DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

EVOLUZIONISMO UN CORNO. Studiare la storia del biologo Jacques Monod è un modo per capire perché le teorie darwiniste non reggono proprio più

di Roberto Volpi
Il caso non è un soggetto semplice e,
soprattutto, non è un’entità univoca.
Dire che il determinato evento o fenomeno
si è prodotto per caso non basta
affatto a fornirci le coordinate epistemologiche
di quell’evento o fenomeno.
I biologi evoluzionisti, che pure
hanno tanti meriti, dovrebbero meglio
rendersi conto di questa semplice verità,
per fare i conti fino in fondo con
l’eredità loro lasciata da Jacques Monod
nel suo fondamentale lavoro “Il
caso e la necessità”. Perché Jacques
Monod, straordinario biologo, non
aveva una visione lucida del caso e
della probabilità, cosicché, paradossalmente,
il suo principale assunto si
rivela a lungo andare claudicante, in
quanto attribuisce al caso quel carattere
assoluto e invariante che invece
non ha. Cosa afferma, in estrema sintesi
Monod? Che c’è un evento iniziale,
nella riproduzione sessuata invariante,
che spinge in avanti il processo
evolutivo. Che questo evento, consistente
in piccole mutazioni genetiche,
si produce a caso. Che queste mutazioni
entrano a far parte dell’invarianza
riproduttiva, e dunque si trasmettono
alle generazioni successive
a patto che apportino un vantaggio
adattativo, altrimenti finiranno per
perdersi. Che il giudizio sul vantaggio
adattativo è formulato dalla selezione
naturale che tradurrà le mutazioni favorevoli
in maggiore capacità riproduttiva
da parte dei portatori – ovvero
in un aumento della teleonomia, la capacità
di trasmettere alle generazioni
successive prestazioni e qualità delle
generazioni precedenti.
Sussistono ben pochi dubbi che
questo schema sia a tutti gli effetti
quello che opera realmente in natura.
Con una precisazione essenziale,
però, che Monod non fa e che non fanno
i biologi evoluzionisti che si sono
misurati col suo pensiero: le piccole
mutazioni genetiche si produrranno
certamente a caso ma i loro effetti sono,
diversamente da quelli prodotti
dal caso allo stato puro, talmente poco
casuali che tendono, proprio per
questa a-casualità, a condizionare
sempre di più l’operato stesso del caso,
che finisce così per essere a sua
volta sempre meno casuale.
Vediamo di spiegarci. E si prenda
l’esempio dell’apparato fonatorio
umano. Una identica mutazione casuale
può risultare del tutto improduttiva
o sommamente utile, dipende
dal “terreno” su cui cade. Homo è stato
beneficiato da mutazioni che perfezionavano
il suo apparato fonatorio,
ma soltanto in quanto un tale perfezionamento
poteva essere messo a
frutto e valorizzato dalla stazione eretta.
Niente stazione eretta niente valorizzazione,
nessun vantaggio. Per quel
che ne sappiamo mutazioni analoghe
possono essersi prodotte più volte negli
stessi primati, è anzi pressoché certo
che si siano prodotte, salvo che tra
di loro non hanno sortito effetti perché
la loro stazione non consentiva
che quelle mutazioni potessero attecchire
ed esser messe a frutto. Ma questo
equivale a dire che non c’è un “caso”
così dispoticamente padrone della
scena evolutiva come si supporrebbe,
e come del resto ci è stato insegnato
dall’evoluzionismo. L’azione del
caso è sottoposta a vincoli e condizionamenti
e in questo senso non è pienamente
casuale. Questi vincoli e condizionamenti,
d’altro canto, aumentano
quanto più aumenta la “complessità
totale” del panorama dei viventi.
L’aumento della complessità del mondo
vivente vincola il caso, in qualche
modo lo direziona, lo distorce, perfino.
Se, per ipotesi, si arrivasse a toccare
il massimo livello possibile di
complessità e adattabilità totali del
mondo vivente, l’azione del caso non
avrebbe più modo di esplicarsi, giacché
essa tende, attraverso il filtro della
selezione naturale, ad aggiungere
adattabilità, compatibilmente con la
complessità raggiunta e raggiungibile
da parte delle singole forme di vita.
Per dirla in parole forse fin troppo
semplici: è alquanto più agevole scrivere
su una lavagna pulita, sgombra,
che non su una che sia stata riempita
di una distesa di formule matematiche
come a volte se ne vedono nei
film. Il caso è il caso, ma anche la lavagna
è la lavagna e la lavagna della
vita, mano a mano che si riempie, costringe
il caso a essere sempre meno
casuale, ancor più negli effetti ch’è capace
di produrre.
Non c’è un caso soltanto, qui è il
punto. E il caso che c’è nella riproduzione,
nella evoluzione della vita, è il
caso meno casuale che sia dato conoscere.
La pallina della roulette riparte
per così dire da zero a ogni nuovo
giro, così come ogni mano di carte a
scopone scientifico come al poker è
sempre una nuova mano; ed è la stessa
cosa per il lotto e l’enalotto, per la
lotteria nazionale di capodanno come
per quella pasquale del barista sotto
casa che ha come primo premio, ogni
anno, un uovo di cioccolata così gigantesco
da non sapere che farne. La
lavagna, per continuare l’analogia, in
tutti questi esempi non si riempie mai
per la buona ragione che a ogni giro,
mano, colpo, estrazione, partita viene
cancellato il risultato precedente, cosicché
essa è sempre perfettamente
sgombra, in attesa di un nuovo risultato
che, una volta arrivato e scritto,
non potrà che essere cancellato a sua
volta dal risultato successivo, e così
via. Su lavagne come queste il caso ha
campo libero e può operare del tutto
casualmente. Ma solo su lavagne come
queste, che però hanno poco da spartire
con la lavagna dell’evoluzione
della vita e dei viventi. Perché questa
lavagna, diversamente, non viene
“mai” o quasi mai cancellata, ed è per
questo motivo che il caso, per quanto
possa prodursi proprio a caso, com’è
nella riproduzione sessuata, non sortisce
effetti davvero casuali, bensì
condizionati in misura crescente da
tutto quello che sta già scritto sulla lavagna.
Ciò equivale a dire che il caso
finisce per avere sempre meno possibilità
d’azione, sempre meno spazio
reale (siamo nel campo della probabilità
subordinata o bayesiana, dal nome
del suo inventore, e non della probabilità
oggettiva che per così dire misura
il puro effetto del caso). Fino a
quando la lavagna non sarà piena e il
caso non avrà più alcuno spazio, alcun
modo di operare. Non è molto realistico
supporre che la lavagna arriverà
a riempiersi del tutto, a maggior ragione
in quanto sul palcoscenico della
vita si sono avute e si possono sempre
avere distruzioni immani di complessità
e variabilità che sulle macerie
del passato lentamente ricreano
disponibilità di posti e ambienti,
aprendo così possibilità evolutive ad
altre forme di vita (puliscono la lavagna,
in certo qual modo, per quanto
cruento esso sia). Ma ciò non impedisce
a quello straordinario fattore evolutivo
che è e resta il caso di risultare
sempre più subordinato, nei suoi effetti
concreti, al livello già raggiunto
dalla complessità. E siccome questo
livello tocca col sapiens moderno una
vetta assoluta e capace di intervenire,
mutandoli e ridisegnandoli, sugli ambienti
e su ogni nicchia ecologica
ovunque dislocata, ecco che mai come
oggi si può sostenere che il caso stia
cedendo capacità e intensità evolutiva
proprio a quest’ultimo, al sapiens
moderno.
In effetti il caso è costretto ormai a
operare in presenza di un diverso ma
a sua volta potente fattore selettivo/
evolutivo rappresentato dall’uomo
e dal complesso delle sue attività e
azioni. Un fattore nient’affatto casuale
e che si interpone con forza crescente
(e speriamo con crescente
consapevolezza) tra la sempre più
problematica capacità del caso di apportare
“mutazione potenzialmente
evolutiva” da un lato e gli ambienti
entro i quali questa mutazione deve
essere vagliata dalla selezione naturale
dall’altro. La comparsa e l’evoluzione
di Homo, e segnatamente di
sapiens, e del sapiens moderno in
modo particolarissimo, rappresentano
così il più formidabile vincolo mai
apparso all’azione evolutiva del caso.
E ciò a maggior ragione in quanto
Homo ha ormai intercettato – si ricordi
– tutta quanta la casualità che
gli necessitava affinché, arrivando
dov’è arrivato, l’evoluzione culturale
gli consentisse di affrancarsi dalla
biologia e dalla stessa casualità. Cosicché
si può ben dire che sapiens affianca
oggi, per mano sua, con il suo
operato, una selezione generalmente
culturale a quella naturale e biologica
della selezione naturale. La selezione
naturale non è più, neppure essa,
come già il caso, padrona assoluta
del campo.
Ma c’è anche un altro punto, sempre
a proposito di selezione naturale,
di necessità, che deve essere riconsiderato.
Questa necessità, come sappiamo,
è di un ordine del tutto generale
che Richard C. Lewontin nel suo
“Biologia come ideologia” descrive
così: “Egli (Darwin) sostenne che c’era
una lotta universale per la sopravvivenza
perché nasceva un numero di
organismi superiore a quelli che potevano
sopravvivere e riprodursi e
che, nel corso di questa lotta per la sopravvivenza,
gli organismi che erano
più efficienti, meglio progettati, più
abili, e in generale meglio costruiti
per la lotta, avrebbero lasciato più
prole che non i tipi inferiori. Il cambiamento
evolutivo si verificava in
conseguenza di questa vittoria nella
lotta per la sopravvivenza”.
La lotta per la sopravvivenza cui si
rifà Darwin è direttamente mutuata
dalle idee di Thomas Malthus e dal
suo “principio di popolazione”, secondo
il quale mentre la produzione
di risorse cresce in progressione aritmetica
la popolazione aumenta, se lasciata
libera di farlo, secondo una progressione
geometrica ben più accelerata
di quella aritmetica, cosicché si
avrà sempre una lotta all’ultimo sangue
degli individui tra di loro per cercare
di accaparrarsi le perennemente
insufficienti risorse, e in questa lotta
finirà sempre per spuntarla chi è meglio
attrezzato e ha per così dire le
spalle più solide e coperte.
Chiunque abbia letto Darwin sa che
egli colloca la lotta per la sopravvivenza
in un universo che si è già ben
distaccato dal muro rappresentato
dalla complessità così modesta del
batterio, ovvero dal muro dell’unicellularità.
L’unicellularità in certo senso
non è che il primo passo verso la
complessità (e la molteplicità, la variabilità),
quello che prepara la strada
alla complessità. Un primo passo lunghissimo,
e lentissimo da compiersi,
ma proporzionato alla qualità e all’ampiezza
del salto dalla semplicità
nella complessità. Beninteso: forse la
vita, da qualche parte dell’universo –
semmai ce n’è di vita nell’universo, e
non è detto affatto che ce ne sia, specialmente
in forme complesse – può
non farcela a discostarsi dal muro
rappresentato dalla semplicità del
batterio; ma in questa eventualità non
c’è chi non veda come, specialmente
se rapportata allo sviluppo che ha
avuto sul nostro pianeta, questa sua
semplicità rappresenti ad un tempo,
per così dire, la realizzazione e la conclusione,
per non dire proprio la tomba,
della vita stessa. La vita è infatti
un po’ come uno stadio di calcio che
ha bisogno di riempirsi ogni domenica
per giustificare la sua funzione, la
sua stessa esistenza. Anche la vita, per
non smentire se stessa, per non tornare
indietro fino a schiacciarsi contro il
muro biologico che la separa dalla
non vita, ha bisogno di riempirsi di vita
come uno stadio di spettatori, ovvero
di complessità, molteplicità, variabilità.
La complessità, essendoci le
condizioni affinché lo stadio della vita
si riempisse, è stata a un tempo la
sua fortuna e il suo compimento, il suo
caso e la sua necessità. Paradossalmente,
non c’erano alternative, una
volta che la semplicità del batterio
aveva colonizzato la terra e la biosfera,
strutturando una molteplicità di
ambienti che potevano ospitarla, alla
complessità.
Ma in quest’ottica dei “posti liberi”
esistenti nello stadio della vita e che
non potevano non esistere per far posto
alla complessità, forse non è neppure
così rispondente al vero l’immagine
di una guerra di tutti contro tutti,
ciascun organismo in lotta contro
tutti gli altri per occupare e ampliare
il suo spazio, la sua nicchia, le sue
possibilità e potenzialità riproduttive
che Darwin trasse direttamente da
Malthus. La necessità della lotta per
la sopravvivenza di cui parla Darwin
è sostanzialmente quella di un mondo
vivente già straordinariamente affollato
di complessità. La complessità si
è aperta il varco nel mare della semplicità
batterica non soltanto grazie
alle condizioni ecologiche create dagli
stessi batteri nel lunghissimo periodo
di tre miliardi di anni, ma anche
grazie alla cosiddetta legge dei
rendimenti crescenti, formulata per
primo dall’economista Brian Arthur.
Questa legge, in quanto nata nel seno
dell’economia, è riferita dal suo autore
alla sfera economica. Ma qualcosa
di molto importante è capace di suggerisci
anche e proprio a proposito
del perché, della ragione e del successo,
della complessità. L’interrogativo
dell’economista Brian Arthur è
del tipo: “Perché le aziende ad alta
tecnologia” si sono “azzuffate per trovare
un posto nella Silicon Valley attorno
a Stanford, piuttosto che ad Ann
Arbor o a Berkeley?”. La risposta è la
più semplice e decisiva al tempo stesso,
in quanto va ben al di là dello specifico
economico. “Perché in quel luogo
c’era già un buon numero di società
ad alta tecnologia. A chi ha sarà
dato”. A un certo punto si producono
degli addensamenti, dei veri e propri
poli di grande complessità – industriali
e produttivi, in questo caso –
semplicemente perché qualcuno ha
cominciato a fare, con successo, qualcosa
in un determinato ambiente.
Non per altro. Chiaro che se questo
qualcuno non avesse avuto successo
nessuno lo avrebbe seguito o, per bene
che andasse, solo qualche altro intemerato
ci avrebbe riprovato molto
tempo dopo, quando giusto il tempo
avesse cancellato anche il ricordo di
quello sfortunato precedente. Ma il
successo crea l’emulazione e quest’ultima
finisce per ampliare a dismisura
le dimensioni del primo. Ciò
è vero sempre e comunque, in economia
come in biologia, nel gioco del
calcio come sul palcoscenico dell’evoluzione.
Questa legge dei rendimenti
crescenti, che a un certo punto
ha cominciato a premiare proprio la
complessità grazie al successo ottenuto
da qualche forma di vita più
complessa di altre, e che può aver dato
luogo a una vera e propria corsa alla
complessità biologica simile alla
corsa produttivo-tecnologica che ha
portato gli uomini a compiere negli
ultimi cinquant’anni un cammino più
lungo di tutta quanta la storia precedente
(un Cambriano tecnologico anziché
biologico, in fondo), comporta
ben più un allargamento di possibilità
che non un loro restringimento,
un dare piuttosto che un togliere opportunità
e occasioni, pur se tutto ciò
sembra – ma non lo è – in opposizione
allo spirito stesso di questa legge di
provenienza evangelica: a chi ha sarà
dato. Il punto è che in molti, in moltissimi
possono avere, e non in pochi.
Non sussistono dubbi, visto l’esito
ch’è sotto gli occhi di tutti, sul fatto
che deve esserci stato un periodo,
quello dello sviluppo della complessità
e della molteplicità delle forme
di vita, in cui a molti, a moltissimi organismi
viventi è stato dato, e che
quindi hanno potuto affinarsi e affermarsi
più in una sorta, se si può dir
così, di interazione reciproca che non
nella lotta per vicendevoli annientamenti.
Il darwinismo, e l’evoluzionismo
tout court, sembrano entrare in
qualche difficoltà se considerati in
rapporto non tanto con la complessità
in sé quanto piuttosto con la sua spropositata
affermazione, con l’affermazione
della varietà, del moltiplicarsi
ininterrotto e brulicante delle diverse,
le più lontane e le più differenziate
tra di loro, eppure tutte coabitanti
e in qualche modo interagenti, forme
di vita. Un trionfo di queste dimensioni
della complessità e della varietà,
infatti, non si concilia fino in
fondo con il principio di una spietata
e ininterrotta lotta di ciascuno contro
tutti. Se questa lotta fosse stata in atto
sin dall’origine con la spietatezza
che le viene comunemente attribuita
la molteplicità non avrebbe potuto attecchire,
non almeno nella misura in
cui invece lo ha fatto, sarebbe stata
contrastata e risospinta indietro di
continuo da quella stessa spietatezza
che non tollera contendenti e che, se
appena può, toglie di mezzo, leva dal
mondo, esclude dalla vita – anzi, per
dirla con Malthus, “dal banchetto della
vita”. Mentre invece abbiamo assistito
a un’inclusione, piuttosto che a
un’esclusione, di forme di vita. Il successo
non effimero delle singole forme
di vita e della loro molteplicità,
questo è il punto, è la costante dell’evoluzione
in quanto, come abbiamo
detto, c’è, in linea generale, il posto e
– essendoci il posto – non tutto è lotta
all’ultimo sangue né tra gli individui
di una stessa specie né tra individui
di specie diverse.
Come dire, insomma, che il caso
non è così casuale e la selezione naturale
non così compiutamente selettiva
come ce li hanno descritti e come continuano
a descriverceli biologi evolutivi,
paleontologi, genetisti e varia
umanità scientifica più o meno rigorosamente
darwinista-monodiana e al
fondo malthusiana.

Il Foglio 29 dic. 2009