DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Quello scatto online che rivela tutto di noi ora il marketing va a caccia di selfie



LUCA DE VITO

LA CACCIA ai selfie da parte
delle aziende è cominciata.
Perché in un autoscatto,
come in una semplice fotografia
postata sui social
network, possono nascondersi
informazioni preziosissime per
grandi e piccoli marchi. Indicazioni
sotto traccia che raccontano
il comportamento dei consumatori
e che, una volta ripescate
attraverso l’analisi delle immagini,
possono dettare nuove
strategie aziendali o indirizzare
le major su specifiche campagne
pubblicitarie. Per questo
motivo, sempre più spesso, le
aziende si rivolgono a società
che si occupano di analizzare i
profili social pubblici alla ricerca
di loghi e brand che appaiono
sulle nostre fotografie. Come?
Attraverso l’uso di software di
“image recognition” — simili a
quelli che Facebook usa per il riconoscimento
dei volti quando
ci suggerisce di taggare una foto
— che sono in grado di riconoscere
la presenza di un marchio
in uno scatto anche se questo
non è accompagnato da riferimenti
testuali diretti, come
citazioni nel post o hashtag.
Società come le americane
Ditto Labs e Piqora hanno fatto
di questa tecnologia un business,
concentrandosi soprattutto
sui social
network che prediligono
l’uso delle immagini come
Instagram, Pinterest
e Tumblr. E riuscendo
a conquistarsi
clienti
“pesanti” come
Coca
Cola,
Adidas,
Cadillac
e
Kraft. Scandagliando
la valanga
di fotografie
che quotidianamente
vengono pubblicate sui
profili social (è stato calcolato
che siano all’incirca 1,8
miliardi al giorno), riescono a
fare indagini di mercato molto
dettagliate. Un’“arma” che,
nell’era in cui a dominare il web
sono le immagini, fa gola a qualsiasi
direttore di un ufficio
marketing. «Uno degli aspetti
più interessanti è che questi dati
possono essere incrociati —
spiega Gaia Rubera professore
associato di marketing all’università
Bocconi — così le aziende
possono ricavare moltissime
informazioni, come l’orario in
cui la foto è stata scattata, se
l’autore era in compagnia o da
solo e se il marchio è associato a
un preciso stato d’animo. Non
solo: analizzando i selfie, ad
esempio, Adidas ha scoperto
che il 13 per cento dei propri
clienti è anche un fan di Justin
Bieber, Heineken che i fan dei
Metallica preferiscono la propria
birra, mentre i fan di
Beyoncé sono gran bevitori di
Smirnoff Ice».
Un caso pratico di come le
aziende sfruttino queste informazioni
è quello dell’americana
Chobani, produttrice di yogurt.
Quando hanno scoperto
che molte persone negli Stati
Uniti pubblicano selfie mentre
sono in macchina e mangiano
yogurt, hanno deciso di creare
una linea di confezioni pensata
apposta per essere consumata
in automobile. Oppure il caso di
una major statunitense di bevande
gassate che ha assoldato
Ditto Labs per scoprire come gli
adolescenti interagiscono con il
loro marchio: una ricerca che ha
portato a un radicale cambio di
strategia nelle sponsorizzazioni
e nel design delle bottiglie.
Anche in Italia si comincia a
esplorare questa nuova frontiera
del marketing. «Abbiamo ricevuto
molte richieste da parte
di marchi italiani — spiega
Benjamin Shannon di Ditto
Labs — e l’attenzione per la nostra
tecnologia è forte da voi. In
Italia i più interessati sono i
brand del lusso che hanno uffici
marketing molto esperti e che
vogliono sfruttare le foto per
avere vantaggi sulla concorrenza
». Perché se da una parte
questa tecnologia può essere
usata per conoscere meglio i
propri clienti, dall’altra può essere
sfruttata anche per “studiare”
gli avversari.
A far discutere sono gli aspetti
legati alla privacy che hanno
già sollevato polemiche. Perché
a molti l’idea che le aziende scavino
nelle immagini di vita quotidiana
alla ricerca di informazioni
commerciali non va giù.
L’accusa rivolta a queste società
è quella di sfruttare i selfie
a fini commerciali, senza chiedere
alcun tipo di autorizzazione
agli utenti. Ditto Labs ha
però spiegato che si tratta di
analisi che vengono svolte
esclusivamente su profili pubblici
e che da anni si fanno ricerche
di mercato utilizzando le
informazioni che tutti i giorni
pubblichiamo sui social. «La
reazione immediata è quella di
sentirsi controllati in tutto, anche
nella sfera privata — aggiunge
la Rubera — ma la scelta,
alla fine, è sempre del consumatore:
anche nel momento
in cui pubblichiamo una foto online,
dobbiamo assumerci la responsabilità
di quello che facciamo

».

La Repubblica, 10 febbraio 2015

Il futuro? È adesso. Essere sempre «accesi» e connessi. Vivere tutto in tempo reale: a dettare il ritmo è il tempo di Internet. Il rischio? Non essere più ancorati e perderci in un eterno presente


di Daniela Monti




Non c’è più tempo per pensare: bisogna agire, e farlo in fretta. La velocità è tutto. Bisogna esserci adesso. Prendiamo la bufera mediatica che si è scatenata attorno al marchio Moncler dopo la messa in onda dell’inchiesta di «Report» sull’imbottitura dei suoi piumini: il fatto che l’azienda non abbia risposto in tempo reale con una contro-campagna dello stesso impatto è stato letto da molti come segnale di debolezza. «Perché non reagiscono?», si sentiva dire qua e là. Tentennare, prendere tempo, attendere di trovare la risposta giusta sono atteggiamenti che non possono più fare parte del nostro agire quotidiano. «La nostra società si è orientata verso il presente: oggi tutto è live, in tempo reale, senza un momento di tregua. Non si tratta di una semplice accelerazione, sebbene il nostro stile di vita e la tecnologia abbiano velocizzato i tempi delle nostre azioni — scrive Douglas Rushkoff in uno dei testi più apprezzati sull’argomento, Presente Continuo(Codice Edizioni) —. Si tratta piuttosto di un ridimensionamento di tutto ciò che non sta accadendo adesso, e dell’assalto di ciò che invece, almeno apparentemente, è il nostro presente più immediato».
La parola assalto rende bene l’idea: la nostra attenzione è ostaggio di ciò che capita adesso. Nei giorni in cui Donna Tartt ha vinto il Pulitzer, chi non ha letto il suo «Cardellino» è stato tagliato fuori da qualsiasi discussione. Lo stesso è accaduto con Patrick Modiano dopo il Nobel. Ma, passato l’attimo, il quadro è cambiato e la triste verità è che siamo sempre più in difficoltà ad articolare un discorso sensato sui libri, sulla musica o sui film usciti appena il mese scorso. Rushkoff sintetizza con una battuta fulminante questo nostro nuovo vivere schiacciati sull’adesso: se la fine del ventesimo secolo è stata caratterizzato dal futurismo, il ventunesimo potrebbe essere il secolo del «presentismo». In qualsiasi attività siamo impegnati — dalla preparazione di una relazione in ufficio al portare i bambini a scuola — è assolutamente certo che verremo interrotti dal telefono che squilla, dalla luce che lampeggia sullo smartphone, dal suono emesso dall’iPad ad ogni notifica di Twitter. Certo: potremmo resistere e rimandare a più tardi la telefonata, la lettura della mail o del tweet, ma chi lo fa davvero? E se ci perdiamo qualcosa non rispondendo adesso?
Tutte queste interruzioni creano la sensazione di «dover tenere il passo con il loro insostenibile ritmo, per timore di perdere il contatto con il presente», dice ancora il teorico americano. Non è più la vecchia storia del multitasking, cioè del fare più cose contemporaneamente (una lezione che tutti abbiamo già imparato). La questione è più sottile: chi comanda il gioco? Chiaramente, non siamo più noi, ma la tecnologia. Che con Internet — il quale vive sull’istantaneità — detta il tempo delle nostre giornate, dei nostri interessi, persino delle nostre decisioni (soprattutto in periodo elettorale diventa evidente a tutti come i politici si affidino a valutazioni in tempo reale per correggere programmi e dichiarazioni sulla base delle reazioni del pubblico che segue live i dibattiti in tv). Fare un progetto a lungo termine, organizzare la propria vita in funzione di un obiettivo da raggiungere, procedere con lo sguardo dritto in avanti è diventato più difficile. Non solo per la mancanza di prospettive, soprattutto per i giovani (di cui Silvia Avallone sintetizza efficacemente lo stato d’animo: si sentono «braccati in un eterno presente, non possono fare progetti, non possono costruire un percorso per più di tre mesi di fila e “poi si vedrà”»). Ma per quell’«assalto» continuo dell’adesso che distrae, fa deragliare, infila un’emergenza dietro l’altra senza soluzione di continuità. Così spendiamo le energie migliori per riuscire a stare a galla. Non progettiamo, improvvisiamo.
Anche il rapporto Censis richiama l’idea del «presentismo» e, per descriverci, usa queste parole: siamo «sempre più impegnati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro». E se è vero che già nel nostro carattere nazionale c’è l’inclinazione a subire il fascino dell’adesso e di tutto ciò che è immediato (il filosofo Roberto Esposito ne fa una questione di carattere: «Gli italiani hanno sempre avuto una maggiore sensibilità per quanto è contingente, concentrato nella singolarità dell’evento, sottratto ad un progetto di lunga durata»), Internet e l’ossessione contemporanea per il live ci hanno spianato la strada. Google e i suoi fratelli sono maestri nel disorientamento temporale: i risultati di una ricerca mescolano tutto nella stessa schermata, l’articolo più recente con lo studio di vent’anni fa, cancellando il percorso che separa l’uno dall’altro. Tutta la conoscenza viene portata nel presente. «Quindici minuti passati su Facebook fondono le amicizie delle scuole elementari alle richieste di contatti futuri: tutto ciò che abbiamo vissuto e tutti quelli che abbiamo incontrato vengono compressi in un presente virtuale. Viviamo le nostre età tutte insieme: non c’è nulla che possiamo lasciarci alle spalle una volta per tutte. A svanire non è solo il confine fra pubblico e privato, ma anche la distanza fra presente e passato», scrive ancora Rushkoff.
Umberto Eco si è spinto a chiamare «malattia generazionale» quell’«appiattimento del passato in una nebulosa che non dovrebbe avere giustificazioni, viste le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet. Ma la memoria in alcuni (molti) giovani si è contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere». Presi dall’ossessione del presente, finiamo, o fingiamo, di non accorgerci che gran parte delle informazioni a ciclo continuo che riceviamo quando ci raggiungono sono già superate. I risultati, in fondo, sono comici. Come nel dialogo geniale sul potere dell’adesso fra Lord Casco e il colonnello Nunziatella in «Balle spaziali» di Mel Brooks: «Che è successo al prima?» «È passato». «Quando?». «Adesso. Siamo all’adesso, adesso». «Torniamo al prima!». «Non possiamo». «Perché?». «Perché l’abbiamo superato!». «Quando?». «Adesso!».

Pin&segreti. La vita nascosta delle password ovvero quel che c’è dietro la digitazione matta e disperatissima



di Annalena Benini | Il Foglio 30 Novembre 2014

Anche mentre invochiamo la loro scomparsa, e facciamo clic su “password dimenticata”, e creiamo una nuova password che presto andrà a raggiungere le altre nell’inferno delle password cancellate, rimosse, aggiornate, stiamo affidando a una breve combinazione di lettere, numeri e segni di interpunzione, un pezzo della nostra vita. Un segreto, un’ossessione, la data di nascita di qualcuno di speciale. In una delle prime puntate di “The Affair”, serie televisiva americana che racconta, con gli occhi di lui e di lei, il tradimento dei rispettivi coniugi, lui la porta sulla spiaggia di famiglia, di notte. La porticina si apre solo con la password, cioè la data di nascita della moglie (e lui la sbaglia un paio di volte). Si siedono sulla sabbia, al buio: lui le spiega che la fedeltà è importante e che tra loro non potrà mai succedere niente. Lei è delusa (nello sguardo di lui), si alza e se ne va. Lui fissa le onde del mare, pensa al grande sacrificio che ha appena compiuto, si sente un po’ eroe e un po’ cretino, torna pensieroso verso la villa del suocero, dove si sta svolgendo una festa, e trova ancora lei lì, scalza, ferma davanti alla porticina chiusa: “Scusa, non conosco il giorno del compleanno di tua moglie”. Si guardano e l’adulterio è compiuto. Con la password lì in attesa, sconosciuta a lei e notissima a lui, banale data di nascita che avrebbe dovuto proteggere la trama di quel matrimonio. La vita segreta delle password, ha scritto il New York Times.

Ognuna protegge qualcosa, richiama alla memoria una storia importante. Anche se le detestiamo, le perdiamo, cerchiamo di utilizzare sempre la stessa con risultati catastrofici per la sicurezza dei nostri conti e della nostra vita privata (una moglie, se vuole, sa sempre come scoprire una password, e dove tutte le date di nascita e i nomi delle ex e dei gatti falliscono, trionfa la memorizzazione visiva: basta osservare, con falsa noncuranza, i movimenti veloci delle dita sulla tastiera, e subito provare a riprodurli), anche se non vediamo l’ora di venire liberati dalla responsabilità della protezione (se ci rubano la password, o se la dimentichiamo, possiamo dare la colpa soltanto a noi stessi), non succede mai di scegliere una parola a caso, una numerazione insensata. Con la scusa della memoria, affidiamo alla password i dettagli che, scrive il Nyt, ci rendono gli individui che siamo: un mantra motivazionale (Quit@smoking4ever: ha funzionato; chiamamamma@sunday: ha funzionato, e il possessore di questa password telefona a sua madre una volta alla settimana), una cicatrice emotiva, il nome dell’uomo che abbiamo perduto, o solo qualcosa di bello, che sia piacevole da digitare, da evocare. E’ un’invenzione minuscola, fastidiosa, ma quasi sempre venata di pathos, malizia, nostalgia, o amore. E’ come un tatuaggio su una parte nascosta del corpo, e se ci pentiamo possiamo cambiarlo. Basta chiedere a un certo numero di persone, con vincolo di segretezza, quali siano le loro password, per capire che ognuna racconta una storia, una fidanzata, un figlio, un rancore. Nessuno però è così spudorato da usare come password la data di nascita dell’amante: il mondo delle password (carte di credito, posta elettronica, banca), anche se segreto, è piuttosto moralista, e ognuno dentro di sé immagina una catastrofe, un accidente imprevedibile che lo costringa un giorno a rivelare e spiegare quelle sei cifre scandalose. Meglio conservare l’innocenza, almeno nel pin della carta di credito.



Sull'orlo dell'abisso. Internet, sesso e giovani. E molti approfondimenti


No alla censura. Un grido s'alza fiero a destra, a sinistra, al centro. Globalizzazione del diritto di espressione e altre amenità del genere post-sessantottino. Colpisce l'attenzione spasmodica per la rete registrata in queste ore. Eppure qualcosa non quadra. Internet sembra esser diventato un totem di libertà, inattaccabile. E' la rivoluzione moderna che ha dilaniato frontiere e ha fatto del mondo un fazzoletto, ci si dice. Vero, ma si dimentica troppo in fretta che, comunque, di realtà virtuale si tratta. E che non vi è distinzione, il Web abbatte ogni frontiera, comprese quelle del lecito e dell'illecito. Ne parlava Benedetto XVI, circa la legge naturale e la sua figlia più nobile, l'equità che resiste alla "tirannia del principe" e difende la vita, il matrimonio, la giustizia.

Ma già scriveva Blaise Pascal: "È vero che ci sono leggi naturali, ma la ragione corrotta ha tutto corrotto". Se crollano le frontiere dell'equità, della sacralità della vita e della persona umana, allora le conseguenze sono tragiche. Su adulti, ragazzi e bambini. Perché non si può parlare di regole? Perché si sbatte subito in faccia la parola censura a tagliar corto ogni discussione? Si inscenano proteste e indignazioni per la mercificazione del corpo della donna e si tace della pornografia a portata di mouse che avvelena occhi, mente e cuore di milioni di persone. E di ragazzi. E di bambini. Nessuno che prenda di peso questa situazione tragica. Chiunque, in questo istante, può accendersi il computer, e con due clic entrare nel letame avvelenato della pornografia più estrema. 

Di questa finestra costantemente aperta sulla pornografia, capace di azzerare la purezza e di graffiare l'anima con conseguenze irreparabili, non se ne parla.

Facebook e i social network che fanno delle persone dei pupazzi cangianti abito ad ogni occasione sono già un macigno sul cuore. La loro subdola perversione è invasiva, stordisce le personalità, cancella la capacità di relazione, trasforma in ipocriti permanenti i frequentatori. Pensiamo ai giovani indifesi che vivono appesi alla propria pagina, al blog, alla catena di amici, all'espressione della faccetta che risponderà alla propria foto o al proprio soliloquio, come pesci muti impigliati nelle maglie di una rete che stringe sino a soffocare.

Ma soprattutto pensiamo ai giovani, ai bambini mandati al macello della pornografia gratuita. Che ne sarà di loro, dei loro sentimenti, dei loro amori, delle loro famiglie, dei loro figli? Che ne sarà se la fonte dei loro sguardi, dei loro pensieri sarà avvelenata da immagini demoniache che uccidono, accidenti se uccidono, la gioia, la semplicità, la spontaneità. "Il degrado sessuale, presentato spesso dalla televisione e da internet come divertimento. Mi domando come potrebbe uno che fosse posto faccia a faccia con persone che soffrono realmente violenza e sfruttamento sessuale spiegare che queste tragedie, riprodotte in forma virtuale, sono da considerare semplicemente come "divertimento"" (Benedetto XVI, Discorso ai giovani, sul molo di Barangaroo, Sydney, 12 luglio 2008).

Censura? Sarebbe ancora poco. Sarebbero da polverizzare siti e industrie che vi sono dietro, commercio assassino di anime e corpi. Ma nessuno dirà mai una parola, l'indignazione un tanto al chilo è riservata all'istante modaiolo. E non è indignazione, è anch'essa un ibrido virtuale. Statene certi, nessuna regola vera arriverà mai, nessuna censura, e la morte continuerà ad essere a disposizione di tutti. Come le sigarette che impacchettano tatuate di teschi e di avvisi da raggelare. Ti vendono la morte, ma ti avvertono che potresti morire. Come i siti pornografici che ti invitano a non entrare se non sei maggiorenne. E con questo ecco pronto il disclaimer, declinata ogni responsabilità, della tua reale sorte non importa a nessuno. Importano i denari, come i trenta che costò la vita dell'Autore della Vita.

Benedetto XVI, con le parole che pronunciò a Sydney, ci indica il cammino per difenderci, anzi, molto di più, per vivere pienamente nella "ricerca del vero, del bene e del bello". E così compiere "le nostre scelte", esercitando "la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello", trovare "felicità e gioia". Ed il cammino, ci disse il Papa, non può che essere battesimale, alle radici della nostra elezione, della Vita vera. "Cristo offre di più! Anzi, offre tutto! Solo lui, che è la Verità, può essere la Via e pertanto anche la Vita. Così la "via" che gli Apostoli recarono sino ai confini della terra è la vita in Cristo. È la vita della Chiesa. E l’ingresso in questa vita, nella via cristiana, è il Battesimo". Il Battesimo al centro del combattimento, la Grazia da gestare in noi attraverso la Chiesa, in un cammino serio di conversione che conduca alla fede adulta. Essa è la fonte della nostra gioia, e quella dei nostri figli. Infatti "Nel giorno del Battesimo Dio vi ha introdotto nella sua santità (cfr 2 Pt 1,4). Siete stati adottati quali figli e figlie del Padre e siete stati incorporati in Cristo. Siete divenuti abitazione del suo Spirito (cfr 1 Cor 6,19). Il Battesimo non è un compimento né una ricompensa: è una grazia, è opera di Dio". Per questo è necessario un luogo dove questa Grazia possa crescere e dar frutto, e con esso vita e gioia vera.

Non possiamo abbandonare i nostri figli dinnanzi ad uno schermo gravido di veleno. Non possiamo farlo neanche noi adulti. Occorre aggrapparci a Cristo, camminare con Lui nella Chiesa, e non aver paura. Difendere la santità donataci è l'unica possibilità di vita che ci è data. Altrimenti è morte certa.

Non ci resta che attrezzarci, che autocensurarci, e lottare, combattere la buona battaglia della fede. E chiedere aiuto alla moglie, al marito, ai genitori, alla Chiesa, alla comunità di fratelli che cammina con noi. Essere fedeli all'ascolto della Parola di Dio e assidui ai sacramenti. E chiedere al Signore lo zelo per la sua casa, perché non diventi una spelonca di ladri. Occorre rovesciare i tavoli dei cambiavalute, pulire e ripulire,senza paura. E vietare, sì vietare anche se sembra che ormai ovunque sia vietato vietare. Proibire per amore, strappare dalla rete avvelenata, a volte con santa violenza. Difendere i nostri figli dal drago che irrompe, silenzioso, tra le nostre mura. Accettando guerre in famiglia, ribellioni e bombe atomiche. E aiutare a usare internet con sapienza, perdendo le ore accanto alle persone amate. Basta un istante, un minuto e la frittata è fatta. E questo è amore vero, serio e adulto che impone, a volte, censure senza sconti, lucchetti e sentinelle armate alle porte dell'abisso.

Antonello Iapicca Pbro



PER APPROFONDIRE, DISCERNERE E AIUTARE I NOSTRI FIGLI 

Il Papa: Il Battesimo è la fonte della vita. Da esso sgorga lo Spirito Santo che ci guida a vivere la vita secondo verità.


Web, altre regole non sono necessarie. Di Beppe Severgnini


Gillmor: "Impensabili i filtri in rete. Ma chi incita all'odio ci metta la faccia"


Internet no alla censura: basta un clic


Il lato oscuro della rete. Il web invaso da minacce e insulti


Internet, crescita continua. Utenti verso quota 24 milioni


Video, amici e sesso. Ecco cosa cercano gli adolescenti su internet


Sesso, video e amici su internet per gli adolescenti


“sesso” è tra le parole più ricercate dai bambini, in Brasile come in Europa


Adolescenti e sesso: una sfida educativa da raccogliere. Fra internet e tv spazzatura, la parola a tre esperte


La pornografia rende più delle armi. Videofonini e sesso: accuse a Vodafone e Hutchison


Sesso, Internet e pornografia Intervista al prof. Petruccelli, direttore del Centro per lo studio e la ricerca delle Dipendenze Affettive e Sessuali


Sesso e Internet, la nuova dipendenza


Le dipendenze da Internet: sesso virtuale e pornografia online


LA DIPENDENZA DA INTERNET E LE DIPENDENZE SESSUALI


IL VERBALE CHOC. Sesso, Internet e bugie. Confessione di un pedofilo


Svezia. Internet e sesso, alle donne piace il click.


GLI UTENTI DI INTERNET SONO SEMPRE PIU’ SOLITARI E SESSUALMENTE DEPRAVATI


Il corpo e la psiche dei giovani. di Claudio Risé


Libertà e responsabilità per Internet





Attenzione, qualcuno può spiarti dalla webcam del tuo computer

Alcuni ricercatori della Johns Hopkins University hanno dimostrato che è possibile attivare la telecamera del laptop senza accendere la luce che segnala all'utente che è in corso una registrazione. I test sono stati fatti su MacBook precedenti al 2008, ma gli studiosi ritengono che tecniche simili possano funzionare anche in computer recenti e di diverse marche

GUARDI LO SCHERMO del tuo laptop e forse dovresti dire "cheese". Anche se non puoi saperlo. Sì, perché qualcuno potrebbe essere lì a spiarti, senza lasciar traccia alcuna. Come? Grazie alla webcam incorporata e soprattutto se il computer ha già diversi anni di vita. Per la prima volta due ricercatori della Johns Hopkins University, Stephen Checkoway e Matthew Brocker, hanno infatti dimostrato che è possibile controllare da remoto la telecamera di un MacBook e accenderla senza attivare la luce verde usata da Apple per segnalare ai suoi utenti che è in corso una registrazione. Il tutto riprogrammando un chip contenuto nel dispositivo, il micro-controller, e sfruttando un software chiamato Remote Administration Tool (RAT) che permette a chiunque di gestire un computer attraverso la Rete.
I test sono stati limitati a un determinato modello di webcam montate da Apple nel 2007 e nel 2008 "ma le stesse tecniche  -  sostengono in una mail a Repubblica.it gli studiosi  -  possono funzionare anche con macchine più recenti e di marche diverse".  In altre parole: se nel tuo portatile c'è una videocamera, può capitare di essere esposto agli sguardi di occhi indiscreti. Una novità? Non esattamente, almeno non per gli "smanettoni". È il 1998, quando il gruppo hacker Cult dei "Dead Cow" presenta a Las Vegas il primo "supporto remoto", BackOrifice: un RAT dalle capacità elementari. Screenshot dello schermo, trasferimento dei file, riavvio della macchina: sono solo il primo passo per arrivare al pieno controllo del sistema infettato. Compresa la telecamera interna. Oggi non è più un segreto che i criminali informatici, e gli agenti federali, siano in grado di osservare i nostri spostamenti da quel piccolo occhio robotico posizionato sopra i monitor: nel 2009  -  ad esempio  -  l'Università di Toronto ha rivelato che il governo cinese se ne è servito persino per sorvegliare i monaci tibetani, incluso il Dalai Lama.
Ma, finora, a contrastare le intrusioni massicce nei nostri computer hanno pensato i LED: le spie luminose pronte alla difesa della privacy, in grado di arginare la curiosità dei voyeur 2.0, lampeggiando non appena l'apparecchio si accende. Una sorveglianza quasi infallibile secondo il parere sia degli utenti sia delle compagnie hi-tech. Ma in agosto la loro efficacia è stata messa in discussione dalla testimonianza di Cassidy Wolf, la Miss Teen Usa, vittima di un ricattatore che, controllando il suo pc, è riuscito a scattarle delle foto mentre era nuda nella sua stanza. "Non ero consapevole che qualcuno mi stesse spiando", ha dichiarato Wolf al The Today Show. "Non ne avevo idea, la luce della webcam non si è mai accesa". Increduli? "Ora, per la prima volta, una ricerca dimostra pubblicamente che tutto ciò è possibile e come", scrivono Ashkan Soltani e Timothy Berners Lee sul Washington Post, il primo a dare notizia dello studio di Checkoway e Brocker.
Per la precisione, a essere analizzate nel report dei due statunitensi, sono le iSight webcam installate nella prima generazione di prodotti Apple, compresi iMac G5, MacBook e MackBook Pro. Tutti fabbricati prima del 2008. Dei dispositivi dotati di un "hardware interlock" tra la webcam e il LED che non permette alla videocamera di attivarsi senza avvisare l'utente. Un sistema apparentemente perfetto ma che i due studiosi sono riusciti ad aggirare, consentendo a camera e luce di accendersi indipendentemente uno dall'altro. Spiega Checkoway: "I computer moderni sono una collezione di diversi dispositivi connessi tra loro, ognuno dei quali ha il suo processore". Gli fa eco Charlie Miller, esperto di sicurezza per Twitter. "C'è più di un chip nel tuo computer. C'è un chip nella batteria, c'è un chip nella tastiera e un chip nella telecamera".
Ed è proprio questa separazione che ha consentito ai ricercatori di riprogrammare il micro-controller dell'iSight e bypassare il sistema di sicurezza progettato dall'azienda di Cupertino, i cui responsabili - contattati lo scorso 16 luglio - non hanno voluto commentare questo teste. "Nessun informazione riguardo a possibili piani di mitigazione", chiariscono Checkoway e Brocker. "Abbiamo sviluppato, e pubblicato gratuitamente, un codice sorgente che può rallentare gli attacchi ma non bloccarli in ogni caso".  Non solo. Sistemi di controllo remoto più raffinati  -  avverte Morgan Marquis-Boire, un ricercatore dell'Università di Toronto - potrebbero già essere in grado di disattivare il LED. Come proteggersi, allora, dal pericolo di un'invasione? Scherza Miller: "La cosa più sicura da fare è mettere del nastro adesivo sulla camera".


la Repubblica 21 Dicembre 2013

Il Dio «minuscolo» del Web relativista. Anche «. god» tra i nuovi domìni di internet?


di Francesco Ognibene
Tratto da Avvenire del 9 febbraio 2011

«Quanti ne mettiamo a disposizione? Un miliardo basterà? Stiamo larghi: 4 miliardi e 300 milioni di indirizzi. Saranno sufficienti...». E invece è andata proprio come i 'signori di Internet' nemmeno potevano immaginare quando trent’anni fa gettarono le prime fondamenta della rete digitale che oggi impacchetta il pianeta in un flusso inesausto di bit. L’impetuosa crescita della fame di comunicazione ha reso non più sufficiente persino quell’immensa somma di codici identificativi dei computer allacciati al Web – i miliardi di indirizzi 'IP' –, progressivamente cresciuta fino a una cifra che ora segna anche il virtuale limite di 'capienza' di Internet. La mole degli allacciamenti alla rete sta portando all’esaurimento delle scorte di recapiti. Ma non c’è motivo di alimentare catastrofismi: non siamo vicini a quello che in America è stato definito il giorno dell’«Apocal-IPs», giocando sulla sigla dell’«Internet Protocol». L’ente non profit che dirige il traffico sulla rete – l’Icann – ha già predisposto l’adeguata contromisura: in tre decenni la tecnologia ha saltato di slancio tutti gli ostacoli creati dal suo stesso sviluppo, e ora si accinge a consentire l’immissione sul mercato di un numero ancor più prodigioso di indirizzi, grazie alla compressione digitale con la quale è possibile ampliare all’infinito lo spazio sul Web (salvo restare intrappolati nell’imbuto dei cavi di connessione, ormai intasati). Si crea spazio per chiunque voglia accedere, connettersi, farsi conoscere, contribuire all’intelligenza distribuita online. Chi bussa per ottenere un recapito non chiede infatti di assistere a uno spettacolo allestito da altri: vuole dire la sua, montare la propria bancarella di idee e contenuti, all’affannosa ricerca di qualcuno interessato ad alimentarsene. Per effetto di questa formidabile e crescente domanda di condivisione – che ha dato origine alla tumultuosa stagione del 'Web sociale', ben lungi dall’esaurirsi – la rete ha esteso e ramificato le aree di interesse imponendo una seconda svolta ormai prossima: specularmente alla crescita di codici IP, a breve le autorità regolatorie di Internet dovrebbero infatti offrire la disponibilità di un numero potenzialmente indefinito di 'domìni', ovvero le estensioni che integrano e classificano gli indirizzi dei siti Web. Ai suffissi nazionali (come «. it») e tematici («. com») si stanno per aggiungere sigle che corrispondono a settori merceologici (si pensa a «. music»), interessi personali, politici o culturali (da «. sport» «. eco», ma si attende anche l’introduzione di «. love») fino alle aziende, ciascuna col proprio nome. Pagando 185 mila dollari all’Icann si potrebbe registrare pressoché qualunque dominio. Tanto che è riaffiorata la proposta – circolata tempo fa, con qualche incipiente polemica – di aggiungere ai nuovi domìni del Web anche un indistinto recinto religioso sotto la precaria tettoia della sigla «. god», ovviamente con la minuscola, come si addice a tutti gli indirizzi Internet. Questa divinità digitale in coda a un recapito elettronico dovrebbe garantire il contenuto religioso del sito, selezionando il pubblico dei fruitori e concentrando una ricerca che si fa sempre più faticosa negli abissi della rete. Ma nessuna autorità del Web oggi è in grado di assicurare che al «. god» faccia riscontro quel che la confezione promette: lo spirito iper-relativista di Internet scoraggia alla radice il principio di autorità, nega quasi ogni forma di selezione dei contenuti, inorridisce davanti a qualsiasi remoto sentore di 'censura'. Il Dio del Web promette di essere quel che sta già scritto: una caricatura minuscola. È proprio necessario?


Internet: cuando vigilar se convierte en un imperativo

«Los ordenadores no sólo tienen que estar en las zonas comunes, sino, cuando ello sea posible, colocados de forma que la pantalla esté mirando hacia la puerta». Es la máxima añadida a la “regla de oro” por la que apuesta Juan Manuel Romero. ¿Y cuál es la “regla de oro? «El ordenador nunca, bajo ninguna circunstancia, debe estar en la habitación».

Creador de Adicciones Digitales (http://www.adiccionesdigitales.es) y periodista, Romero expone su preocupación ante los riesgos que supone el uso indiscriminado de internet, en una entrevista al diario español ABC (cf. 14.09.2010): «Me di cuenta que mis hijos utilizaban mucho el ordenador con ocho o diez años y también en el trabajo vi a mucha gente enganchada».

Conferencista que aborda los peligros de las nuevas tecnologías, dice cómo tratar a los niños y adolescentes que están «enfermos» de internet, de sedentarismo y trato reducido a lo virtual: «Ahora a un niño no lo puedes castigar con no salir a la calle porque lo harás feliz […] Hay que castigarlo con salir a la calle».

No hay que tener miedo a la palabra “control”

Otro momento interesante de la entrevista es cuando responde a la así llamada brecha-digital entre padres e hijos. Tras decir que muchos padres aún no están preparados en este campo, afirma: «Ven al niño en el ordenador y dicen “qué bien, mi hijo conoce la informática del futuro”, y el niño está chateando, con la granja deFacebook o con los amigos de Tuenti (red social más usada en España, n.d.r.). A mí mis hijos me configuran el teléfono móvil porque yo no sé hacerlo y si tengo un problema con el ordenador me lo arreglan ellos… Pero las claves del ordenador las tengo yo y sólo entran cuando lo considero oportuno. No hay que tener miedo a la palabra “control”».

Y añade: «A mí no me vale de nada que uno de mis hijos se meta en un blog que promocionan la bulimia y la anorexia, y se me haga anoréxico o bulímico y se me muera dentro de dos años y yo diga: “Sí, mi hijo se murió, pero ejerció su libertad”».

No son pocos los niños y adolescentes que padecen adicciones digitales, una nueva patología que tiene efectos físicos, consecuencias académicas y que precisa de un trato profesional

Un artículo publicado por el diario español La Razón (cf. 27.02.2009) ofrecía algunos consejos prácticos para un diálogo sobre este tema entre padres e hijos:

- Hablar con los hijos. Debe saber qué páginas visitan, con quién conversan, qué les gusta ver, etc. Igual que no los dejaría salir de casa sin saber dónde van y con quién, no debe dejarles acceder a internet sin antes saber si lo que están haciendo está bien.

- Informarse. Se deben conocer las herramientas que ofrece la web, los peligros y la forma de evitarlos.

- Establece reglas firmes de uso. Hay que poner normas claras y tajantes que regulen el tiempo de conexión. Además, se debe vigilar su cumplimiento, especialmente el horario nocturno. Es mejor que el PC se sitúe en un lugar común y no en la habitación de un menor.

- Hay que enseñar a los hijos a no facilitar datos como su nombre, dirección o fotos para impedir que los ciber-delincuentes o usuarios malintencionados accedan a sus cuentas de correo, de mensajería o similares.

- Existe la opción de descargar unos programas «filtradores» de contenido que permiten decidir qué páginas pueden visitar los más pequeños y cuáles no.

Desde luego, las patologías adictivas y la ayuda que se puede brindar, bajo la concepción que Romero define como «control», no es una opción cuanto un imperativo cada vez más necesario incluso –y diría sobre todo– también con adultos. La pérdida de tiempo y la banalización de las relaciones interpersonales evidencias una incipiente patología adictiva.

DOPO FACEBOOK TORNIAMO A GUARDARCI NEGLI OCCHI. Mail e sms spesso sono insufficienti per esprimere ciò che davvero siamo

Bandiamo le mail e i messaggini per dire le cose che contano. O i post su Facebook per articolare le nostre prese di posizione.
Non ho nulla contro questi strumenti di comunicazione. Anzi. Ne apprezzo, talvolta, la sinteticità e la capacità di raggiungere, soprattutto grazie a Facebook, persone lontane che si erano cancellate dalla tua memoria e dalla tua vita.
Ma quando nelle mail, nei caratteri stilizzati degli sms, nelle pagine fitte fitte di affari privati di Facebook, compaiono le cose che contano, le cose che dovresti dire a voce, allora il gioco non funziona più.
Allora nascono le incomprensioni, le prese di posizione tagliate con l’accetta, le estremizzazioni dei sentimenti. Quante incomprensioni nascono da una mail mal interpretata? Quante liti e parole inutili sulle bacheche dei nostri profili? Parole che hai scritto, ma che non avresti mai detto. Parole che hai buttato lì, in quella strana piazza multimediale, ma che sono insufficienti a dire ciò che pensi. Perché per dire ciò che pensi ci vorrebbe la tua voce, il tuo sguardo, anche il tuo silenzio. Ci vorrebbe il tuo sussurrare piano le parole importanti o il sottolineare con un accento deciso i contenuti in cui credi.
Ma, nello sforzo di sinteticità di un sms, o di un post, c’è la freddezza di quello schermo che prende il posto del sangue e della carne.
Se quello schermo ci ripara dalla paura di metterci in gioco veramente, ci espone in realtà al rischio di essere sempre superficiali, sempre parziali, mai veramente noi stessi.
Mettere uno schermo tra noi e il mondo, tra noi e le persone che ci vivono accanto, è come accarezzare una persona con un paio di guanti spessi, come accettare di vivere in una campana di vetro. Accettare di non sentire. Di non capire per davvero.

Allora, lo dico seriamente, bandiamo le mail, o i post, per spiegare con parole fredde il nostro pensiero. Tutt’al più prendiamo carta e penna. Ci sarà così nuovamente il tempo di riflettere su ciò che stiamo scrivendo. Di scegliere le parole con cura. Oppure scendiamo in strada e andiamo a spiegare le nostre ragioni guardando negli occhi chi attende da noi una risposta. Le sceglieremo con più attenzione, perché le parole dette perdendosi negli occhi di chi ci sta innanzi hanno un peso diverso. Il peso di chi è riuscito ad incontrarsi veramente. Il peso di chi ha scelto di avere, una volta ancora, tempo per l’altro.

(www.cristiancarrara.it)

Cristian Carrara

La dimensión educativa del ocio audiovisual: pautas y consejos para padres de familia

Millones de niños y adultos utilizan la televisión, la música, internet y los videojuegos como herramientas de ocio. Bien aprovechadas, esas herramientas podrían convertirse en aliados para una buena educación. El problema llega cuando los canales, estilos de música (que incluyen al que los interpreta), portales web o discos de juego hacen al que los usa un peor ser humano.
El video que pongo más abajo me gustó (ir con el cursor al minuto uno para saltarse la introducción) porque pone los puntos sobre las "i" en este tema tan delicado y que de una manera especial no pueden desatender los padres de familia.

En el video se habla de aspectos negativos que esas herramientas pueden dejar en sus hijos como la pérdida de tiempo, el empobrecimiento intelectual, el acceso a contenidos no aptos y la ausencia de valores. Interesantes los testimonios de padres de familia, el que se diga, ejemplifique y cite series que reperuten negativamente y que se reconozca que no es únicamente el menor el que precisa de una defensa ante los medios, sino también el mayor.

Interesante la propuesta de
una dieta televisiva que implique tanto el saber combinar el tipo de programas como el horario y horas para verlos en cantidades equilibaradas. Y del tema de los videojuegos... un repaso del tipo de enemigos que duerme en muchos hogares. El video dura media hora pero es una media hora muy bien aprovechada.



Il prossimo? Non è un videogame. L’altro al tempo di Internet: parla lo psicoanalista Luigi Zoja

di Paolo Lambruschi
Tratto da Avvenire del 23 settembre 2010

«Il broker francese mago dei videogiochi Jerome Kerviel nel 2007 perse in Borsa svariati milioni di euro dei clienti gestiti dai suoi colleghi scardinandone le password. Quando i giudici gli chiesero se non avesse mai avuto scrupoli morali, rispose di no. Per lui era stato come passare al livello superiore del suo videogame»

La metafora dell’eclisse del prossimo nell’era di Internet è la storia di Jerome Kerviel, il broker francese mago dei videogiochi, che nel 2007 venne scoperto a giocare e perdere in Borsa svariati milioni di euro dei clienti gestiti dai suoi colleghi scardinandone le password.

E quando i giudici gli chiesero se non avesse mai avuto scrupoli morali, rispose di no. Per lui era stato come passare al livello superiore del suo videogame. Di quanto sta accadendo alla socialità, alla scomparsa dell’altro in quest’epoca di rapidi cambiamenti, parlerà a 'Torino spiritualità' Luigi Zoja, psicoanalista di fama internazionale e autore, per i tipi di Einaudi, del volume La morte del prossimo (2009). Tema dell’incontro, che si terrà sabato 25 settembre alle 18, 30 al Circolo dei lettori di Torino e a cui interverrà anche il filosofo Maurizio Ferraris, sarà proprio «L’altro nell’epoca di Internet».

Professor Zoja, Internet ha assassinato il prossimo?
«Assistiamo a un mutamento epocale. Il terreno è stato preparato dalla laicizzazione, dal consumismo e dal calo della solidarietà nella società occidentale. Poi la tecnologia ha assestato la spallata a una porta che già scricchiolava. Anche gli zoologi dicono che l’uomo ha bisogno di relazioni, si muove in gruppo. Ma oggi la ricerca di rapporti si canalizza attraverso la tecnologia e ovviamente si perde il contatto. L’esempio più comune è quel che succede in un vagone ferroviario. Chi entra, anziché salutare gli altri passeggeri, accende il cellulare e comincia a parlare con le persone, che magari ha appena lasciato, senza risparmiare ai presenti dettagli della propria vita privata. Oggi viviamo in una contiguità eccessiva tra intimo e pubblico e Il contatto con le persone è mediato dalla tecnologia. In alcuni laboratori americani di psicologia si è tentato di oggettivizzare i comportamenti umani grazie agli strumenti messi a disposizione dalle neuroscienze. E si è visto che spesso manca la reazione morale».

Vale a dire?
«Ammesso che un problema simile sia quantificabile, queste sperimentazioni suggeriscono che, per avere una reazione che sia anche morale servirebbero almeno dieci secondi, tempo calcolato perché il cervello avvii una riflessione complessa su diversi inconvenienti. Invece il cervello abituato alla tecnologia contemporanea tende sempre più ad applicare l’esperienza del videogame, che si basa sulla logica 'risposta giusta/risposta sbagliata'. L’esempio che calza a perfezione è la vicenda di Jerome Kerviel che nell’inverno a cavallo tra il 2007 e il 2008 fu scoperto in un grande istituto bancario francese a giocare svariati milioni di euro del clienti sottratti di nascosto dai budget di altri colleghi a loro insaputa. Finché il mercato azionario tirava, anche i suoi superiori chiudevano un occhio, ma quando scoppiò la crisi lui dovette giocare somme sempre più ingenti per coprire le perdite e venne fermato. Quando gli chiesero in tribunale se alla fine non avesse provato scrupoli morali, Kerviel, che in gioventù è stato un mago dei videogame, rispose di no. Per lui era stato come passare semplicemente a un livello più alto di un videogioco».

Con quali conseguenze?
«Tale continuità con la tecnologia spesso fa perdere le valenze morali. E porta al bullismo tecnologico, a filmare con il telefonino la violenza fisica o sessuale su una persona per poi metterla in rete».

Tutto diventa un grande gioco…
«Si, direi che le radici di questa situazione si formano grosso modo su due terreni. Certamente l’affermazione tecnologica alla fine del secolo scorso. L’altra è l’anonimato della società di massa. Fino all’inizio del secolo ventesimo la maggior parte della popolazione viveva in ambito agricolo e statisticamente le persone conoscevano dai 200 ai 300 volti nella loro vita. Oggi è normale l’anonimato, il non riconoscere i visi incontrati. Quindi ci sono forti privazioni sensoriali, dicono i neuro scienziati. Il nostro sistema neurologico è merito di un’evoluzione raggiunta già nel Paleolitico fatto per società semplici nelle quali si percepivano la natura, gli animali, gli altri in un certo contesto e in un certo modo. Oggi questo sistema neuronale si trova in condizioni ambientali per così dire 'impazzite'. Mi colpisce ad esempio vedere quanti uomini, anche giovani, in analisi confessino di viaggiare in rete di notte su siti pornografici mentre nella stanza da letto accanto dormono moglie e figli. La tecnologia può creare nella vita quotidiana un’inibizione alla relazione fisica, entrando anche consapevolmente in un circuito virtuale che incoraggia prostituzione e pedofilia».

Quali antidoti?
«Mi pare che una strada sia stimolare la partecipazione e la presa di coscienza attraverso discussioni pubbliche. L’altra è l’educazione. L’ideale sarebbe una combinazione di educazione scolastica e famigliare. Ma mi pare che ci sia un’emergenza educativa che affligge molti genitori. Come i padri che lavorano troppo e trascorrono poco tempo con i figli. E se cercano di accompagnarli a scuola in auto, per non litigare lasciano che il figliolo nel tragitto si isoli ascoltando l’I-pod. O come, nelle grandi città, molte famiglie separate. Dove vi sono madri che svolgono anche ruoli paterni e spesso sono in difficoltà. -E padri che comunque stanno coi figli nei fine settimana, ma per paura di perderne l’affetto gli permettono di stare troppo al computer. Bisogna mettere dei limiti e recuperare la responsabilità paterna».

«Viaggia su Internet l’allarme pedofilia» Dati preoccupanti delle associazioni: un giro d’affari di 4 miliardi di dollari

DA MILANO VIVIANA DALOISO

U
n altissimo numero di casi non denunciati. Un abuso che trova il suo habitat naturale online, do­ve si trasforma anche in un giro di affari stimato in oltre 4 miliardi di dollari. E poi in famiglia, dove troppo spesso i padri sono i 'carnefici' dei figli e dove in ge­nerale manca consapevolezza e capacità di gestire l’emergenza degli abusi.

Nella seconda Giornata nazionale contro la pedofilia, che si è celebrata ieri, sono molti i dati allarmanti emersi sul feno­meno. A partire dal dossier diffuso da Te­lefono Azzurro, che ha preso in esame tutti i contatti e le richieste di aiuto rice­vute dal gennaio 2008 al marzo 2010 e in base al quale gli abusi sessuali sui mino­ri rappresentano il 4% di tutti i maltrat­tamenti sui bambini. Non pochi, se si considera che la percentuale in questio­ne è quella «contata» dagli operatori, dunque relativa ai soli casi che arrivano ad essere denunciati.

Ma c’è molto di più, nel bilancio fatto del­l’associazione. Secondo cui, per esem­pio, l’infanzia abusata in Italia non è af­fatto quella emarginata e degradata ed è l’ambito familiare quello in cui si consu­mano con più frequenza le violenze. Qui il presunto responsabile nel 29,4% dei casi è il padre, oppure un altro parente (13,5%), o ancora un amico o conoscen­te (12,9%). Le segnalazioni relative a mo­lestie subite da parte di insegnanti o e­ducatori sono state l’8,8% e quelle rela­tive ad abusi commessi da religiosi l’1,2%. Altro dato allarmante, quello sull’età dei bambini: il 60% di quelli che hanno subì­to abusi sessuali non hanno ancora com­piuto i 12 anni. E se sono soprattutto le
bambine e le adolescenti le principali vit­time di abusi sessuali (si tratta del 66% dei casi), tuttavia una segnalazione su tre ri­guarda minorenni maschi.

Capitolo a se stante merita poi l’'am­biente' della Rete. È proprio relativa­mente al Web che emerge infatti la per­centuale più elevata di segnalazioni, qua­si la totalità del campione: si riferisce a si­ti Web l’86,5% di queste ultime. Numeri tanto più pesanti quando si incrociano con quelli registrati e presentati sempre ieri dal Moige (il Movimento italiani ge­nitori) e dalla Microsoft. Il primo ha svol­to un’indagine nel corso dell’aprile scor­so tra i genitori con figli di età compresa tra i 5 e i 15 anni: secondo la ricerca, ol­tre il 40% non si ritengono sufficiente­mente informati e preparati per affron­tare l’emergenza, soprattutto relativa­mente ai nuovi mezzi di comunicazione e a Internet, mentre solo 2 genitori su 10 affiancano i propri figli nella navigazio­ne. E cattive notizie sono arrivate anche dai dati registrati da Microsoft Italia, se­condo cui sul Web il 26% dei ragazzi con­divide il proprio indirizzo di casa, il 56% indica il nome della propria scuola, il 76% si scambia foto e video anche di amici e il 59% l’indirizzo di posta elettronica.

Una legame, quello tra la Rete e la pedo­filia, su cui ieri non a caso sono tornati con forza tutti i rappresentanti delle isti­tuzioni, dal ministro per le Pari oppor­tunità Mara Carfagna al presidente del Senato Renato Schifani e della Camera Gianfranco Fini sino al direttore della po­lizia postale e delle telecomunicazioni Antonio Apruzzese: tutti concordi nel sottolineare la necessità di interventi sempre più attenti e mirati sul Web e sul­le
sue insidie.


«Informiamo i ragazzi sui rischi»

Il Garante per la privacy: adulti e istituzioni insieme per insegnare agli adolescenti a serbare i propri dati personali sul Web



DA MILANO


U
n mondo parallelo, dove co­me in quello reale si commet­tono anche reati. Ma dove mancano ancora regole, garanzie, consapevolezza degli utenti. Così In­ternet si è trasformato nell’ambiente più a rischio per i minori secondo il il presidente dell’Autorità garante per la privacy, Francesco Pizzetti. Che pro­pone una ricetta.

Internet e pedofilia, un bi­nomio così inscindibile?


Senz’altro una realtà di cui prendere atto. La Rete è or­mai un mondo a se stante, con le sue regole, le sue modalità, i suoi abitanti. E mentre gli adulti sono co­
me 'immigrati' in questo pianeta, i ra­gazzi vi sono nati. Il problema è pro­prio questa distanza.

Che vede gli adulti incapaci di infor­mare i minori sui rischi del Web?


Non solo. Sicuramente il fenomeno della pedofilia si sta espandendo on­line per questo problema di mancan­za di informazione: nei ragazzi, che troppo spesso lasciano con leggerez­za i propri dati online rendendosi vul­nerabili nella realtà; e nei genitori, che non sanno metterli in guardia. Ma c’è anche un nodo a monte.


Quale?


Quello dell’impossibilità di individua­re l’età di chi sta di fronte a un com­puter. Mentre in ogni società esiste – con differenze specifiche, di cultura in cultura – uno spartiacque tra mino­renni
e maggiorenni, tra le responsa­bilità, i diritti e i doveri che una perso­na acquisisce dopo la maggiore età e che prima non ha, su Internet questo 'paletto' non esiste. È così che i nostri figli diventano facili bersagli.

Esiste una ricetta?


Informare i minori sull’importanza che hanno i loro dati e su come 'di­fenderli', proteggerli dal Web: l’Autho­rity ha distribuito nelle scuole e attra­verso gli uffici postali un vademecum proprio a questo proposito. E poi in­crociare le competenze sociologiche, semantiche e tecnologiche a livello di istituzioni e di associazioni per accer­tarsi con sempre maggior chiarezza di chi sta dall’altra parte del pc senza li­mitare la libertà di comunicazione.


Viviana Daloiso




© Copyright Avvenire 6 maggio 2010

Il Papa: la passione che da duemila anni è la missione irrinunciabile della Chiesa: animatori di comunità, preparare cammini che conducano alla Parola



Eminenza,
Venerati Confratelli nell’episcopato,
cari amici,

sono lieto di questa occasione per incontrarvi e concludere il vostro convegno, dal titolo quanto mai evocativo: “Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale”. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole di benvenuto, con le quali, ancora una volta, ha voluto esprimere l’affetto e la vicinanza della Chiesa che è in Italia al mio servizio apostolico. Nelle sue parole, Signor Cardinale, si rispecchia la fedele adesione a Pietro di tutti i cattolici di questa amata Nazione e la stima di tanti uomini e donne animati dal desiderio di cercare la verità.

Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività. La rete manifesta, dunque, una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide. Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno. Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici forme di degrado e di umiliazione dell’intimità della persona. Si assiste allora a un “inquinamento dello spirito, quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia…” (Discorso in Piazza di Spagna, 8 Dicembre 2009). Questo Convegno, invece, punta proprio a riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie: quando ciò accade, esse restano corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo.

Come è possibile, oggi, tornare ai volti? Ho cercato di indicarne la strada anche nella mia terza Enciclica. Essa passa per quella caritas in veritate, che rifulge nel volto di Cristo. L’amore nella verità costituisce “una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione” (n. 9). I media possono diventare fattori di umanizzazione “non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali” (n. 73). Ciò richiede che “essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale” (ibid.). Solamente a tali condizioni il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità. Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa. Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete.

È questa la nostra missione, la missione irrinunciabile della Chiesa: il compito di ogni credente che opera nei media è quello di “spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo tempo «digitale» i segni necessari per riconoscere il Signore” (Messaggio per la 44a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 16 maggio 2010). Cari amici, anche nella rete siete chiamati a collocarvi come “animatori di comunità”, attenti a “preparare cammini che conducano alla Parola di Dio”, e ad esprimere una particolare sensibilità per quanti “sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche” (ibid.). La rete potrà così diventare una sorta di “portico dei gentili”, dove “fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto” (ibid.).

Quali animatori della cultura e della comunicazione, voi siete segno vivo di quanto “i moderni mezzi di comunicazione siano entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio” (ibid.). Le voci, in questo campo, in Italia non mancano: basti qui ricordare il quotidiano Avvenire, l’emittente televisiva TV2000, il circuito radiofonico inBlu e l’agenzia di stampa SIR, accanto ai periodici cattolici, alla rete capillare dei settimanali diocesani e agli ormai numerosi siti internet di ispirazione cattolica. Esorto tutti i professionisti della comunicazione a non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre più ai suoi linguaggi e al suo vero volto. Vi aiuterà in questo una solida preparazione teologica e soprattutto una profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo con il Signore. Le Chiese particolari e gli istituti religiosi, dal canto loro, non esitino a valorizzare i percorsi formativi proposti dalle Università Pontificie, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalle altre Università cattoliche ed ecclesiastiche, destinandovi con lungimiranza persone e risorse. Il mondo della comunicazione sociale entri a pieno titolo nella programmazione pastorale.

Mentre vi ringrazio del servizio che rendete alla Chiesa e quindi alla causa dell’uomo, vi esorto a percorrere, animati dal coraggio dello Spirito Santo, le strade del continente digitale. La nostra fiducia non è acriticamente riposta in alcuno strumento della tecnica. La nostra forza sta nell’essere Chiesa, comunità credente, capace di testimoniare a tutti la perenne novità del Risorto, con una vita che fiorisce in pienezza nella misura in cui si apre, entra in relazione, si dona con gratuità.
Vi affido alla protezione di Maria Santissima e dei grandi Santi della comunicazione e di cuore tutti vi benedico.

Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale

ROMA, sabato, 24 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 23 aprile dalla prof.ssa Chiara Giaccardi, Docente di sociologia e antropologia dei media e Coordinatrice della ricerca curata dall'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in occasione del Convegno “Testimoni digitali” svoltosi a Roma.



* * *


Qualche premessa sulla ricerca

Quando dalla Cei mi hanno chiesto di immaginare e realizzare una ricerca sui giovani nello scenario digitale, oltre al grande piacere e onore di poter collaborare a un lavoro esplorativo, potenzialmente utile alla comprensione e interpretazione di un aspetto cruciale per la contemporaneità, ho avuto subito due pensieri: il primo, “c’è troppo poco tempo”; il secondo, più in positivo, è stato “sarebbe bello coinvolgere anche i colleghi dell’Università che si occupano di comunicazione, sia nella definizione del disegno della ricerca che nella sua realizzazione” (sapendo che questo, ovviamente, avrebbe dilatato i tempi ulteriormente). Ho comunque deciso di seguire questa strada, e non me ne sono affatto pentita. Mi fa piacere quindi ricordare tutte le persone che hanno contribuito, a livello di ideazione e realizzazione, a questo lavoro. Per la fase di costruzione del quadro di riferimento e di messa a fuoco degli elementi da ricercare attraverso l’indagine empirica sono stati preziosi i contributo di Piermarco Aroldi, Fausto Colombo, Ruggero Eugeni, Silvano Petrosino, Massimo Scaglioni, Nicoletta Vittadini, oltre che del collega e amico Alessandro Zaccuri. Sulla parte empirica della ricerca, e sulla periodica discussione dei risultati via via emersi, sono stati coinvolti i diversi centri di ricerca sulla comunicazione dell’Università Cattolica (Osscom, Certa, Arc, Almed), che hanno messo a disposizione ricercatori e, nel caso di Osscom, strutture.

Mi piace ricordare tutti i nomi dei giovani ricercatori che con grande impegno e capacità hanno svolto la parte empirica della ricerca e collaborato all’interpretazione dei risultati: Simone Carlo, Elisabetta Locatelli, Sara Sampietro, Silvia Tarassi, Matteo Tarantino.

Dopo il “chi” (che è sempre l’aspetto più importante), qualche parola sul “come”.

Considero questa ricerca1 una sorta di “studio pilota”, suscettibile di espansione sia in senso quantitativo (attraverso una survey che restituisca alcune informazioni di sfondo in modo più accurato) che qualitativo (attraverso un’etnografia che renda conto delle pratiche nel loro farsi e nel loro intrecciarsi con le relazioni e le attività quotidiane, auspicabilmente per un periodo di tempo sufficientemente prolungato – almeno un anno – per raggiungere risultati significativi).

Uno studio-pilota che però, nonostante i suoi limiti, ha consentito di raggiungere alcuni importanti risultati. Innanzitutto i limiti. C’è prima di tutto un limite numerico: nonostante l’attenzione a distribuire le interviste su tutto il territorio nazionale, e la cura di mantenere l’intervista di una durata non inferiore ai 60 minuti, con la possibilità di scavare quindi piuttosto in profondità sui temi di nostro interesse, il numero di 50 non consente delle generalizzazioni, ma tutt’al più suggerisce delle tendenze da verificare e delle questioni da approfondire. Va comunque detto che, a supporto delle interviste e proprio per avere uno sfondo più ampio sul quale leggere i nostri risultati, abbiamo pensato di sempificare la traccia dell’intervista trasformandola in un questionario, che abbiamo distribuito a 300 studenti di due diverse università milanesi (ricordo che la fascia di età indagata era quella dai 18 ai 24 anni, e che il campione delle interviste era equamente distribuito tra lavoratori e studenti: quindi almeno per la parte degli studenti, che è quella che frequenta in modo più massiccio e costante il continente digitale, i dati risultano particolarmente attendibili). Va anche aggiunto che gli intervistati, significativamente poco preoccupati della privacy, hanno accettato i ricercatori come amici su FB2, consentendo così qualche incursione digitale utile allo scopo di verificare la congruenza tra dichiarazioni rilasciate nell’intervista e pratiche effettive (che è di fatto emersa anche da questo ulteriore approfondimento sul versante online).

I pregi, spero, emergeranno nel corso di questa esposizione.

Il mio intervento si articola in due parti.

Nella prima, cercherò di dar conto degli aspetti più interessanti emersi dalla nostra indagine, dove l’interesse è legato soprattutto a tre caratteristiche: 1) in grado di “falsificare” alcuni luoghi comuni sullo spazio digitale o sul rapporto tra online e offline; 2) in grado di aggiungere qualche elemento ulteriore rispetto alle recenti ricerche sul tema (penso per esempio all’Ottavo rapporto sulla comunicazione del Censis); 3) in grado di offrire appigli e spunti per un’umanizzazione del continente digitale.

Nella seconda parte, più ridotta, cercherò appunto di evidenziare le “buone notizie” che emergono dall’esplorazione del continente digitale3, o almeno di questa sua significativa porzione, per poter indicare, cosa che era fin dall’inizio tra gli obiettivi della ricerca, gli elementi sui quali innestare un’azione educativa, o a partire dai quali facilitare pratiche di comunicazione autentica, alla luce di quel nuovo umanesimo auspicato da S.S. Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, e richiamato da S.E. Mons. Giuliodori nella sua introduzione a questa giornata.

Stare in relazione nel continente digitale: i giovani dai 18 ai 24 anni

Anche qui, una premessa importante:

La cecità di fronte al nostro mondo-ambiente digitalizzato rischia di trasformarci in “idioti tecnologici” secondo la nota espressione di McLuhan, che, per un eccesso di prossimità ai media che plasmano il nostro sensorio, non si rendono conto di quello che fanno. ll continente digitale richiede forme specifiche di adattamento e tende a stabilizzare disposizioni durevoli, basate sul primato della percezione, sulla circolazione di etichette che orientano la valutazione, sulla costruzione di “corpi socializzati” ai modelli di esibizione di sé e riconoscimento sociale, che sollecitano forme imitative. Più che di mutamenti antropologici, si tratta di mutamenti ambientali che richiedono adattamento. Ma adattarsi alla nuove condizioni esperienziali e relazionali non comporta necessariamente un appiattimento: un approccio “ecologico” al mondo digitale, quale quello tentato attraverso la nostra indagine qualitativa, consente di rendere conto delle pratiche comunicative come atti dotati di senso e capaci di produrre senso, dando forma all’ambiente attraverso un adattamento creativo e orientato alla relazione.

Come scriveva McLuhan infatti, “Gli ambienti non sono contenitori, ma processi che mutano completamente il contenuto” (McLuhan 1998, p 21).

E ancora, “Il presente è sempre invisibile perché ambientale. Nessun ambiente è percettibile, semplicemente perché satura l’intero campo dell’attenzione” (1967 (percez 22) 4.

Tra i numerosi aspetti emersi dalla ricerca, e tenendo conto che alcuni saranno approfonditi nelle relazioni che mi seguiranno (come gli usi, le pratiche, e i significati delle diverse piattaforme), ho scelto di soffermarmi qui soprattutto su tre questioni di rilevante significato antropologico: la trasformazione dello spazio; la trasformazione del tempo; le caratteristiche della relazione. Un’ultima precisazione: alla luce dei risultati emersi penso che si possa dire, anche se con cautela, che ci sono buone notizie dal continente digitale; e per una volta, non sono d’accordo con McLuhan, quando affermava “Le cattive notizie rivelano il carattere del cambiamento, le buone notizie no”. Credo che queste buone notizie siano in grado di cogliere alcuni cambiamenti in atto, e possano invece aiutarci a dare forma al nostro abitare il continente digitale.

Oltre la contrapposizione: bassa discontinuità e transitività spaziale nel continente digitale

Un aspetto a mio avviso estremamente importante, che emerge con chiarezza dalla ricerca, è quella che chiamerei una “bassa discontinuità” tra offline e online, che si configurano come due livelli di un’esperienza unitaria (unificata dal soggetto in relazione) e non come due mondi paralleli, alternativi, in relazione problematica tra loro – uno il surrogato dell’altro, uno ostacolo all’altro etc.).

La discontinuità tra i due livelli dell’esperienza è in realtà estremamente ridotta, mentre prevalgono gli elementi di continuità.

Tale continuità precede addirittura l’utilizzo dei new media, dato che si esprime innanzitutto a livello di quelle che abbiamo definito “precondizioni” d’accesso allo spazio digitale (distinguendo tra precondizioni strutturale e socioculturali); emerge poi, con grande chiarezza, a livello delle pratiche, che mettono in atto forme di transitività bidirezionale tra i due livelli dello spazio di esperienza.

Con precondizioni strutturali intendiamo tutti gli elementi che precedono l’accesso allo spazio digitale, e che definiscono la prospettiva offline del soggetto. Abbiamo distinto in particolare tra status (studenti o lavoratori); territorialità (grande città o piccolo centro) e dotazione tecnologica. A differenza di quanto le retoriche sulla smaterializzazione, democratizzazione e delocalizzazione della rete tendono ad affermare, abbiamo notato una forte incidenza delle variabili strutturali sui tempi e i modi di accesso allo spazio digitale. Per esempio, i giovani lavoratori fanno un uso molto più circoscritto e strumentale dei nuovi media, a differenza degli studenti, che hanno tempi di connessione più lunghi e modalità di presenza più differenziate per livelli di coinvolgimento; così come il fatto di abitare in un piccolo centro rende da un lato più consapevoli a attenti sulla dimensione della privacy, dall’altro rende più stretta la relazione tra offline e online, dato che si ha maggiore occasione di incontrare nella quotidianità le persone con cui si conversa in rete. Il radicamento territoriale è anche molto evidente rispetto ai gruppi amicali, che hanno radici spaziali ben precise e che vengono “importati” nella dimensione online (gli amici del quartiere, o gli amici della palestra, o i compagni di università..). In tutti i casi, esiste una “materialità” dell’esistenza che non solo non viene completamente scavalcata, ma si riflette nelle forme di presenza digitale.

Con precondizioni socioculturali abbiamo invece indicato la varietà e quantità dei consumi culturali offline, e la varietà e composizione delle reti relazionali offline, che abbiamo osservato intrattenere una relazione significativa con le pratiche online.

Anche i processi di costruzione di identità e le modalità di management e manutenzione delle relazioni, come si vedrà meglio in seguito, rivelano una stretta relazione e una continuità tra online e offline, tanto che si può dire che la diffusione pervasiva dei social media (rispetto ai personal media – FB ha superato Google-, ma anche a una prima fase di modelli più “virtualizzati” di relazione online – come Second Life, in nettissimo calo di popolarità) inaugura un modo decisamente “socialmente orientato” di abitare il continente digitale.

Per questo si può evidenziare, come elemento positivo, una continuità tra le dimensioni online e offline: gli spazi della rete non sono luoghi “utopici”, dove proiettare il desiderio di un mondo totalmente altro, ma neppure, per usare l’espressione di Foucault, “eterotopie”, luoghi totalmente discontinui e autonomi dalla dimensione esistenziale concreta. Più che di contrapposizione tra reale e virtuale (come due dimensioni ontologicamente e qualitativamente diverse, quasi incommensurabili, dell’esperienza), si può forse parlare di analogico e digitale (nel senso di “continuo” e “discontinuo”, in quanto richiede la mediazione di un’interfaccia), o, più semplicemente, di online e offline come di due articolazioni dello spazio di esperienza e relazione, unificato dalla soggettività che in esso si muove secondo traiettorie di transitività, di attraversamento dei confini nelle due direzioni, e non secondo rapporti patologici di sostituzione o colonizzazione.

Un nuovo senso del luogo

Già all’inizio degli anni ’90, dalla sua prospettiva antropologica Marc Augé dichiarava: “Abbiamo bisogno di re imparare a pensare lo spazio” (Augé 1993:37). Se l’oggetto dell’antropologia sono “gli spazi significanti (…) gli universi di senso all’interno dei quali gli individui e i gruppi si definiscono in rapporto agli stesi criteri, agli stessi valori e alle stesse procedure di interpretazione” (ivi, 35), allora, oggi, è impossibile escludere lo spazio digitale dagli spazi significanti.

In un contesto caratterizzato da “sovrabbondanza spaziale (mutamenti di scala, accelerazione della mobilità, moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari), i parametri spaziali si ridefiniscono continuamente: non soltanto si riarticola la relazione tra “vicino” e “lontano”, ma anche , come si è visto, quella tra online e offline.

Questo insieme di considerazioni, confermate dai risultati della nostra ricerca, costituisce uno stimolo a ripensare il luogo: alla parziale smaterializzazione (il luogo non è più un “contenitore” stabile di eventi e relazioni; non è più “mappabile” in modo preciso; non ha più una consistenza territoriale e dei confini certi) corrisponde però una sua “umanizzazione”, che lo vede configurarsi come l’intreccio stabile, a geometria variabile, di relazioni nel tempo. Tempo, spazio e relazione sono le variabili che, nel loro intreccio, definiscono la pluralità dei luoghi in cui si iscrivono le pratiche quotidiane, fatte di prossimità relazionali e negoziali (De Certeau 1980).

La dimensione online consente la costituzione di “luoghi antropologici” (relazionali, identitari e storici, secondo la celebre definizione di Augé)5 e, benché non immune dal rischio del non-luogo (la contiguità solitaria, la pluralità senza sintesi, l’autoreferenzialità, una interazione anonima mediata da interfacce testuali, l’accumulo di identità provvisorie…) è orientata da chi la abita decisamente verso la prima possibilità. In particolare, attraverso la stabilità, la costruzione di familiarità, la fiducia come condizione dell’accesso alle cerchie sociali, la manutenzione delle relazioni e l’organizzazione di attività e incontri offline.

Quindi si può dire che tutti gli spazi, sia quelli offline e quelli online, sono reali: cambia la qualità della relazione, occorre un equilibrio nell’articolazione, ed è auspicabile la salvaguardia di entrambe le dimensioni, e della transitività dall’una all’altra: oggi, infatti, una relazione che vive principalmente online è disincarnata e può diventare patologica, ma anche una che si lascia intrappolare nei vincoli dell’offline senza sfruttare le possibilità di prossimità digitale, di condivisione e manutenzione delle familiarità offerta dall’online si impoverisce e inaridisce, come ogni cosa viva che non viene coltivata, e resta schiacciata dagli eccessi di tempo e di spazio che caratterizzano la contemporaneità6.

Oltre il presente assoluto: estasi e cronotopi

Per quanto riguarda le pratiche della comunicazione mediata, oltre alla considerazione sulla contiguità e “bassa discontinuità” degli spazi online e offline, è interessante quanto emerge sulla dimensione del tempo, altra coordinata antropologica fondamentale dell’esperienza. Posto che lo status incide moltissimo sulla struttura del budget temporale (chi lavora, come si è detto, fa un uso molto più contenuto e finalizzato dei nuovi media), complessivamente si possono riconoscere alcuni aspetti interessanti:

un uso consapevole della risorsa temporale: anche se il modello di organizzazione temporale non può essere definito strettamente “monocronico” (orientato all’obiettivo piuttosto che alla relazione, scandito in attività in sequenza lineare, una cosa alla volta), con i suoi caratteri di efficienza ma anche di strumentalità e di scarsa considerazione della relazione, non si può nemmeno dire che emerga un modello “policronico”7 puro (orientato alla relazione ma senza capacità organizzativa, caratterizzato dalla sovrapposizione delle attività e da una certa dispersività): piuttosto, si assiste a un’interessante gestione della risorsa temporale, che si configura come consapevole, organizzata, gerarchizzata, orientata alla relazione. Consapevole perché tematizza la rilevanza dei vincoli esterni (orari di lavoro, tempi da dedicare allo studio, tempi in cui l’uso dei new media va limitato o azzerato per consentire lo svolgimento di altre attività) e anche la ricerca di “tattiche di gestione” che consentano il rispetto dei vincoli (come “nella settimana degli esami non si usa FB”); organizzata, perché la giornata feriale, e diversamente il week-end, è modellata su un palinsesto di molteplici attività (dall’incastro di attività lavorative precarie ai diversi impegni sportivi) che richiedono il rispetto dei tempi e la capacità di gestire una complessità notevole di ruoli, attività e relazioni; gerarchizzata perché, anche quando si è online e l’orientamento è multitasking all’interno di un tipo di utilizzo dei new media che abbiamo definito “ambientale”, ci sono diverse gradazioni di coinvolgimento, e, a seconda del momento della giornata e dell’attività principale in corso, lo spazio online passa in primo piano o resta sullo sfondo (per esempio con la modalità “invisibili”, un atteggiamento “monitorante”, per vedere cosa succede senza farsi coinvolgere se non c’è il tempo di farlo), che è una modalità “gestaltica” interessante di articolare lo spazio online e quello offline (dove la rilevanza, e quindi il criterio della valutazione, è stabilita principalmente dall’offline); e infine, orientata alla relazione, poiché tanto nell’online quanto nell’offline, se si esclude la dimensione lavorativa in senso stretto, le attività hanno tutte una forte componente sociale e l’uso dei new media, pur nelle diverse forme che assume, è tendenzialmente relazionale: essi contribuiscono in modo decisivo alla gestione di una complessità crescente, e al mantenimento delle relazioni in un regime di attività molteplici e frenetiche sovrapposizioni (quello che Augé chiama “eccesso di tempo”) che renderebbero altrimenti molto difficile coltivare i rapporti.

Una rilevanza significativa della “durata” come dimensione delle relazioni altamente investite, che si radicano in un passato non necessariamente recente, e quella della “potenzialità” come riserva relazionale non attualizzata e non investita, ma passibile di attivazione nel futuro. Non si verificherebbe quindi quella “mancanza di avvenire” che per molti autori caratterizza la vita sociale contemporanea (Bourdieu 2000:246), con effetti gravemente limitanti sulle dimensioni della responsabilità e della libertà. Il futuro è, in ogni caso, un “futuro breve” (Leccardi), per una serie di condizioni strutturali ineludibili (precarietà, mutevolezza del mercato del lavoro, crisi) oltre che culturali; ciononostante, la dimensione del futuro è tutt’altro che assente, anche se non esplicitamente tematizzata.

In entrambi i casi (il permanere del passato e l’apertura verso il futuro) la dimensione temporale sfugge ai limiti di quel “presente assoluto” che caratterizza la declinazione iperindividualista della soggettività contemporanea (Bauman 2000) e il tempo riacquista pienamente la sua dimensione “estatica”, dove quelle che Ricoeur chiama “le tre estasi del tempo” (passato, presente e futuro) svolgono un ruolo significativo e dove, al di là del presente immediato, il passato e il futuro definiscono rispettivamente un repertorio di esperienza significativa che va custodita e un orizzonte di attesa. Va aggiunto, come nota problematica, il fatto che il passato è considerato soprattutto un ambito che dà spessore e garantisce autenticità al presente, ma meno come un vincolo che prefigura traiettorie preferenziali di comportamento; così, il futuro è visto come un ambito di potenzialità sul quale affacciarsi, possibilmente senza vincoli. Ma questo è un aspetto su cui è possibile avviare una riflessione anche in termini educativi.

Una stretta intersezione tra dimensione spaziale e temporale, che richiama alla memoria l’idea di “cronotopo” usata da Bachktin a proposito del romanzo8 pare utile anche per interpretare gli “account” dei soggetti intervistati.

Secondo Bachtin “Ogni ingresso nella sfera dei significati avviene soltanto attraverso la porta dei cronotopi” ( p. 405). Il cronotopo è infatti un tempo incarnato in un luogo, un concetto fisico prima ancora che letterario o sociologico, che si afferma in polemica con uno spazio e tempo astratti di tipo euclideo, raccogliendo le sollecitazioni della teoria della relatività di Einstein. Il tempo è sempre “embedded”, come già ricordava S. Agostino: non è mai una dimensione astratta, standardizzata, disancorata, secondo il modello spazializzato e meccanico della modernità9. Il continente digiltale, con le possibilità di mantenere una pluralità di livelli in relazione tra loro, consente, più che altri “habitat” che lo hanno preceduto, il superamento dell’astrazione spaziotemporale e anche dell’astrazione meccanizzante dei tempo frammentato. Il cronotopo, usato come chiave interpretativa della nostra analisi, non rappresenta solo una sintesi di spazio e tempo, ma di diversi spazi e diversi tempi (biografici, relazionali e sociali).

Se si mantiene il cronotopo come unità di analisi dell’esperienza e della relazione, è possibile rileggere anche la dimensione dell’evento, che non si caratterizza come unità esperienziale intensa ma puntuale, in una logica di assolutizzazione del presente, dentro un tempo discontinuo a “stagni e pozzanghere”, come lo definiva Bauman, ma come un momento denso che rimanda a un prima e a un dopo, che sintetizza in sé i vari spazi e i vari tempi, contribuendo alla “tessitura” dell’identità e della vita relazionale del soggetto. L’esistenza non si caratterizza quindi per una radicale “evenemenzialità” (nel segno del trionfo della cronaca, dell’autonomia degli eventi, della giustapposizione e collezione che preclude l’intelligibilità): nel cronotopo ogni evento include tutto lo spazio e tutto il tempo, è una sorta di “Aleph” di borgesiana memoria.

Nel cronotopo, inoltre, spazio e tempo hanno sempre una coloritura valutativo-emozionale, poiché sono legati alla dimensione dell’esperienza come vissuto: non sono solo dunque qualcosa che “ci accade” in modo contingente, , così come capita che piova o ci sia il sole, ma qualcosa che ha un legame con la nostra storia, la costruisce e viene valutato in rapporto ad essa.

Dalle interviste realizzate, ci è parso che il tempo fosse radicato (nell’esistenza offline, nelle relazioni), e non disancorato, e, inoltre, esteso e non “istantaneizzato”.

Secondo Bachtin, poi, in letteratuta è possibile cogliere dei “valori cronotopici”, ovvero delle figure in grado di cogliere il cronotopo in tutta a sua pienezza. Per esempio, il cronotopo dell’”incontro”, dove predomina la sfumatura temporale (promessa di futuro) e l’alto grado di intensità valutativo-emozionale (positivo-intenso per la ricchezza e l’apertura delle nuove possibilità10): un cronotipo molto presente nelle nostre interviste, come “potenziale relazionale” attivabile nel tempo (ma anche come suo corrispettivo, il “distacco”, nel caso in cui venga negata l’amicizia, o si elimini qualcuno dai propri contati a seguito di un “raffreddamento” della relazione); “la strada” (il luogo della casualità,della sollecitazione sensoriale e percettiva, anche se di intensità valoriali ed emozionale minore) si configura come possibile luogo di incontro e scontro dei destini diversi, di persone che sono lontane biograficamente ma contigue fisicamente o “comunicativamente” (la “cerchia” relazionale, in uno spazio molto frequentato, funziona da dispositivo di riduzione della casualità o di casualità controllata). La strada diventa anche la metafora del passare del tempo e della progressione personale (“cammino”), e il cronotopo della riduzione della distanza (s) nell’istante (t).

Caratteristico del cronotopo, e della comunicazione nello spazio digitale, è poi l’“Intrecciarsi dello storico e del pubblico-sociale col privato e con l’intimo” (Bachtin 394). La “Soglia” è un altro cronotopo importante e denso dal punto di vista valutativo-emozionale, poiché ha a che fare con la possibilità di accesso (a un mondo, a una nuova cerchia) e quindi con il tema del cambiamento, ma anche con il senso di incertezza (entrare? lasciar entrare?). Nel cronotopo della soglia il tempo è un “momento sospeso”, un intervallo “liminale”11 che può segnare un mutamento (legato al’accettazione in una nuova cerchia relazionale) oppure un’attesa, che può anche trasformarsi in rifiuto.

Il cronotopo è sempre metaforico e simbolico, poiché implica un allargamento dello spazio-tempo, una dilatazione del qui-ora verso le altre estasi del tempo. E’ un centro organizzativo degli eventi, una unità di contesto, un “morfema abitativo”. (397). È il punto in cui si allacciano, sciolgono, alimentano le relazioni.

Rappresenta una materializzazione del tempo nello spazio, una condensazione e concentrazione del tempo della vita e del tempo storico in determinate porzioni di spazio. Si configura quindi come una unità di significato, capace a sua volta di unificare, ma non come un punto chiuso, bensì come un luogo di rimandi ad altri spazi e altri tempi. Svolge quindi una funzione connettiva fondamentale. Il cronotopo è un dispositivo di management della complessità, di gestione degli “eccessi di spazio” e degli “eccessi di tempo”.

Il cronotopo è anche un dispositivo di “mobilità del confine” (delle cerchie, delle stesse piattaforme): identifica infatti un rassicurante “dentro”, una safe zone, rimuovendo il minaccioso e lasciando l’incerto fuori, ma senza rigidità assolute.

Quello che Bachtin afferma a proposito del rapporto tra mondo raffigurante e mondo raffigurato dell’opera letteraria può applicarsi al rapporto on-line/offline: “Per quanto distinti tra loro (…), per quanto immancabile sia la presenza di un confine rigoroso tra di essi, essi sono indissolubilmente legati tra loro e si trovano in un rapporto di costante azione reciproca, simile all’ininterrotto metabolismo tra l’organismo vivente e il mondo che lo circonda” (401).

Oltre ai cronotopi, un ruolo cruciale nel continente digitale è svolto dagli “eventi connettivi” (il passarsi informazioni su un evento, il condividere materiali…).

La “chiacchiera” è un evento connettivo fondamentale nel continente digitale, poiché serve alla manutenzione delle relazioni, e a rafforzare il senso “gratuito” dell’essere-con.

Oltre la connessione: “stay tuned” e identità relazionali

Viviamo in un’epoca di “rimediazione” (Bolter, Grusin), in cui, come già affermava McLuhan, “il contenuto di un medium è sempre un altro medium” e in cui i nuovi media non sostituiscono i vecchi, ma li costringono a riformulare il loro ruolo. Anche la televisione, quindi non scompare, ma si modificano le condizioni della fruizione e il suo significato sociale12.

Come non si evidenzia una netta separazione tra dimensione offline e online dell’esperienza, così le tecnologie non possono essere analizzate separatamente, ma solo nel modo congiunto in cui danno forma, e diversi gradi di spessore e densità, al continente digitale. L’elemento unificante, che consente alle diverse piattaforme di disporsi in modo convergente, è la relazione. Se, come scriveva McLuhan, il medium è il messaggio, si può dire che il messaggio dei social network è la relazione. Dentro questo tratto comune si verificano poi diverse accentuazioni13.

La vera novità degli ultimi anni è l’esplosione dei social network (secondo il Censis, il 67% dei giovani tra i 14 e i 29 anni utilizza FB), il che significa che più che desiderare di abitare mondi virtuali, o di trovare nuovi palcoscenici per l’espressione e l’esibizione di sé, le persone sono interessate a stare in relazione: come si legge nell’ Ottavo rapporto sulla comunicazione, “L’analisi delle motivazioni che hanno spinto gli utenti a iscriversi a FB mostra che tra le ragioni principali non figurano né il desiderio di mettersi in mostra, né la speranza di intrecciare una relazione intima.. Il motivo che con frequenza maggiore viene indicato alla base dell’adesione a FB è la possibilità di mantenere i contatti con gli amici” (p. 144).

E questo ha una serie di implicazioni sulla priorità della presenza in rete (in cui l’altro è sempre tenuto in considerazione), sull’etichetta della partecipazione ai luoghi pubblici online, sull’equilibrio tra l’espressione di sé e l’attenzione al contesto, sulla fiducia nei confronti di chi accede allo spazio comune: implica, in altre parole, una postura relazionale in cui l’individuo non è in assoluto al centro della scena14 (

Venendo ai risultati della nostra ricerca, rispetto alla questione della relazionalità online, si è evidenziata una continuità tra la composizione delle reti sociali offline e quella online: in particolare, si è visto come i modelli caratteristici della relazione offline (unitarie – basate su una cerchia prevalente -, frammentate – costituite da “galassie” relazionali indipendenti, “gruppocentriche” – tenute insieme da un nucleo stabile di soggetti in relazione, o “egocentriche” – tenute insieme dall’individuo) siano in stretta relazione con le pratiche relazionali nel continente digitale.

E se si evidenza per chi vive nei piccoli centri una contiguità tra le due articolazioni dell’offline e dell’online, con una prevalenza della seconda come ambito privilegiato e “ultimo” della relazione, mentre nei grandi centri le relazioni significative sono più massicciamente “trasferite” nell’online, per la difficoltà di gestire numeri generalmente più alti e distanze spaziali più vincolanti, in tutti i casi non emerge il modello relazionale della “sostituzione” o del “surrogato”.

Per quanto riguarda l’uso degli ambienti digitali, abbiamo distinto tra:

Usi principalmente orientati alla relazione, e in particolare: usi relazionali-organizzativi, orientati al management delle relazioni; e all’organizzazione di incontri ed eventi principalmente offline; usi relazionali-referenziali, dove l’accento è sui contenuti di cui si parla; usi relazionali-monitoranti, finalizzati a vedere “cosa fanno gi altri”; usi relazionali-fatici, dove si enfatizza il contatto e la chiacchiera come collante relazionale.

Usi principalmente orientati alla produzione, alla condivisione non focalizzata e al consumo come modalità più “individuali” , in particolare: usi orientati alla performance – produzione e scambio di materiali, orientati alla consultazione – con scopo informativo-conoscitivo, e orientati all’intrattenimento – videogiochi, visione di video divertenti su YouTube.

Gli usi del secondo tipo, pur presenti, risultano meno significativi sia quantitativamente che qualitativamente (come investimento affettivo e temporale).

Scendendo più nel dettaglio nella gestione delle reti di relazione, possiamo evidenziare una serie di elementi interessanti:

Le piattaforme, tendenzialmente, definiscono diversi livelli di uno “spazio prossemico” che ha il soggetto in relazione come proprio centro, da cui si allargano cerchie dove l’estensione è inversamente proporzionale all’attaccamento e all’investimento. Distinguiamo quindi una sfera “intima”, un nucleo relazionale stabile e generalmente di vecchia data, che costruisce precipuamente attraverso MSN lo spazio dell’interazione (e/o il cellulare o, in misura minore, Skype), con un interessante slittamento di significato dal radicamento nel passato della piattaforma (quella che si usava quando si era adolescenti) e delle relazioni (quelle più radicate nel passato, gli amici di sempre)15; e cerchie più ampie, generalmente “ancorate” a luoghi offline (gli amici della palestra, i compagni dell’università), delimitate da confini presenti ma non totalmente impermeabili, oppure presenti nella forma meno investita di “riserve di contatti”, in attesa di verifica e breve termine o passibili di attivazione nel futuro. FB è lo spazio delle cerchie più ampie, dove il regime comunicativo è quello della pubblicità e della visibilità. Se MSN è maggiormente deputato al “management in profondità” delle relazioni, FB è il luogo del mantenimento e dell’ampliamento delle cerchie relazionali.

La sicurezza: poiché il mondo di FB è un mondo ad accessibiltà controllata, viene percepito come uno spazio tendenzialmente sicuro e privo di pericoli; gli scrupoli maggiori riguardano piuttosto la salvaguardia della propria privacy (specialmente in chi lavora), evitando di condividere argomenti e informazioni troppo personali16.

La fiducia e l’intersezione tra le cerchie: a parte il contatto MSN e il numero di cellulare, che sono forniti solo alle persone con le quali esiste già un rapporto di fiducia, l’accesso a FB è relativamente controllato, generalmente attraverso due tipi di filtri: se qualcuno “chiede l’amicizia” si può lasciarlo in sospeso, per capire nel frattempo qualcosa in più (soprattutto attraverso osservazione offline), oppure capire se esistono amici in comune: molto tipicamente essere “amici dell’amico” (la forma digitale del passa-parola, o una sorta di “two-step flow” nelle relazioni) costituisce una sorta di garanzia di affidabilità. Quindi se è vero che l’accesso a FB non è indiscriminato e che entra in gioco la questione della fiducia, è anche vero che i criteri di verifica sono piuttosto superficiali e deboli: per accettare un nuovo amico spesso l’unica verifica è la “prima impressione” sulla base della foto; per “importare” un gruppo di amici è sufficiente la “garanzia” di qualcuno che si conosce.

La dimensione relazionale è centrale anche rispetti all’adozione delle tecnologie e delle piattaforme, che spesso seguono un percorso “imitativo”.

Riguardo a questa dimensione relazionale vorrei approfondire soprattutto un aspetto, che mi pare significativo: la costruzione di uno spazio pubblico prevalentemente fatico, caratterizzato dalla centralità dell”essere-con”, e il prevalere di una modalità relazionale più empatica e orientata all’armonia che finalizzata all’esibizione di sé o all’argomentazione (sul modello della sfera pubblica di Habermas): lo spazio digitale è un ambiente dove ci si “accorda” reciprocamente più nel senso della sintonia e del vibrare all’unisono che nel senso di una capacità deliberativa. In questa “musica pratica”, per usare una bella espressione di Barthes, si esprime una socialità in cui, comnque, non si può non tener conto degli altri.


La parola come chiacchiera e la parola come dono

Frasi molto ricorrenti nelle interviste effettuate, del tipo “Ci parliamo, due chiacchiere senza dirci niente, così…” oppure “MSN io lo uso per chiacchierare con i miei amici, parliamo di scemenze, cavolate…” e moltre altre analoghe, dove ci si parla per sentirsi, per rimanere in contatto, rientrano, dal punto dell’analisi linguistica, in quella che Jakobson ha definito “funzione fàtica”, una sorta di uso residuale e marginale della comunicazione usato per verificare che il contatto si attivo, prima ancora che per dire qualche cosa. E’ l’unica funzione che l’essere umano ha in comune con gli animali (che si trasmettono, attraverso l’emissione di segnali, la reciproca presenta) e che caratterizza uno stadio “primitivo” della comunicazione, quale quello dei bambini molto piccoli, che prima ancora di poter pronunciare delle parole atte a comunicare, emettono suoni e vocalizzi in grado di rassicurarli sulla propria capacità espressiva e sulla possibilità di “farsi sentire”, pur senza dire qualcosa di comprensibile. Scrive infatti Jakobson: “Questa accentuazione del contatto può dare luogo a uno scambio sovrabbondante di formule stereotipate, a interi dialoghi, il cui unico scopo è prolungare la comunicazione (…) E’ anche la prima funzione verbale che viene acquisita dai bambini, nei quali la tendenza a comunicare precede la capacità di trasmettere e ricevere un messaggio comunicativo”17. Quella che Jakobson considera una curiosità semipatologica del linguaggio, acquista oggi un ruolo centrale. Con quale significato?

La risposta va ricercata non nella linguistica, ma nell’antropologia. E’ stato Malinowsky18, infatti, a fornire un’interessante interpretazione del ruolo sociale di quella che, significativamente, chiama “comunione fàtica”: non parola come “veicolo di significato”, ma parola come “atto”, come “evento” e come “dono” che crea un luogo comune da abitare insieme. La pragmatica precede la semantica. Infatti “Fàtico deriva dal greco phatikos (da phatizo) che significa ‘affermato’, detto’, ma detto senza prova, irresponsabilmente, come quando si dice qualcosa così, per il puro piacere di dire- Questa comunicazione fine a se stessa, questa glossolalia insignificante, viene posta da Malinowski letteralmente al centro dela vita del villaggio primitivo. Essa risulta centrale non solo perché ha luogo ‘attorno al fuoco di un villaggio’, nei momenti di ozio, quando la comunità si ritrova ‘a godere della compagnia reciproca’. Essa è centrale anche per una ragione etica. Il tipo di azione che si fa chiacchierando di niente (…) è l’azione fondamentale per la costituzione e la ricostituzione della comunità” (Ronchi 2003:41-42)19.

Se è vero che “ogni prassi comunicativa presuppone un tipo di comunità” (Ronchi 2003:5), è anche vero che la prassi comunicativa va valutata sullo sfondo delle più ampie condizioni esistenziali di un gruppo sociale. In un mondo, come lo definisce Augé, di eccesso di spazio, e di eccesso di tempo, dove il rischio dello sfilacciamento del legame sociale è altissimo e dove la moltiplicazione degli spazi e la complessificazione dei tempi rende sempre più difficile l’incontro, la comunione fatica continuamente ritesse il luogo comune e gli dà stabilità, configurandosi come una risposta non individualistica all’angoscia per quella che De Martino chiamava la “labilità della presenza”.

Anche la parola scambiata in rete con funzione fatica possiede questo potere “topogenetico”20, piuttosto che referenziale, capace di creare e stabilizzare un luogo di incontro e convivialità prima ancora che di comunicazione (in senso “semantico”, come condivisione di contenuti). E se è vero che, in grandissima parte, “non si comunica nulla, si comunica “per comunicare’” (Ronchi 2003:39), la verifica del contatto assume una fondamentale funzione di tessitura della trama della quotidianità. La “comunità della rete” si insedia dunque nello spazio pubblico della comunicazione fatica, anziché in quello habermasiano dell’agire comunicativo razionale, e mira a un’intesa fondata sull’armonioso essere-con piuttosto che sul libero e critico consenso, come nella teoria dell’azione comunicativa. Se si possono cogliere gli aspetti positivi di questa risposta non individuale alle criticità contemporanee, non sfugge tuttavia l’ambivalenza di una condizione che per quanto positiva, non può proporsi come orizzonte ultimo della comunicazione; casomai, come costituzione delle condizioni di possibilità, come premessa forse necessaria, date le condizioni di complessità del nostro ambiente di esperienza, ma certo non sufficiente. La parola allestisce una prossimità, rompe un’estraneità, trasforma lo spazio in un luogo. Non costruisce però ancora un vincolo, un legame (non è parola-logos). E i rischi e le derive sono ben chiari, come riconosce lo stesso Ronchi: “La vuota chiacchiera risponde all’esigenza di fondare una micro comunità occasionale tra estranei che restano estranei. Per questo il bravo conversatore occasionale sa come evitare determinati argomenti che potrebbero produrre divergenze nel momentaneo luogo comune e, se si tratta di fare affermazioni, si attiene prudentemente a quanto pensa la maggioranza (…).La chiacchiera, insomma, ha una sua grammatica” (2003:40).

Se la funzione fatica svolge il ruolo di collante relazionale e di stabilizzatore del luogo dell’interazione (un luogo, come si è visto, sempre meno definito da coordinate spaziali, e sempre più da coordinate relazionali, quindi “a geometria variabile” poiché le cerchie sono mutevoli), è vero che il prevalere di questa funzione nella comunicazione dei giovani ha le sue “grammatiche”. In particolare, a seconda del livello di coinvolgimento che si mette in gioco (che si accompagna spesso alla scelta di una piattaforma piuttosto che un’altra21), si verificano diversi modelli di “costruzione di familiarità”, e alcuni soggetti sono in grado di agire come “costruttori di familiarità”, facilitando la costruzione di “luoghi comuni“ allargati. Il modello prevalente della socialità pare proprio quello della costruzione della familiarità, sia nell’accezione minimale di “riduzione della distanza” (trasformando un contatto occasionale in un “amico”), sia nella forma più investita della “comunione fatica”22.

E l’etichetta dell’essere-con prevede (a differenza delle retoriche dominanti, e anche delle nostre aspettative) la limitazione dell’espressività individuale per non rompere l’equilibrio del gruppo: un orientamento all’armonia che è tipico delle culture collettiviste, e che, unitamente al prevalere della funzione fatica, ci aveva inizialmente fatto pensare, in termini Mcluhaniani, a una sorta di “neotribalismo”, ma che in realtà rivela piuttosto i caratteri di una individualità relazionale, consapevole della presenza degli altri, preoccupata che il luogo intessuto dalla comunicazione resti veramente “comune”. Per questo le appartenenze, quando si verificano, sono estremamente deboli (i vari gruppi vengono fondati su aspetti curiosi, più per fare gruppo attorno a sé e per sentirsi parte con altri di qualcosa che per l’adesione a un principio, a un’idea o a un’iniziativa: è significativo che la stragrande maggioranza degli intervistati non ricorda nemmeno uno dei gruppi a cui è iscritta). L’essere con prevale sul configgere (chi esprime posizioni polemiche viene allontanato; si tende a non toccare questioni che possono generare contrapposizioni e divisioni, come quelle legate alla politica o alla religione. Appare evidente come questo bisogno, che rappresenta certamente un positivo sforzo di superamento de’individualismo radicale, richiede però risposte più alte23. Anche perché la regola implicita di evitare ciò che può generare conflitto, produce, oltre a un dilagare della banalità, anche un effetto “spirale del silenzio”: piurìttosto che affrontare questioni potenzialmente controverse, si eclissano tutta una serie di questioni dal parlare comune.

Costruzione e gestione dell’identità

Sulla presentazione del sé in rete i risultati dell’indagine hanno smontato alcune aspettative legate a un uso “narcisistico”, esibizionista e autoreferenziale o, viceversa, di un nascondimento e di un mascheramento del sé. Intanto, proprio per la forma che il social network assume data la sua finalità relazionale, non ha senso “nascondersi” dietro enigmatici nickname, perché lo scopo è quello di rintracciare ed esser rintracciabili. Inoltre, data la natura pubblica dello spazio di FB, l’eccesso appare inopportuno, pur nella ricerca di una rappresentazione del sé il più gradevole possibile (la foto è il primo “biglietto da visita” e spesso assume un ruolo decisivo rispetto alla fiducia). I profili sono tendenzialmente essenziali e non sono oggetto di investimento particolare: la presentazione di sé è subordinata alla relazione, non è un fine in se stessa.

L’ingresso in FB svolge per molti la funzione di “rito di passaggio” dall’età adolescenziale a quella adulta (e traduce la volontà di avere un maggiore controllo sulla propria identità sociale), o dallo spazio ristretto degli amici intimi a uno spazio pubblico allargato, spesso a seguito di una svolta esistenziale (come l’accesso all’università)24.

D’altra parte, il modo di “stare” su FB è molto legato alle condizioni di vita offline, e per chi lavora o vive in u piccolo centro dove tutti si conoscono c’è maggiore consapevolezza che le azioni on line possono avere dirette ed esplicite conseguenze sulla propria quotidianità off line.

Rispetto alla presentazione del sé on line si possono riconoscere alcune strategie comuni:

- Controllo (soprattutto femminile): esprime il desiderio di controllare in maniera diretta e strategica la propria identità on line, per cui si sceglie e si confeziona con attenzione il materiale da pubblicare; si cerca di dare di sé informazioni chiare, univoche, complete; si monitora. e quando necessario si “censuranointerventi altrui nel proprio profilo

Tale atteggiamento si collega al desiderio di dare di sé un’immagine desiderabile, alla paura di finire vittime di equivoci, di interpretazioni erronee, al timore di creare delle discrasie tra la propria immagine off line e on line

- Marginalizzazione: soprattutto maschile, consiste in una riduzione o trattamento minimalista del “discorso sul sé” nelle pratiche di utilizzo della piattaforma e in particolare ci si limita a toni ludici, ironici; ci si focalizza per lo più su temi, personaggi al centro dei discorsi sociali (per esempio personaggi tv); ci si limita a commentare, “linkare” contenuti prodotti da altri; anche quando il discorso ricade su aspetti della propria vita privata, si tende ad inserirsi in un gruppo, in una precisa cerchia relazionale (gli amici, i compagni di classe, di squadra) piuttosto che esporsi in maniera individuale (si preferiscono, per esempio, le foto di gruppo a quelle personali).

Questo atteggiamento sembra dettato da un lato dalla paura di poter essere giudicato anche in contesti off line (soprattutto nei centri piccoli dove le cerchie relazionali off line e on line tendono a sovrapporsi), dall’altro dal desiderio di non connotare eccessivamente un profilo sociale e/o lavorativo che è ancora in via di definizione

- Omologazione: trasversale a maschi e femmine. Si presta grande attenzione alle azioni, ai comportamenti della maggioranza dei propri contatti per imitarli. In particolare si cerca di comprendere qual è l’etichetta della piattaforma, e si tende a rispettarla; si mostra un atteggiamento allineato, di modo da evitare di essere criticati e giudicati, preferendo il passare inosservati al divenire oggetto di critiche o curiosità eccessiva.

In particolare all’interno di questa modalità si precisano in maniera chiara le linee di una “etichetta” dello spazio virtuale, definendo i “paletti” entro cui si iscrive un comportamento “corretto” attraverso la stigmatizzazione e la critica (spesso anche aspra) di tutti i comportamenti “eccentrici”, o eccessivamente individualizzati e quindi non condivisibili (per esempio: chi commenta ogni azione della sua giornata, chi parla di cose troppo personali).

La diffusione di questo atteggiamento è interessante perché, come già sottolineato, va nella direzione contraria all’individualismo spinto che caratterizza il mondo sociale contemporaneo ( e che forse appartiene più alla generazione degli adulti, dei loro genitori) e rilegge in chiave “digitale” il tema del monitoraggio reciproco, del “controllo sociale”, della capacità del gruppo di disciplinarsi privilegiando l’armonia e l’equilibrio complessivo piuttosto che l’espressività individuale, confermando l’ipotesi di una “individualità relazionale” piuttosto che “narcisista”.

2) Per un nuovo umanesimo del continente digitale

Nella realizzazione della nostra ricerca ci ha guidato, certamente, un interesse “scientifico”: capire cosa sta succedendo nell’ambiente mediatizzato, quali sono le forme di adattamento e modellamento che stanno prendendo forma nel modo digitale. Ma la motivazione che ci guida non è distaccata e neutrale, bensì partecipe e coinvolta, e la finalità non è puramente esplorativa, ma antropologica nel senso più profondo: quali sono, nel nuovo contesto sempre in divenire, le condizioni per un nuovo umanesimo, per azioni, relazioni e pratiche che siano capaci di accrescere la nostra umanità, che promuovano la persona nella sua integrità, che lascino aperto quello spazio della trascendenza senza il quale l’umanesimo diventa disumano25.

Dalla nostra indagine emergono alcuni aspetti che, pur conservando una certa ambivalenza, rappresentano un correttivo rispetto alle derive antiumanistiche della cultura contemporanea (l’individualismo spinto, l’implosione nel presente assoluto, il rifiuto del vincolo e della durata) e aprono delle prospettive nelle quali un umanesimo attento alla totalità della persona può trovare spazio. I possibili correttivi scaturiscono da due fonti: quella dello studioso, che analizzando la situazione e le dinamiche in corso, può identificare aree di criticità e opportunità di promozione umana; ma, siamo contenti di poterlo dire, anche dalle pratiche di frequentazione del continente digitale da parte degli stesi “attori” che, pur con diversi gradi di consapevolezza, “rispondono” alle ovvietà culturali ormai divenute normative con comportamenti che, a livello della prassi, mettono in campo un primo abbozzo di critica costruttiva attraverso un agire non allineato agli imperativi della contemporaneità.

Dal punto di vista del nostro ruolo di scienziati sociali, possiamo affermare in conclusione che la ricerca ci ha consentito sia di superare alcune dicotomie che impedivano di cogliere le dinamiche in atto, sia di ridefinire alcuni concetti fondamentali per le scienze sociali in termini nuovi, più relazionali e dunque più compatibili con una “nuova sintesi umanistica”.

Tra le dicotomie che risultano a nostro avviso ormai inutili, quando non fuorvianti, per interpretare la dimensione relazionale in rete possiamo includere individuale/collettivo, pubblico/privato, particolare/universale. In luogo di una contrapposizione (che rende sempre difficile la composizione senza cadere in una qualche forma di determinismo), abbiamo potuto rilevare una disposizione relazionale dei soggetti nell’ambiente digitale (un ambiente tessuto narrativamente e attraverso una comunicazione “fatica”, quindi intrinsecamente intersoggettivo), una sorta di “intersoggettività pratica” che definisce la modalità di presenza in rete: né individuo né tribù, quindi, ma cerchie che si intersecano, gradazioni di prossimità in un ambiente strutturalmente relazionale, dove essere significa essere-con. In questo quadro, le dimensioni del pubblico e del privato non sono contrapposte, ma rappresentano un continuum in divenire, a seconda dei gradi di prossimità e del trasformarsi delle relazioni (stabilizzazione, management in profondità, raffreddamento relazionale…). Poiché nell’universo del web è fondamentale il coinvolgimento personale, in un certo senso tutto è “particolare”, ma le pratiche di condivisione, il monitoraggio reciproco, il sintonizzarsi anche non esplicitamente su un’etichetta della relazione online compongono una costellazione di regole che vanno ben al di là del comportamento del singolo o della contingenza della comunicazione.

Tra i concetti che i risultati della ricerca ci hanno costretto a ridefinire ci sono certamente quelli di spazio e di tempo. Il primo perde tutta l’astrazione euclidea che già McLuhan aveva contestato, per radicarsi nella relazionalità: proprio perché non si definisce come un supporto o un contenitore “dato”, va continuamente alimentato, ritessuto, riconosciuto. L’espressione della filosofa Sheila Benhabib, “viviamo in reti di interlocuzioni e di storie”26 appare oggi particolarmente appropriata. Come abbiamo notato27 la prevalenza della dimensione narrativa e di quella fatica è assolutamente evidente, e questa prevalenza rappresenta una risposta – e quindi una critica implicita - allo sfilacciamento delle relazioni, all’erosione del capitale sociale28, alla frammentazione e all’individualismo ma anche alla contrapposizione tra online e offline, la cui discontinuità è suturata, appunto, dalla coralità della narrazione e dalla transitività che le pratiche relazionali consentono.

Dalla centralità dell’azione individuale, che rende difficile arrivare alla composizione, abbiamo spostato quindi l’attenzione alla tessitura di spazi per l’interazione, e ai diversi livelli di coinvolgimento che essi richiedono. L’unità di analisi è quindi la persona nei suoi molteplici coinvolgimenti e i con i diversi gradi d’impegno messi in gioco 29. La dimensione pragmatica acquista quindi preminenza rispetto alla semantica dell’azione. Il problema non è quindi analizzare chi sono i soggetti, com’è l’ambiente e come si comportano i soggetti nell’ambiente, ma quali pratiche dei soggetti in relazione (con gli altri, con l’ambiente che attraverso le relazioni prende forma) configurano un universo comune e abitabile, dove “abitare” è il modo propriamente umano di esistere nel mondo30.

Anche rispetto al tempo, come si è visto, è necessario un ripensamento e un re-embedding nelle pratiche, capaci di gestire la “complessità degli eccessi” attraverso figure spazio-temporali che organizzano, danno stabilità e visibilità al proprio universo relazionale. Come si è visto, possiamo identificare, nelle pratiche, dei “cronotopi” che legano spazio, tempo e relazione, superando la frammentazione degli spazio e l’implosione del tempo nell’istante 31 e riaprendo l’arco delle tre “estasi” del tempo.

Il focalizzarsi sui regimi di impegno nel mondo condiviso, e sulle grammatiche della prossimità che questo comporta, ci ha consentito di rileggere altri termini chiave dell’analisi sociale, come quello di “autonomia”: crediamo che alla luce di un nuovo umanesimo l’idea liberista di autonomia come libertà dai vincoli vada ripensata, e che la ricerca offra, seppure in embrione, gli elementi per pensare a un’autonomia in chiave intersoggettiva e relazionale, come capacità di esercitare libertà e responsabilità precisamente dentro i vincoli (relazionali e ambientali) che caratterizzano l’abitare: l’attenzione agli altri (sia nell’evitare eccessi nella presentazione di sé, sia nel rifuggire argomenti potenzialmente conflittuali, sia semplicemente nel posizionarsi rispetto a un mondo che si trova già organizzato dalle relazioni preesistenti, solo per fare qualche esempio, evidenziano una consapevolezza relazionale ed ecologica, oltre che consentire al mondo comune, attraverso i reciproci aggiustamenti continui e gli sforzi di sintonizzazione, di restare perennemente in divenire. Come scrive Irigaray ““[La libertà] è, in ogni istante, costretta a ri-definirsi o modularsi in funzione degli enti o esistenti, umani o non, che la circondano. Non deve, nondimeno, rinunciare al suo impulso proprio, ma scoprirgli un’economia compatibile con quella dell’altro (…) La libertà deve , in ogni momento, limitare la sua espansione per rispettare gli altri esistenti e, ancor più, trovare il modo di formare con loro un mondo sempre in divenire” (Irigaray 2009: 16). E ancora: “La prossimità all’altro, si scopre nella possibilità di elaborare con lui, o lei, un mondo comune che non distrugga il mondo proprio a ciascuno. Questo mondo comune è sempre in divenire” (Ivi, 27).

L’autonomia, dunque, non solo non è incompatibile con i vincoli della relazione, ma non può esprimersi al di fuori di essa; di più, non può esprimersi fuori della costruzione relazionale di un mondo comune.

Se la comunicazione “fatica”, così abbondantemente presente nelle modalità di abitare la rete, può sembrare a prima vista un chiacchiericcio fine a se stesso, un accessibile e poco impegnativo riempitivo del vuoto esistenziale (e occorre vigilare perché non si riduca a questo, che è un rischio sempre presente), guardata più da vicino può svolgere la funzione di “manutenzione del luogo comune”, preliminare alla costruzione di una comunanza più consapevole, o addirittura di una prossimità32.

Le pratiche che abbiamo potuto ricostruire a partire dalla prospettiva scelta ci hanno confermato l’importanza della dimensione del “comune” sul “proprio”33. Più in particolare, ci hanno consentito di identificare, a partire dall’intensità di coinvolgimento e dalle loro gradazioni34, diversi regimi di spazio-temporalità, diversamente investiti dal punto di vista emotivo-valutativo e collegati a diverse grammatiche comunicative (per esempio nascondimento-disvelamento, tipo di accessibilità etc.). In particolare penso si possano distinguere tre regimi di impegno e intensità relazionale-esperienziale, che definirei prossimo (o intimo), comune e pubblico. Mi pare che la dimensione della “commonality” sia particolarmente rilevante perché, anche s e si esprime attraverso forme “leggere” e prevalentemente ludiche come appartenenze deboli a gruppi o delimitazione flessibile di cerchie relazionali stabili ma implementabili, esprime un bisogno di superamento dell’atomizzazione sociale, e mette in campo risorse, ancorché limitate, per rispondervi.

Naturalmente fin qui si sono evidenziate soprattutto le opportunità, e le possibili premesse, per lo sviluppo di un nuovo umanesimo digitale. I rischi non mancano, e ne elenco solo qualcuno: il rischio della banalità (nel linguaggio, nei contenuti, che rischia di rendere “povero” il luogo comune che si costruisce insieme, tanto povero da impedire, anziché agevolare, l’incontro35; il rischio che la dimensione della nostalgia, molto presente sia in riferimento alle relazioni, che alle tecnologie come marcatori di una fase rimpianta del sé, finisca con l’assumere una funzione regressiva e consolatoria, facendo nuovamente implodere le tre dimensioni del tempo, anziché nel presente assoluto, in una mitica età dell’oro36; una certo sbilanciamento della relazione sulla dimensione della philìa, dell’affinità con il simile, che potrebbe limitare le potenzialità di costruzione di prossimità nell’ambiente digitale, e impoverire la comunicazione lasciando ai margini ciò che più propriamente la costituisce, ovvero il rapporto con l’alterità (e, auspicabilmente, anche con l’Alterità con la A maiuscola, almeno come orizzonte di possibilità: senza di essa, infatti, è difficile fondare una fraternità con chi è totalmente “altro”). Quella alterità che sola, come scrive Lévinas, inaugura la possibilità di prossimità e di fratellanza: “L’alterità che infinitamente obbliga fende il tempo con un intervallo – un frattempo – insuperabile: l’”uno” è per l’altro di un essere che si dis-tacca, senza fare di sé il contemporaneo dell’altro, senza potersi mettere accanto a lui in una sintesi esponibile come un tema; l’uno-per-l’altro, in quanto l’uno-guardiano-di-suo-fratello, in quanto l’uno-responsabile-dell’altro. Tra l’uno che io sono e l’altro di cui rispondo, che è anche la non-indifferenza della responsabilità, significanza del significato, irriducibile a un sistema qualsiasi, si spalanca una differenza senza fondo. Non-in-differenza che è la prossimità stessa del prossimo, nella quale soltanto si delinea uno sfondo di comunanza tra l’uno e l’altro, l’unità del genere umano, tributaria alla fratellanza degli uomini. (Lévinas 2009: 24).

Tuttavia, a fronte di queste ambivalenze, ci pare di poter affermare che i presupposti per un nuovo umanesimo sono più favorevoli rispetto alla cultura di cui è portatrice la generazione degli adulti.

Se è vero che il risultato più significativo della nostra ricerca è stata la centralità della dimensione relazionale ( e la sua capacità di operare una serie di ricomposizioni, prima fra tutte quella tra online e offline) , questo rappresenta una buona notizia: come scrive Benedetto XVI, infatti “La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è un elemento essenziale” (CV 55).

Come è sempre stato, ma oggi più che mai, sono allora i giovani la speranza per un futuro più umano:

“Giovane sta a indicare il sovrappiù del senso rispetto all’essere che lo regge (…) La giovinezza è autenticità. Giovinezza però definita dalla sincerità, che non è la brutalità della confessione, né la violenza dell’atto, ma è il farsi incontro agli altri, farsi carico del prossimo, sincerità che nasce dalla vulnerabilità umana. Capace di ritrovare le responsabilità sotto la spessa coltre delle letterature che ce ne assolvono, la gioventù (…) cessa di essere l’età della transizione e del passaggio, per rivelarsi l’umanità dell’uomo” (Lévinas 2009: 156).


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1) Ricordo che la ricerca è basata su 50 interviste telefoniche semistrutturate, della durata di 60-75 minuti, somministrate a un campione di 50 ragazzi (25 maschi e 25 femmine) tra i 18 i 24 anni, su tutto il territorio nazionale, equamente ripartiti tra studenti e lavoratori, abitanti i piccoli centri e grandi città.

2) D’ora in avanti si utilizzeranno le seguenti abbreviazioni: Facebook = FB; Messenger = MSN.

3) Non potendo riferire qui in modo esaustivo su tutti gli aspetti della ricerca, rimando in ogni caso al sito di Testimoni Digitali, dove è possibile trovare una nota metodologica, i file audio delle interviste, la codifica delle interviste secondo una griglia focalizzata sugli aspetti di interesse della ricerca e il rapporto di ricerca completo. Ricordo inoltre che le relazioni dei giovani ricercatori che mi seguiranno, e che saranno parimenti a disposizione sul sito, offrono ulteriori approfondimenti rispetto a importanti aspetti emersi.

4) Mi pare moto pertinente a questo riguardo quanto affermava Bourdieu a proposito della coincidenza tra “habitus” e “habitat”, tra le disposizioni e le consuetudini che sviluppiamo in relazione all’ambiente e il nostro senso di essere “a casa propria”: “Il fascino indiscutibile delle società stabili e poco dfiferenziate, luoghi per eccellenza, secondo Hegel, della libertà concreta come ‘essere-a-casa-propria in ciò che è, trova la sua origine e il suo fondamento nella coincidenza quasi perfetta tra habitus e habitat, per esempio tra gli schemi della visione miitica del mondo e la struttura dello spazio domestico, organizzato secondo le stesse opposizioni” (Bourdieu, 2000:155).

5) M. Augé, Non-luoghi, Milano, Eleuthera, 1983.

6) Inoltre, le modalità online e offline della relazione, ed eventualmente il prevalere della componente affettivo-relazionale su quella funzionale-strumentale non sono sempre nettamente separabili: mentre ci si trova online per organizzare un incontro offline, per esempio, si compie un’azione strumentale che nel contempo cementa la relazione e sottolinea la “transitività” (come attraversabilità nei due sensi, passaggio reversibile) tra i due livelli dell’esperienza, mentre quando si commentano online eventi o incontri offline si usa l’esperienza faccia a faccia per nutrire e animare lo spazio digitale.

7) “Monocronico” e “policronico” sono due modelli di organizzazione temporale identificati dall’antropologo E.T. Hall nella sua analisi cross-culturale: il modello monocronico è più tipico delle società occidentali e dei mondi industrializzati, dove prevale l’individualismo; quello policronico delle culture orientali o latine e dei mondi più “tribali”, dove prevale il collettivismo. Per una trattazione più approfondita mi permetto di rimandare a C. Giaccardi, Comunicazione interculturale, Bologna, Il Mulino, 2006, cap. 2.

8) M. Bachkin, L’estetica del Romanzo, Torino, Einaudi. Il cronotopo è in realtà un concetto di derivazione fisica, che utilizza un approccio quadridimensionale, dove alle tre classiche dimensioni altezza, lunghezza, profondità si aggiunge quella del tempo. Il cronotopo, nella fisica di Einstein, è l’unità di misura dello spazio-tempo definito dalle 4 dimensioni.

9) L. Mumford in Tecnica e cultura scriveva che gli orologi sono macchine per produrre ore, minuti e secondi, una celebre definizione ripresa poi anche da McLuhan in Gli strumenti del comunicare.

10) E’ l’atteggiamento che Augé definisce “lo splendore dei ricominciamenti”, in M. Augé, La memoria e l’oblio,

11) Ricordiamo che nello schema dei “riti di passaggio”, quelli che segnano il cambiamento irreversibile di status nel mondo sociale la fase liminale è la più delicata, perché il soggetto vive un momento di separazione dalla sua condizione abituale, ma non è ancora “riaggregato” a un nuovo ordine di riferimento (cfr. A. van Gennep, I riti di passaggio,Torino, Bollati Boringhieri e V. Turner, Dal rito al teatro, Boogna, Il Mulino).

12) Per questo aspetto rimando all’interevento di Massimo Scaglioni.

13) Su questo si veda l’intervento di Matteo Tarantino.

14) Si riconosce infatti una differenza di postura tra gli adulti, tendenzialmente iperindividualisti e giovani, molto più socio-oriented. Come riporta la ricerca del Censis (2009), con il web 2.0 i giovani usano la rete per fare rete.

15) Su questo aspetto scenderà in maggiori dettagli l’intervento di Matteo Tarantino.

16) Come si è detto, l’attenzione per la privacy è comunque generalmente molto più bassa di come ci saremmo aspettati, soprattutto per chi vive nei grandi centri urbani.

17) R. Jakobson, Poetica e linguistica, 1958, cit. in R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 38.

18) B. Malinowski, “Il problema del significato nei linguaggi primitivi” (1923), in C.K. Odgen, I.A. Richards, Il significato del significato, Milano, Il Saggiatore, 1966, cit. in Ronchi 2003.

19) Le parole di Malinowski a riguardo sono estremamente significative: “La rottura del silenzio, la comunione delle parole il primo atto per stabilire quei vincoli di amicizia che si consolidano durevolmente solo con la rottura del pane e con la condivisione del cibo” (1923, p. 354, cit. in Ronchi 2003:42).

20) L’espressione è di Ivan Illich, che però la riferisce esclusivamente alla parola pronunciata, o anche al suono (come quello della campana della chiesa).

21) Si veda a riguardo l’intervento di MatteoTarantino.

22) Lo stesso modello di costruzione di familiarità si verifica anche rispetto ai personaggi mediali, in particolare attraverso il fenomeno del fandom, che collega l’uso dei vecchi e dei nuovi media (si veda a riguardo l’intervento di Massimo Scaglioni).

23) La bassa normatività, e un essere-con fondato più sulla dimensione ludico-relazioanle piuttosto che valoriale, ci hanno fatto abbandonare l’ipotesi di un “neotribalismo”: piuttosto, si verifica un forte investimento personale nel “luogo comune”, senza percepire una contraddizione tra questi due livelli, ma anzi fondando sul secondo la “autenticità” del primo.

24) Su questi aspetti scenderà in maggiori dettagli l’intervento di Simone Carlo.

25) Caritas in Veritate 11: “L’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione (…) Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato, o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato”

26) S. Benhabib, The claims of culture,

27) E questo si riflette anche nei consumi culturali, cfr. l’ intervento di Scaglioni.

28) Al n. 32 della CV si parla appunto di “progressiva erosione del ‘capitale sociale’, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili a ogni convivenza civile”.

29) Ci atteniamo qui alla definizione di Impegno (engagement) proposta da Laurent Thevenot, come “rapporto a un mondo attualizzato dalla persona (Thevenot 2006: 238).

30) Come scrive Ivan Illich “In numerose lingue, ‘vivere’ è sinonimo di abitare. Chiedere ‘dove vivi?’ significa chiedere qual è il luogo dove la tua esistenza quotidiana forma il mondo. Dimmi come abiti e ti dirò chi sei. Questa equazione di abitare e vivere risale a tempi in cui il mondo era ancora abitabile e gli esseri umani erano abitanti. Abitare allora significava essere presenti nelle proprie tracce, lasciare che la vita quotidiana iscrivesse la rama della propria biografia nel paesaggio” (Illich 1992: 53), enfasi mia.

31) Uno dei cronotopi individuati è quelo di “soglia”, sulle cui implicazioni relazionali vorrei riferire le parole di Luce Irigaray: ““Più che di traiettorie intersecantesi all’infinito (…) sarebbe meglio parlare della costruzione di aperture deliberatamente allestite per l’accesso all’altro – di soglie, dunque” (…) Costruire simili aperture, richiede attività, ma anche passività: un’economia poco nota nella nostra tradizione occidentale, che l’incontro con l’altro ci costringe a scoprire, a coltivare. (…) Fidarci dell’apporto che la sua alterità ci fornirà, accettare di ricevere fino aesseren modificati, senza però rinunciare a noi stessi, ecco ciò a cui la soglia deve darci accesso. Aprendoci all’ospitalità grazie a un lavoro di appropriamento a noi stessi di raccoglimento in noi” (Irigaray 2009: 27-28).

32) Come scrive anche Irigaray: “La prossimità all’altro non può ridursi alla condivisione di un territorio, a una vicinanza spaziale. L’altro come altro ci resta lontano, qualunque sia la vicinanza dove ci collochiamo. Ed è nella misura in cui riconosceremo di essere lontani l’un l’altro che potremo cominciare ad avvicinarci” (Irigaray 2009: ).

33) Che, lo ripeto, sono due modalità diverse rispetto a individuale e collettivo, poiché entrambe hanno una forte componente relazionale e si collocano in una temporalità diacronica, nella dimensione del durare, del permanere.

34) Che tendono a corrispondere anche all’utilizzo di certe piattaforme, o di certe applicazioni all’interno delle diverse piattaforme, cfr. intervento di Tarantino.

35) Anche su questo aspetto mi sembrano pertinenti alcune osservazioni di Irigaray: “Nessuna parola raggiungerà il ritmo, o meglio la melodia, che consente l’approccio dell’altro se essa proviene da un discorso già esistente. Rischia anche di perdere ogni significato e di diventare una culla non di vita, di crescita e di amore, ma solo di illusioni e sortilegi. In ogni momento, la parola deve articolare, per ciascuno e in ciascuno, quanto ha di terrestre e di celeste, di umano e di divino.”(Irigaray 2009:31). E ancora, è opportuno tenere presente il rischio di restare prigionieri di “un cerchio già definito del discorso in cui ciascuno di noi deve prendere posto (…) Se non riusciamo a liberarcene, l’incontro con l’altro in quanto altro ci resta inaccessibili. Non possiamo farne esperienza.I luoghi dell’incontro, in origine possibili, non esistono più. Certo, possiamo chiacchierare entro un orizzonte determinato dal medesimo” (Ivi, 34).

36) D’altra parte, la nostalgia può avere una funzione positiva, se serve a mantenere vivo il ricordo “caldo” di ciò che appartiene al passato ma entra nella costituzione del nostro sé presente; se ci aiuta, in altre parole, a permanere in quella “fedeltà a noi stessi”, pur nel cambiamento, senza la quale anche la relazione con l’altro non è più possibile: come scrive Irigaray, infatti, “Prima di cominciare ad avvicinare l’altro conviene interrogarsi su sé e sul soggiorno dove si abita. Importa scoprire a quale fedeltà ci atteniamo rispetto a quanto ci è proprio. E sarà spesso necessario rifare il cammino per interrogare ciò dove già ci situiamo. Se non stiamo laddove dovremmo essere (…) non siamo preparati a un incontro con l’altro” (Irigaray 2009: 27).



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