentativo per «definire il proprio
sé ed essere identificato».
Una condizione generale di timore
capace di moltiplicare i disturbi
d’ansia che si palesano con diverse
manifestazioni, sempre più
frequenti. Dall’impossibilità a
stare in un luogo aperto come è
l’agorafobia, al disturbo ossessivo
compulsivo. «Un groviglio,
spesso non raccontato - conclude
lo psichiatra - di paure e visioni
apocalittiche che prendono la via
del disagio».


Il Messaggero 4 febbraio 2015


5 dicembre 2013



La sentinella

L'autoscatto metafora del nostro tempo



Tutto è "auto": autostima, autogestione, autocoscienza, autoironia, autoerotismo, riflessi di una generazione affetta da un inguaribile autismo dell'anima. L'altro è, semplicemente, uno specchio dove rifrangere la nostra immagine, non esiste, vive nel prolungamento del proprio ego. Non serve neanche a farci una foto, non importa che cosa potrebbe apprezzare e criticare. L'altro non serve neanche per fare un figlio. Amici, fidanzati o compagne, mogli e mariti, esistono esclusivamente per guardarci. Viviamo attaccati a un respiratore artificiale, l'altro che giace accanto a noi condannato a guardarci. Altro che Parola creatrice, sono gli sguardi a darci vita; chiusi gli occhi moriamo. Siamo nel post-narcisismo, basta esistere e resistere in effige, in una sorta di eterno ritorno che ci abbraccia come una piovra: rinasciamo mille volte al giorno al materializzarci sul display, per morire ingoiati nel buio al suo spegnimento. L'esistenza è un lampo, obbedisce al tempo concesso prima che il salvaschermo chiuda il sipario. E' triste una vita stretta nel sandwich crudele del risparmio energetico; dobbiamo infilarci nella frazione di tempo che l'altro ritiene non essere sprecata. Ecco perché tutto è sempre "fast" nel regno dell' "auto": cibo, lavoro, relazioni, sesso, televisione e cinema, svaghi, anche il calcio è cambiato, tutto ripartenze immediate e chi non ha gambe è perduto. Una fatica immane, il "sudore della fronte" di questa generazione: non più sotto il sole dei campi a cercarvi il cibo per giornate intere, ma il "dolore" figlio dell'illusione di afferrare la vita tra un battito di ciglia e un altro. Solo Cristo può salvarci, Lui che ha vinto l'effimero e ci dischiude l'eternità dell'amore nel tempo che ci è donato.


A.I.




Selfie ergo sum

Filosofia dell’autoscatto

Oggi se non fai selfie non sei nessuno. Sapevo che “selfie” è la parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionary.  C’è anche un galateo da autoscatto, ammiccante o autocelebrativo. “Bisogna inclinare la testa, tenere il telefono leggermente sopra la linea dello sguardo (per ingrandire gli occhi e snellire il volto), evitare nel modo più assoluto il flash, che spara e fa l’effetto foto segnaletica, sorridere ma senza troppi denti, trattenere un po’ d’aria fra le guance in modo da far risaltare le labbra, inventarsi un’aria furba, o almeno maliziosa, qualcosa rispetto a cui poter dire: era un autoscatto autoironico”. Lo ha scritto a suo tempo Annalena ispirata da Elizabeth Day: “Me, my Selfie and I”. Ma “non si sorride nei selfie, dilettanti”, dice su Twitter Guia Soncini che in certe cose è la Cassazione... Troppo poco per concluderne che Narciso è vivo e lotta insieme a noi, dentro di noi, nel socialmondo? Narciso godeva di se stesso con se stesso, il suo era un autoerotismo autentico, una passione mortale per la propria immagine da non condividere con altri, pena sciuparsi, dissiparsi, perdersi nella socialità. Il selfie è un’altra cosa, l’amplesso cerebrale non avviene con il doppio ma con gli occhi di chi guarda. E’ l’estroflessione totale e definitiva dell’ego, la sublimazione dell’importanza che si attribuisce a se stessi, alla propria storia personale. In un certo senso è pure il calco negativo dell’autocommiserazione: chiedere con una foto “non ti sembro figo?” è retoricamente parlante come un “non ti faccio pena?”. Identica è la presunzione d’innocente irrinunciabilità. E questa presunzione è la somma algebrica di tutti gli ego, dunque non ha nemmeno più un sesso, è il trionfo di un indistinto nel quale i moralisti troveranno, con Balzac, l’anima del vizio contemporaneo o solo il vizio senz’anima. Forse bisogna ammettere che Narciso è quell’indistinto che guarda se stesso attraverso di noi.

Alessandro Giuli
Il Foglio, 5 dicembre 2013


L'autoscatto col suicida che fa discutere l'America
Non è la prima volta che il New York Post finisce al centro delle polemiche per una foto considerata ardita...







OLANDA FRONTIERA DELL'EVANGELIZZAZIONE


La situazione dell'Olanda ci riguarda. E' profezia dell'Europa futura. Il Papa risponde con un discorso importantissimo: annuncio del Vangelo e formazione sono le risposte alle nuove sfide. E una comunità realmente ad gentes capace di "attrarre" chiunque abbia perduto la speranza.




La nuova guerra dei trent’anni

Il messaggio terribile a Papa Francesco dei vescovi olandesi

C’è poco da sperare quando la secolarizzazione ti sta uccidendo. E’ questo il messaggio terribile emerso dall’incontro fra Papa Francesco e i vescovi olandesi. Ricevuti a Roma dal pontefice, i vescovi gli hanno portato un rapporto in cui si dice che “due terzi delle chiese in Olanda saranno chiuse o vendute entro il 2025”. Più che lo scandalo dei preti pedofili ha potuto la più radicale delle secolarizzazioni. Due edifici cristiani chiudono ogni settimana in Olanda. E’ il record della secolarizzazione detenuto dal paese più libero, libertino e liberale d’Europa. Dal 1970 al 2008, duecento chiese cattoliche sono state demolite in Olanda e 148 convertite in librerie, ristoranti, appartamenti e moschee. Quelle che restano le chiamano “chiese mausolei”, perché nessuno ci va più, o sono visitate come reperti storici, fossili. Che la denuncia venga dai vescovi olandesi è tanto più eclatante perché il cattolicesimo dei Paesi Bassi ha sempre cercato di rincorrere il secolarismo sul suo terreno. Sono le battaglie del teologo domenicano Edward Schillebeeckx, che negli anni del Concilio Vaticano II divenne il campione della “nuova teologia” al passo con la cultura dominante, intollerante e progressista. O quel Bernard Jan Alfrink, arcivescovo di Utrecht, creato cardinale da Giovanni XXIII, che partecipò ai lavori del Vaticano II e che sui temi etici si scontrò con il cardinale Alfredo Ottaviani, il capo del Sant’Uffizio. Andando più indietro si arriva ad Adriano VI, l’unico olandese salito alla cattedra di Pietro e che cinquecento anni fa si era mostrato “olandese” già a quei tempi, privando la curia di Roma dei suoi privilegi e inviando un delegato alla Dieta imperiale che doveva discutere le tesi del monaco Lutero. Nel 1648 la Spagna, con la pace di Vestfalia, rinunciò a ogni pretesa sull’Olanda, che così divenne una nazione protestante. Il culto cattolico fu messo al bando per molti anni. I ritratti della Madonna venivano sfregiati e cancellati dalle pareti delle chiese e delle cattedrali. Adesso è la volta dell’iconoclastia ateistica. E’ iniziata un’altra guerra dei trent’anni.
Il Foglio, 5 dicembre 2013



"Una formazione solida e di qualità", ecco la chiave di Papa Francesco

Vi incoraggio vivamente ad unire i vostri sforzi per rispondere a questo bisogno e permettere un migliore annuncio del Vangelo. In questo contesto, la testimonianza e l'impegno dei laici nella Chiesa e nella società hanno un ruolo importante e devono essere fortemente sostenuti. Tutti noi battezzati siamo invitati ad essere discepoli-missionari, là dove siamo!



Discorso di Papa Francesco ai Vescovi olandesi in visita "ad Limina Apostolorum". 2 dicembre 2013


Vi farà bene guardare con fiducia ai segni di vitalità che si manifestano nelle comunità cristiane delle vostre diocesi. Sono segni della presenza attiva del Signore in mezzo agli uomini e alle donne del vostro Paese che attendono autentici testimoni della speranza che ci fa vivere, quella che viene da Cristo. La Chiesa con pazienza materna prosegue i suoi sforzi per rispondere alle inquietudini di tanti uomini e donne che sperimentano l'angoscia e lo scoraggiamento davanti al futuro... Perciò, la Chiesa cerca di proporre la fede in una maniera autentica, comprensibile e pastorale... 
L'antropologia cristiana e la dottrina sociale della Chiesa fanno parte del patrimonio di esperienza e di umanità su cui si fonda la civiltà europea ed esse possono aiutare a riaffermare concretamente il primato dell'uomo sulla tecnica e sulle strutture. E questo primato dell'uomo presuppone l'apertura alla trascendenza. Al contrario, sopprimendo la dimensione trascendente, una cultura si impoverisce, mentre essa dovrebbe mostrare la possibilità di collegare in costante armonia fede e ragione, verità e libertà. Così, la Chiesa non propone soltanto delle verità morali immutabili, e degli atteggiamenti contro-corrente rispetto al mondo, ma li propone come la chiave del bene umano e dello sviluppo sociale. I cristiani hanno una missione propria per raccogliere questa sfida. 
L'educazione delle coscienze diventa allora prioritaria, specialmente mediante la formazione del giudizio critico, pur avendo un approccio positivo sulle realtà sociali; si eviterà così la superficialità dei giudizi e la rassegnazione all'indifferenza. Quindi, ciò richiede che i cattolici, sacerdoti, persone consacrate, laici acquisiscano una formazione solida e di qualità... È quindi importante che i giovani cristiani ricevano una catechesi di qualità, che sostenga la loro fede e li conduca all'incontro con Cristo. Formazione solida e spirito di apertura! Ecco come la Buona Notizia continua a diffondersi.
Nella vostra società, fortemente segnata dalla secolarizzazione, vi incoraggio anche ad essere presenti nel dibattito pubblico, in tutti gli ambiti nei quali è in causa l'uomo, per rendere visibile la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura. Nel mondo di oggi, la Chiesa ha il compito di ripetere instancabilmente le parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Ma domandiamoci: chi ci incontra, chi incontra un cristiano, percepisce qualcosa della bontà di Dio, della gioia di aver incontrato il Cristo? Come ho spesso affermato, a partire dall'esperienza autentica del ministero episcopale, la Chiesa si espande non per proselitismo, ma per attrazione. Essa è inviata dappertutto per svegliare, risvegliare, mantenere la speranza! Da qui l'importanza di incoraggiare i vostri fedeli a cogliere le occasioni di dialogo, rendendosi presenti nei luoghi in cui si decide il futuro; potranno così portare il loro contributo nei dibattiti sulle grandi questioni sociali riguardanti per esempio la famiglia, il matrimonio, la fine della vita.
E' urgente suscitare una pastorale vocazionale vigorosa e attraente, e anche la ricerca comune di come accompagnare la maturazione umana e spirituale dei seminaristi. Che essi vivano una relazione personale con il Signore, che sarà il fondamento della loro vita sacerdotale! Potessimo sentire anche l'urgenza di pregare il Padrone della messe! 



Le parole cristiane senza Cristo


Omelia a Santa Marta 5 ddicembre 2013


La roccia è Gesù Cristo! La roccia è il Signore! Una parola è forte, dà vita, può andare avanti, può tollerare tutti gli attacchi, se questa parola ha le sue radici in Gesù Cristo. Una parola cristiana che non ha le sue radici vitali, nella vita di una persona, in Gesù Cristo, è una parola cristiana senza Cristo! E le parole cristiane senza Cristo ingannano, fanno male! Uno scrittore inglese, una volta, parlando delle eresie diceva che un’eresia è una verità, una parola, una verità, che è diventata pazza. Quando le parole cristiane sono senza Cristo incominciano ad andare sul cammino della salvezza. La parola cristiana senza Cristo ti porta alla vanità, alla sicurezza di te stesso, all’orgoglio, al potere per il potere. E il Signore abbatte queste persone. Questa è una costante nella storia della Salvezza.

Noi, schiavi dell’immaginazione al potere. IFuggire la realtà e rifugiarsi nelle illusioni: consumismo e mondi virtuali. M. Veneziani

di Marcello Veneziani
Tratto da Il Giornale del 26 ottobre 2010

Abbiamo smesso di sognare, dice la gente. Non siamo in grado di accettare la realtà, dice la stessa gente. Due cose opposte, dice la gente, qual è vera tra le due? Ambedue. Come succede ai bambini, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Provo su strada la filosofia, la porto in mezzo alla gente. So che sui giornali non si usa, ma io ci provo. Trovo conferma dei due modi di dire. La gente ha paura della vita, ha paura della realtà. Ha paura della violenza, ha paura dello straniero, ha paura delle malattie, ha paure dell’inquinamento, ha paura delle discariche e delle antenne. E ha paura di far figli, di uscire la sera tardi, di perdere il tenore di vita, ha paura del futuro ma anche del passato. E allora si rende schiava delle illusioni, che cerca in video, in fumo, nelle trasgressioni, in vacanza, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni, cambiano gli oggetti ma non i soggetti. In passato, un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrorismo, la violenza, gli anni di piombo. C’era chi bruciava nel fuoco i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. Ma i disagi, la violenza, le paure del presente sono passate dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa cosa: abbiamo scambiato il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere alla luce del sole la realtà quotidiana, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all'incanto o all'irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l'amore è ridotto all'atto sessuale, la religione è ridotta a proiezione nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l'arte è ridotta alle condizioni economiche e materiali, le idee ai rapporti di produzione, la cultura all'egemonia. In più ci snaturiamo quando dovremmo vivere la natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all'astrologia: si veda a tal proposito il saggio di Theodor Adorno, Stelle su misura, ristampato in questi giorni da Einaudi (pp. 134, E11. 50) in cui il filosofo di Francoforte analizza questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne.

Questa inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel '68 una formula di successo: l'immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l'uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, ribaltando così il rapporto con il cielo e con la terra. Se ci fate caso, i malesseri del presente - come i dolorosi furori del passato - hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, gli chiudiamo quando c'è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.

Passo dalla realtà alla letteratura, senza citarvi testi di filosofia o romanzi dove sarebbe facile pescare quel che dico; ve ne cito solo due agli antipodi. Uno è di un ex presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, Non è questa l'Italia che sognavo, un diario delle illusioni perdute nella repubblica italiana, il bilancio di una delusione. L'altro, all'opposto, è di un medico dell'anima, Ethan Watters, e si intitola: Pazzi come noi. Depressione, stress, anoressia: malattie occidentali da esportazione (B. Mondadori, pp. 204, E. 22). Watters racconta che succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. Non dice così, non voglio affibbiargli un mio pensiero; ma quella mi pare la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale che egli descrive. Vogliamo pestare il cielo con i piedi e camminare con la testa. Così i nostri dei sono pedestri, all'altezza delle nostre scarpe, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell'immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi chiamava psicocrazia. Gli dei caduti in terra si chiamano malattie. L'immaginazione al potere ci ha resi schiavi, non liberi; alienati, non autentici. Viviamo bene solo in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell'attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà maledizione. Così la vita diventa una confortevole patologia.

La terapia è semplice a dirsi, difficile a realizzarsi: restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinare il duplice bisogno di sogni e di realtà che ci rende uomini, collocandoli però nel loro giusto tempo e al loro giusto posto. Facile a declamarla, provate sul serio a realizzarla. E' quasi impossibile, ma a quel quasi conviene dedicare la vita.

IL PANTEISMO E GLI IDOLI MODERNI

Francesca Pannuti denuncia le minacce al diritto alla vita


di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 23 settembre 2010 (ZENIT.org).- Fenomeni come l’adorazione di Gaia, il culto dell’albero, il seppellimento e la tomba per il gatto, fanno pensare che nel mondo di oggi si stia tornando a una spiritualità panteista.

Ed è proprio per denunciare l’espansione e l’influenza di una cultura che ripropone l’adorazione di flora, fauna e idoli, che Francesca Pannuti ha scritto e pubblicato il libro “Panteismo: minaccia o prospettiva?” (IF Press, Morolo 2010).

Incuriositi da un tema di così grande attualità, ZENIT ha intervistato la Pannuti.

Lei sostiene nel libro che le ideologie ecocentriste e biocentriste stanno diventando una minaccia per il rispetto dei diritti umani. Perché?

Pannuti: Il “nuovo terrorismo”, messo in atto da varie associazioni ambientaliste, sostenute nella propaganda da Organizzazioni internazionali non governative in collaborazione con l’Onu, mira a inculcare, mediante la diffusione di dati spesso manipolati, falsificati, il convincimento che il rispetto della natura debba consistere nella “difesa” dell’ecosistema planetario dall’aggressione perpetrata dall’uomo su di esso con le sue tecnologie inquinanti, con un eccessivo sviluppo della popolazione causa della progressiva ed inesorabile, a detta loro, diminuzione delle risorse disponibili. Il rimedio a questo presunto disastro ambientale viene visto nel controllo delle nascite che deve essere realizzato con ogni mezzo, dalla contraccezione all’aborto: in Brasile, secondi i dati pubblicati dal governo nel 1999 e riportati nel bellissimo libro di M. Schooyans,Conversazioni su gli idoli della modernità, il 43% delle donne che fa uso di metodi di controllo delle nascite è stato sottoposto a sterilizzazione. «I medici - aggiunge l’autore - praticano sterilizzazioni e castrazioni, mutilando in modo definitivo uomini e soprattutto donne povere e innocenti che non sanno che cosa stia loro accadendo». Il risultato: «la popolazione mondiale è distribuita su più di 200 paesi. In un buon terzo di questi paesi, l’indice di fecondità è pari o inferiore a 2,1, che è il valore minimo affinché una popolazione si rinnovi. Inoltre, questo indice è in diminuzione ovunque […] una tale situazione mette in pericolo il futuro dell’umanità».

Cosa c’è di pericoloso in una visione panteistica che sembra essere una delle caratteristiche di una società secolarizzata?

Pannuti: Aborto e contraccezione, in tale contesto, vengono propagandate come diritti delle donne, per il fatto che si è persa la consapevolezza della natura, come realtà creata per amore e secondo verità. Nel panteismo, che vorrebbe far coincidere il mondo con Dio, neutralizzandone la trascendenza e la personalità, l’uomo, non più creato ad immagine di un Dio dotato di intelligenza e volontà, si trova al centro di un mondo divinizzato e non manca di farsi così padrone dell’universo e della vita stessa, in quanto si identifica con un “dio” immanente. Scompare così il riferimento ad un diritto naturale non determinato da noi e ad esso si sostituiscono “nuovi diritti”. «Istituita da qualche anno ― ci informa Schooyans ―, la Corte penale internazionale ha la competenza di giudicare le nazioni, gli organismi e le persone che rifiuteranno di riconoscere questi “nuovi diritti” inventati o da inventare. La Chiesa cattolica è uno dei possibili bersagli di questa Corte internazionale. Già qualche anno fa si diceva che papa Giovanni Paolo II avrebbe potuto essere convocato davanti al Tribunale internazionale per essersi opposto a un “nuovo diritto”, quello della donna all’aborto. […]. Si tratterà di un indottrinamento ideologico su larga scala, al punto che colui che non sottoscriverà una tale ideologia sarà penalizzato dalla Corte internazionale». Le organizzazioni internazionali, intrise di ideologia New Age, panteista, sono attivissime nel diffondere un’impostazione anticristiana, basata su una eco-teologia che idolatra la Madre Terra. L’obbiettivo è quello di imporre agli Stati una politica centralizzata, mediante il progressivo svuotamento del potere nazionale, la quale si fondi su diritti realizzati “a tavolino”, “prodotti” per consenso. Tra questi, la scelta del sesso.

Perché questo libro e quali sono le idee che lei vuole comunicare ai lettori?

Pannuti: In ossequio alle parole di Benedetto XVI che ha denunciato questo pericolo, mi è parso importante far conoscere il panteismo nelle sue varie forme, perché sono persuasa che per evitare tali mali gravissimi, occorra essere più consapevoli delle loro radici, per combatterli sul nascere, nel nostro cuore. Ho così tentato di smascherarne il fondo satanico di superbia, che genera un’ideologia di puro potere. La conservazione del potere e della ricchezza sono, infatti, alla radice del “nuovo terrorismo”: «Se i poveri trasmettono la vita, ― commenta Schooyans ― le ricchezze del mondo, si dice, si frantumeranno in parti sempre più minute e questo fenomeno provocherà una povertà generalizzata, quindi bisogna contenere la loro crescita demografica. E’ questo il punto cruciale dell’ideologia malthusiana […] (che) misconosce l’importanza del capitale umano, ovvero il fatto che l’uomo è capace di creare delle ricchezze. Smentita fin dalle sue origini, questa ideologia è continuamente riproposta. L’India, che verso il 1960 contava 250 milioni di abitanti, la cui maggioranza soffriva la fame, oggi alimenta un miliardo di persone ed esporta cereali». Insomma, l’uomo, laddove tende ad “addomesticare” Dio a se stesso, finisce per combattere gli altri per poi autodistruggersi.

Quali, secondo lei, le cause che stanno portando molte persone a idolatrare flora e fauna?

Pannuti: L’apostasia silenziosa dal cristianesimo, dovuta spesso al misconoscimento delle ricchezze inestimabili insite in esso, ha portato ad un nuovo paganesimo, che, incapace di considerare il valore dell’Amore di un Dio creatore e salvatore, spinge l’uomo ad appoggiarsi a ciò che è inferiore a lui per trarre da esso potere e sicurezza.

Nei tempi antichi gli ebrei e i cristiani sconfessarono le religioni panteistiche. Come e quanto riusciranno a farlo anche nei tempi moderni?

Pannuti: Credo sia da prendere molto sul serio la “prognosi” delle malattie del tempo attuale fatta da R. Benson nel suo Il padrone del mondo. Poiché dietro al panteismo c’è il demonio che istiga l’uomo a farsi “dio”, come insinua Benson, esso può essere sconfessato solo attraverso la coraggiosa testimonianza dell’Unico che non potrà mai essere accettato da nessuna religione panteista, in quanto ne rappresenta la radicale smentita: l’Uomo-Dio, Cristo. Ciò si potrà realizzare nel riconoscimento della Creazione come atto di Amore di un Dio personale, il quale manda il Figlio per salvare le sue creature che lo hanno tradito. Questo avverrà allorché entrambi, giudei e cristiani, rifiuteranno l’idolatria moderna nella riaffermazione della loro vera identità, di popolo eletto chiamato a dar alla luce e a riconoscere il Messia e di nuovo Israele chiamato a raccogliere tutti i popoli, non in una nuova religione umanitaria, obbiettivo del panteismo, bensì nella fedeltà all’Unico che può definitivamente sconfiggere ogni ideologia disumana, il Cristo.

Lettera a un bambino che (forse) vivrà più di cento anni

La guerra dei cent'anni

di Roberto Volpi

Nel 2050 bambini e ragazzi galleggeranno in un mare di vecchi e supervecchi (sai il giubilo!)

Caro bambino che vieni al mondo oggi e che per qualche buon motivo non leggerai, non subito almeno, questo articolo e a maggiore ragione, non fosse che per la lunghezza, il libro di Boncinelli a te indirizzato che ti spiega che hai una probabilità su due di vivere più di cento anni, voglio spiegarti a mia volta, e farò anch’io il furbo col linguaggio come fa Boncinelli – che ha l’aria di uno che racconta una favola davanti al camino, mentre fuori la neve fiocca e la natura rabbrividisce – perché, se così fosse, sarebbe piuttosto una tragedia che, come tutte le tragedie, finirebbe per trasformarsi in un boomerang per te e la società di domani e per rispedire all’indietro te con essa.
Intanto, dovrai riconoscerlo, è dura pronosticare qualcosa che sta tra qui e grosso modo cent’anni. Tanto dura che l’Istat, che pure lo fa di mestiere, di prevedere, si ferma al 2050, ovvero a quarant’anni da oggi. Dopo, neppure Dio, con tutto il rispetto, può consentirsi di azzardare un pronostico. Ma anche per buttare lo sguardo da qui a una quarantina d’anni ce ne vuole, di fegato. Tant’è vero che, per cautelarsi, con le previsioni, l’Istat mette in fila la bellezza di tre ipotesi, denominate rispettivamente: bassa, centrale e alta. E non sto a spiegartene il senso, perché, come si suol dire, fin qui ci arrivano anche i gatti. Non ti sto a spiegare neppure perché si preferisca normalmente affidarsi all’ipotesi centrale, pur senza dimenticare di gettare un occhio anche alle altre. Anche questo va da sé – esagerom minga, per dirla col Bossi (non preoccuparti, farai a tempo a conoscerlo). Dunque, senza esagerare, ecco le previsioni dell’Istat per la fine del 2050. Speranza di vita dei maschi: 84,5 anni. Speranza di vita delle femmine: 89,5. Su una popolazione di circa 62 milioni, i centenari viventi a quella data saranno circa 157mila e, sempre a quella data, i bambini di allora avranno una probabilità su due di arrivare a 90anni. Ma se sei nato ottimista puoi alzare la speranza di vita tanto per i maschi che per le femmine di un paio d’anni, abbracciando la più favorevole di tutte le ipotesi, quella alta. Qui giunti converrebbe comunque fermarsi, lo chiede non il solo buon senso, ma anche e proprio lo spirito scientifico, che non può spingersi fino al punto di profetizzare. Solo che quale bambino si comprerebbe mai, tramite genitori ovviamente, un libro, da leggersi tra una ventina d’anni, che annuncia che i nati nel 2050 avranno una speranza su due di arrivare a 90 anni? Ammettiamolo, lo stesso editore glielo avrebbe tirato dietro, al Boncinelli, senza nulla togliere ai suoi meriti (e pure ai suoi precedenti libri).
Ma vogliamo dare pure un’occhiata a quale popolazione ci si prepara, sempre seguendo l’ipotesi centrale dell’Istat, nel lontano 2050? Magari non te ne può fregare di meno, a te. Non interessa a nessuno dei grandi “profetizzatori” dei 120 anni di vita media, pensa un po’, rispetto ai quali Boncinelli assomiglia a uno che procede con maniacale circospezione, come se aprisse gli armadi e guardasse sotto i letti prima di coricarsi, perché dovresti preoccupartene tu? Magari ti darai alla politica, vallo a sapere. Allora certe cose potrebbero pure tornarti utili. Dunque: all’incirca una persona su otto, pari alla bellezza di otto milioni e mezzo di persone, avrà ottanta e più anni e ci saranno molti più ottantenni che bambini e ragazzi fino a 14 anni compiuti di età. Bambini e ragazzi galleggeranno in un mare di vecchi e supervecchi (sai il giubilo!). E siccome le donne in età feconda saranno, per l’invecchiamento, passate dal 45 al 35 per cento, ovvero saranno sempre meno, appena una su tre, non ci sarà modo di invertire la rotta. Ma non potendola invertire l’invecchiamento continuerà a crescere. E tu pensa che una stima molto importante vorrebbe che a ogni anno di speranza di vita in più corrispondesse una nascita in più all’anno ogni mille abitanti, per impedire all’invecchiamento di sommergerci. Ma oggi, con la speranza di vita a quasi 82 anni, il tasso di natalità non arriva al 10 per mille, ragion per cui si dovrebbe salire fin quasi al 30 per mille per reggere i cent’anni, 30 nascite l’anno ogni mille abitanti. Ma un tale livello della natalità si registrava a malapena nell’Ottocento e corrisponde, fatti un po’ di conti, a non meno di quattro figli in media per donna, tre volte quelli di oggi. Vogliamo concordare, tra di noi, che una medicina di questa fatta non è neppure ipotizzabile? Tanto meno se si considera che la popolazione schizzerebbe in un amen sopra i cento milioni?
E qui, vedi, a proposito di medicina avrei molte altre cose da dirti, giacché se tra vent’anni leggerai il libro di Boncinelli sarai inevitabilmente portato a credere che se ti aspetta un altro sproposito di anni dovrai dire grazie ai “trionfi della diagnosi precoce e della prevenzione delle malattie genetiche”. La medicina ha i suoi meriti, sia chiaro. Ma non giurerei che in Calabria la speranza di vita superiore alla media nazionale debba tutto o quasi a questo genere di trionfi.

«Il Foglio» del 13 settembre 2010

La nostra esistenza riflessa negli schermi

di Juan Carlos Demartin *

Una volta le tecnologie della comunicazione stavano al loro posto, sia come luogo fisico, sia come regole d’uso. Il telefono stava nell’ingresso, o comunque in una posizione centrale della casa, facilmente raggiungibile, e controllabile, da tutti. Il televisore era posizionato in salotto, davanti al divano, vicino a dove prima aveva troneggiato, nei decenni precedenti, la radio.
E le regole d’uso erano più o meno sviluppate, ma comunque piuttosto chiare. Ricordo ancora, per esempio, lo stupore - misto a un po’ di apprensione - che coglieva la mia famiglia se qualcuno per caso telefonava all’ora dei pasti: «Ma chi è il maleducato che telefona a quest’ora?», si mormorava. Mentre il televisore, col suo palinsesto, imponeva regole di fruizione rigide e, per un lungo periodo, senza alternative; per non parlare, a livello familiare, di regole come «a letto dopo Carosello» per i bambini.
Insomma: gli strumenti erano pochi, molto semplici da usare e con un rapporto con la nostra vita definito da decenni - se non generazioni - di abitudine all’uso.
Poi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, c’è stato un «big bang» - silenzioso, ma dagli effetti ben visibili - che ci ha fatto entrare nell’Età degli Schermi. Da qualche anno siamo circondati da schermi in ogni camera della casa, schermi per strada, schermi sui mezzi pubblici, schermi nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, schermi in automobile, schermi negli uffici pubblici, schermi sulle scrivanie e, soprattutto, schermi nelle tasche e nelle borse. Alcuni di questi schermi ci sono imposti - spesso non sono altro che veicoli per pubblicità o informazioni di servizio - ma altri sono oggetti del desiderio che vogliamo avere vicini, che vogliamo poter guardare in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Su tutti, il telefono, che ormai significa sempre meno, soprattutto per i giovani, «sentire e farsi sentire a distanza con la voce» e sempre più «schermo connesso», ovvero porta visiva verso il mondo lavorativo, affettivo e ricreativo. Rettangolo luminoso che, rispondendo al tocco di un dito, può mostrarci all’istante quasi qualsiasi immagine, fissa o in movimento, desideriamo vedere, per lavoro o per capriccio: un disegno di Leonardo, un messaggio del capo, le foto dei figli, la scena finale di «Casablanca», un sms della fidanzata, le poesie di John Keats, il backstage di un concerto.
Nei confronti di questa invasione di schermi siamo ancora palesemente nella fase dello stupore. La proliferazione, infatti, ha avuto luogo così in fretta da non darci il tempo né di capire le conseguenze di ciò che sta capitando, né di sviluppare una reazione sotto forma di regole d’uso mature e socialmente condivise. Cosa significa per ciascuno di noi e per la società nel suo complesso vivere nell’Età degli Schermi (invece che dello Schermo Unico, ovvero della televisione)? In che modo è opportuno comportarsi nei confronti dei propri schermi - telefono, tavoletta o notebook - sia da soli, sia soprattutto in presenza di altri?
Riguardo al secondo aspetto, quello delle regole di comportamento, prendiamo il caso della scuola. Come è opportuno trattare gli schermi in classe? In particolare - a parte eventuali schermi istituzionali, come le celebri «lavagne interattive multimediali» o i computer in dotazione alla scuola - come trattare gli schermi personali degli studenti e dei docenti, notebook, telefoni evoluti o tavolette che siano: proibirli? Tollerarli? O, addirittura, incoraggiarli? La domanda ricorre ormai da anni a ogni riapertura di anno accademico e scolastico.
L’avvento della prima tavoletta di successo, l’iPad della Apple, ci sta aiutando a rispondere con più consapevolezza alla domanda. Il problema, infatti, non è tanto lo schermo in sé, ma il fatto che lo schermo sia spesso privato, cioè visibile solo agli occhi dell’utilizzatore e non anche a chi sta condividendo con tale persona uno spazio e uno scopo, come quello di fare insieme lezione. La tavoletta, invece, per l’inclinazione con cui la si usa è molto più facilmente condivisibile di un computer fisso o portatile.
Permette al docente di vedere, anche solo con la coda dell’occhio, se lo studente sta facendo o no qualcosa di connesso (o comunque di, in qualche modo, compatibile) con la lezione, per esempio, una consultazione di Wikipedia. Un risultato analogo si potrebbe ottenere anche con i normali computer tramite un software che, all’interno dell’aula, preveda la condivisione degli schermi con i compagni e col docente, realizzando così un ragionevole compromesso tra la libertà (e il piacere) di muoversi secondo traiettorie di apprendimento almeno in parte individuali e lo scopo comune di passare alcune ore insieme a imparare qualcosa in maniera strutturata.
Questo è solo un esempio di come sia possibile iniziare a dare un ordine, né proibizionista né supino, alla tecnologia, agli schermi della nostra vita. Sforzi analoghi sono necessari anche negli altri contesti, visto che gli schermi saranno inevitabilmente sempre più numerosi e sempre più potenti (si pensi solo all’imminente diffusione di massa della tecnologia 3D). Con la riflessione, individuale e collettiva, riusciremo a mettere al loro posto anche queste colorate tecnologie della comunicazione, per arricchirci, a tutti i livelli, senza farci troppo sedurre o sviare.

* docente al Politecnico di Torino (demartin@polito.it)

«La Stampa» del 6 settembre 2010