DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Le mille luci della rivolta verde. Così la piazza travolge e stravolge le liturgie del regime d’Iran

Roma. “Bebakhshid, bebakhshid”, grida il bassiji caduto
a terra consapevole di rischiare il linciaggio. Scusa, scusatemi,
grida il giovane picchiatore, “io non voglio uccidere
i miei fratelli” implora mentre i manifestanti lanciano
pietre, i compagni del bassiji-ostaggio si ritirano, la folla
conquista la piazza, e il fumo dei lacrimogeni è inghiottito
da quello delle moto in fiamme dei giustizieri di Ali
Khamenei. La mattina dopo la domenica di Ashura, lo
speaker della tv di stato ha illustrato la devastazione dei
controrivoluzionari, ha ammesso l’uccisione di quindici
manifestanti e la macchina della repressione è tornata a
funzionare a pieno regime con nuovi lanci di lacrimogeni
e nuovi prigionieri eccellenti, ultimo in ordine di tempo
Ebrahim Yazdi, collaboratore di Khomeini, già ministro
degli Esteri, da tempo critico nei confronti di Khamenei e
della sua nomenklatura. La polizia ha fatto irruzione nell’ufficio
dell’ex presidente riformista, Mohammed Khatami
e ha arrestato almeno sette figure di spicco del fronte
“riformista”. La famiglia di Ali Moussavi, il nipote di Mir
Hossein Moussavi ucciso domenica, ha denunciato la
“sparizione” del suo corpo. “Nessuno si prende la responsabilità
per questa sottrazione – ha spiegato il fratello della
vittima a Parlemannews – ovviamente non può esserci
funerale prima del ritrovamento del corpo”. Le immagini
delle piazza in tumulto correranno anche su Facebook e
su YouTube, ma i riti che alimentano la protesta sono antichi
e, non potendo vietarli, il regime fa quello che può
per sabotarli. Dopo aver esaltato per trent’anni, gli shahih,
i martiri – martiri santi come l’imam Hossein, martiri della
rivoluzione, martiri della guerra Iran-Iraq – la Repubblica
islamica si trova a lottare contro la stessa liturgia
che ha conculcato. Ogni funerale crea un mito: oggi Ali
Moussavi, ieri Neda Agha Soltan o Sohrab Arabi.
Ma oltre che nei social network la rivolta vive nei luoghi
e nelle occasioni più care allo sciismo. Khamenei ha
moltiplicato gli uffici di propaganda incaricati di sorvegliare
lo svolgimento delle sacre cerimonie, ma è impossibile
che il controllo possa essere capillare in tutti gli angoli
delle paese. Così accade che i rituali di Moharram e
Sahar si tingano di venature politiche con maddah, predicatori
improvvisati che lanciano accuse più o meno velate
al sistema, e accade anche che, privi di altre occasioni
di incontro, ragazzi e ragazze sfruttino le festività per flirtare
– una deriva denunciata più volte dalle autorità – ma
anche per scambiare opinioni politiche e “complottare”
la rivolta. Per le strade iraniane non ci sono soltanto universitari
sofisticati, ma anche una gran quantità di ragazzi
tradizionali, religiosi, di un’estrazione solitamente amica
e non nemica del sistema. Se a riempire le piazze vi fossero
soltanto borghesi non si spiegherebbero le manifestazioni
in zone rurali e città molto religiose, e se i manifestanti
fossero soltanto i supporter di Moussavi non si
spiegherebbe la virulenza degli slogan sempre criticata
dal leader dell’onda verde. Si sottovaluta spesso che le
proteste post elettorali si saldano su una storia di disobbedienza
civile che turba da anni i sonni di Khamenei.
Una disobbedienza cresciuta attraverso momenti eclatanti
– le manifestazioni degli universitari del ’99 quando la
maglietta insanguinata di Ahmad Batebi sull’Economist
divenne il primo simbolo della malattia del regime, quelle
più borghesi dell’estate del 2003 con le strade di Teheran
bloccate per giorni da macchine piene di donne e
bambini, la rivolta del sindacato fuorilegge dei conducenti
d’autobus del dicembre 2005 o quella dei mistici sufi
nello stesso anno. La protesta monta da anni con i graffiti
sui muri o sulle banconote: negli ultimi mesi centinaia di
migliaia di rial sono stati marchiati con una v verde di vittoria,
si alimenta nelle botteghe di quartiere e nei mall alla
moda dove alla cassa ci si segnala gli uni agli altri se un
prodotto è pro o anti regime, molti beni pubblicizzati sulla
tv di stato sono boicottati, così come i telefoni cellulari
delle società che passano tecnologia “cattura manifestanti”
alla task force contro “i terroristi”.
Il difetto di leadership della protesta iraniana non può
essere ignorato. Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi
viaggiano a velocità diversa rispetto ai verdi che li invocano
e la loro agenda non ha molto a che spartire con quella
dei leader studenteschi; non perfettamente coincidenti
sono anche le istanze di Mansour Osanlou, carismatico
leader sindacale da anni ostaggio dei centri di detenzione
del regime. La piazza ha dei leader, ma nessun Gandhi
e nessun Mandela come era stato ingenuamente preconizzato
da alcuni sull’onda dell’emozione di giugno. La rivolta
ha una strategia – stravolgere e portare a proprio vantaggio
le liturgie del regime – ma le manca un’agenda comune.
Per questi e altri peccati originali c’è chi vaticina
Tian An Men e chi la chiama “Intifada iraniana”. Ma se di
questi tempi può capitare che un bassiji implori perdono,
se le fratture del regime continuano ad approfondirsi e il
partito di mezzo che teme il potere del sangue si allarga a
capitani pasdaran, burocrati, businessmen e grand commis
del regime, allora la corsa tutt’altro che solitaria della
piazza non si ferma.

Il Foglio 29 dic. 2009