DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il lato oscuro della rete. Il web invaso da minacce e insulti

Gian Antonio Stella
Tratto da Il Corriere della Sera del 15 dicembre 2009

Ma davvero «in democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchez­ze più grandi che crede», come teorizzò nel 2003 l’al­lora ministro della Giusti­zia Roberto Castelli metten­dosi di traverso alla legge europea che voleva ridefini­re i reati di razzismo e xe­nofobia? Roberto Maroni, vista l’immondizia che tra­bocca online a sostegno dell’uomo che ha scaraven­tato una statuetta in faccia a Silvio Berlusconi (c’è chi si è spinto a scrivere: «Gli doveva rompere il cranio a quel testa d’asfalto!») pen­sa di no. E ha ragione. Se è vero che la nostra libertà fi­nisce là dove inizia la liber­tà degli altri, anche la liber­tà di parola, cioè il bene più prezioso dell’oro in una democrazia, ha un li­mite. Che non è solo il buon senso: è il codice pe­nale.

Ci sono delle leggi: l’ist­i­gazione a delinquere e l’apologia di reato vanno puniti. Uno Stato serio non può tollerare che esista una zona franca dove di­vampa una guerra che quo­tidianamente si fa più aspra, volgare, violenta. Co­me ha spiegato Antonio Ro­versi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro del web «è popolato da indivi­dui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idio­mi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma im­portante eccezione, il lin­guaggio della violenza, del­la sopraffazione, dell’an­nientamento». Tomas Mal­donado l’aveva già intuito anni fa: «In queste comuni­tà elettroniche cessa il con­fronto, il dialogo, il dissen­so e cresce il rischio del fa­natismo. Web significa Re­te ma anche ragnatela. Una ragnatela apparentemente senza ragno, dove la comu­nicazione, a differenza del­la tivù, sembra potersi eser­citare senza controllo». Ma più libertà di odio è più de­mocrazia? È una tesi dura da sostenere. E pericolosa. Perché, diceva Fulvio To­mizza, che aveva visto il suo piccolo paradiso istria­no disintegrarsi in una fai­da etnica un tempo inim­maginabile, «devono anco­ra inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».

Colpire Internet, dicono gli avvocati di Google de­nunciata per certi video in­fami su YouTube (esem­pio: un disabile pestato e ir­riso dai compagni) «è co­me processare i postini per il contenuto delle lettere che portano». E lo stesso ministro degli Interni non si è nascosto la difficoltà di avventurarsi in battaglie in­ternazionali contro un gi­gante immenso e impalpa­bile. Peggio, c’è il rischio di far la fine dello scoiattoli­no dell’«Era glaciale»: a ogni forellino che tappa, l’acqua irrompe da un’altra parte. Ancora più rischio­so, però, sarebbe avviare una (giusta) campagna con­tro solo una parte dell’odio online. Trascurando tutti gli altri siti che tracimano di fiele come quelli che im­punemente scrivono d’un «olocausto comunista per­petrato dalla mafia razzista ebraica responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei», di «fottuti schi­fosi puzzoni stramaledetti sporchi negri mangiabana­na», di «maledetti zingari immigrati razza inutile sporca da torturare», di re­spingimenti da abolire per­ché «la soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri». Non puoi combattere l’odio se non lo combatti tutto. Andan­do a colpire sia i teppisti razzisti che sputano online su Umberto Bossi chiaman­dolo «paralitico di m.» sia quanti aprono gruppi di Fa­cebook intitolati «Io odio Di Pietro» o «Uccidiamo Bassolino». Mai come sta­volta, però, il buon esem­pio deve venire dall’alto. Occorre abbassare i toni. Tutti.