Il rapporto tra l'omosessualità e la Chiesa nel Medioevo è un problema che, fino ad oggi, ha suscitato scarso interesse fra gli storici. Lo studio più completo su questo aspetto è quello di John Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pubblicato nel 1980. Questo lavoro, nonostante la formulazione di alcune tesi a volte troppo elaborate e militanti, ha il grande merito di fornire una quantità sterminata di fonti non solo greche e latine, ma anche ebree e arabe, oltre che in volgare. Fra queste fonti abbiamo rintracciato il Liber Gomorrhianus (LG) di Pier Damiani, ritenuto da Boswell il primo vero attacco all'omosessualità nel Medioevo. Infatti, prima di Pier Damiani, nessun scrittore cristiano aveva condannato apertamente l'omosessualità e, soprattutto, nessuno aveva mai denunciato il dilagare di questa pratica fra gli ecclesiastici. Quindi, per questa sua duplice novità, il LG costituisce un unicum nella letteratura cristiana medievale.
Prima dell'edizione del 1983 curata da Kurt Reindel,[1] il LG era conosciuto solamente nell'edizione settecentesca di Costantino Gaetani pubblicata nella Patrologia Latina[2] e l'unica traduzione in lingua moderna era quella inglese di Pierre Payer. Questa scarsità di studi sul LG, che ormai reclama a noi moderni la giusta attenzione negatagli dai suoi contemporanei, ci ha invogliati a intraprendere la nostra ricerca.
Per una migliore comprensione del testo, abbiamo dedicato i primi tre capitoli ad un'introduzione generale sul problema dell'omosessualità nell'esegesi dei testi biblici, nel primo Medioevo e nella letteratura penitenziale, allo scopo di tratteggiare l'ambientazione storica e dottrinale in cui si inserisce il LG.
Il nucleo centrale del lavoro consiste nella traduzione (l'unica disponibile al momento [settembre 1996] in lingua italiana) e nel commento del LG, nonché nella formulazione di alcune ipotesi sui motivi che indussero Damiani a scrivere queste accuse e che, parimenti, spinsero i pontefici riformatori a sopprimere il libro.
Lo scopo del nostro lavoro è di dare una visione d'insieme delle problematiche suscitate dal LG. Per questo motivo ci siamo soffermati sugli ipotetici insuccessi del libro e sul commento al testo, consapevoli, comunque, di tralasciare altri aspetti altrettanto importanti e di non esaurire tutti gli argomenti offerti da un'opera così ricca di spunti di lavoro.
Prima dell'edizione del 1983 curata da Kurt Reindel,[1] il LG era conosciuto solamente nell'edizione settecentesca di Costantino Gaetani pubblicata nella Patrologia Latina[2] e l'unica traduzione in lingua moderna era quella inglese di Pierre Payer. Questa scarsità di studi sul LG, che ormai reclama a noi moderni la giusta attenzione negatagli dai suoi contemporanei, ci ha invogliati a intraprendere la nostra ricerca.
Per una migliore comprensione del testo, abbiamo dedicato i primi tre capitoli ad un'introduzione generale sul problema dell'omosessualità nell'esegesi dei testi biblici, nel primo Medioevo e nella letteratura penitenziale, allo scopo di tratteggiare l'ambientazione storica e dottrinale in cui si inserisce il LG.
Il nucleo centrale del lavoro consiste nella traduzione (l'unica disponibile al momento [settembre 1996] in lingua italiana) e nel commento del LG, nonché nella formulazione di alcune ipotesi sui motivi che indussero Damiani a scrivere queste accuse e che, parimenti, spinsero i pontefici riformatori a sopprimere il libro.
Lo scopo del nostro lavoro è di dare una visione d'insieme delle problematiche suscitate dal LG. Per questo motivo ci siamo soffermati sugli ipotetici insuccessi del libro e sul commento al testo, consapevoli, comunque, di tralasciare altri aspetti altrettanto importanti e di non esaurire tutti gli argomenti offerti da un'opera così ricca di spunti di lavoro.
[1] K. Reindel, Die Briefe des Petrus Damiani, I-IV, München 1983-1993 (MGH, Epistolae, II: Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, I-IV). Il LG è edito nel I volume pp. 284-330 (epistola 31).
[2] Petrus Damiani, Opusculum septimum. Liber Gomorrhianus ad Leonem IX Romanum Ponteficem, a cura di Costantino Gaetani, PL 145, 161-190.
[2] Petrus Damiani, Opusculum septimum. Liber Gomorrhianus ad Leonem IX Romanum Ponteficem, a cura di Costantino Gaetani, PL 145, 161-190.
1. Le Sacre Scritture e l'omosessualità
1.1 L'Antico Testamento
John Boswell[1] sostiene che «l'influenza del Cristianesimo sull'atteggiamento verso l'omosessualità fu probabilmente meno importante di quanto comunemente si pensi e certamente fu più complessa e varia di quanto sia stato finora riconosciuto»[2].A questo riguardo, l'esegesi della tradizione scritturale, cioè degli scritti tramandati o direttamente compilati dalla prima generazione di dirigenti cristiani, riveste un ruolo molto importante. Fino a pochi anni fa, alcuni passi del Vecchio Testamento venivano interpretati come delle dure condanne del comportamento omosessuale. Di questi, il più conosciuto, e certamente il più influente, era quello della narrazione di Sodoma e Gomorra in Genesi 19. Come sappiamo, infatti, Sodoma diede il suo nome alle relazioni omosessuali nella lingua latina, e per tutto il Medioevo il termine più vicino a omosessuale, in latino come nelle lingue volgari da esso derivate, era sodomita.
Basandosi esclusivamente sul testo biblico, Boswell ipotizza quattro possibili interpretazioni della distruzione di Sodoma: 1. i Sodomiti furono puniti a causa della perversione dilagante che aveva spinto il Signore a mandare nella città gli angeli per indagare; 2. la città fu distrutta perché il popolo di Sodoma aveva cercato di far violenza agli angeli; 3. la città fu distrutta perché gli uomini di Sodoma avevano cercato di avere rapporti sessuali con gli angeli (questa ipotesi è diversa da quella del punto 2: la violenza e il rapporto omosessuale sono infrazioni punibili separatamente nella legge giudaica); 4. la città fu distrutta per il trattamento inospitale nei confronti dei visitatori mandati dal Signore.[3]
Dal 1955, gli studiosi moderni, soprattutto Bailey,[4]hanno sempre più favorito l'interpretazione del punto 4, insistendo sul fatto che i riferimenti sessuali nella storia sono secondari, se presenti, e che l'originale significato del passo riguardava l'ospitalità[5]. La tesi sostenuta da questo gruppo di studiosi è che Lot aveva violato le abitudini di Sodoma (di cui non era cittadino ma straniero residente) ricevendo ospiti sconosciuti all'interno delle mura cittadine, di notte, senza ottenere il permesso degli anziani della città. Quando gli uomini di Sodoma si riunirono per esigere che gli stranieri fossero condotti a loro, affinché potessero conoscerli, essi non intendevano conoscerli sessualmente, ma sapere semplicemente chi fossero. Di conseguenza, la città fu distrutta non per immoralità sessuale, ma per il peccato di inospitalità verso gli stranieri.
Numerose considerazioni forniscono credibilità a questa argomentazione. Come fa notare Bailey[6] il verbo ebraico yâdha, conoscere è usato molto raramente in accezione sessuale nella Bibbia: nell'Antico Testamento in soli 10 passi su 943 ha il significato di conoscenza carnale. Il passo su Sodoma è l'unico dell'Antico Testamento che generalmente si ritiene riferito a relazioni omosessuali, benché il vocabolo usato nel Vecchio Testamento per il coito omosessuale e per il coito con animali sia shâkhabh.
Boswell cita numerosi altri riferimenti a Sodoma e al suo destino contenuti nell'Antico Testamento. Questa città era diventata un simbolo del male in dozzine di passi, ma in nessun punto questi peccati vengono esplicitamente identificati con il comportamento omosessuale[7]. Isaia sottolinea la mancanza di giustizia, Geremia ricorda la lassitudine morale ed etica. I libri deuteronomici identificano normalmente il peccato come superbia e inospitalità (ad es. Sapienza 19,13-14). L'Ecclesiaste 16,8 dice che Dio odiava i Sodomiti per il loro orgoglio e Ezechiele 16,48-49 ne elenca i peccati:
Basandosi esclusivamente sul testo biblico, Boswell ipotizza quattro possibili interpretazioni della distruzione di Sodoma: 1. i Sodomiti furono puniti a causa della perversione dilagante che aveva spinto il Signore a mandare nella città gli angeli per indagare; 2. la città fu distrutta perché il popolo di Sodoma aveva cercato di far violenza agli angeli; 3. la città fu distrutta perché gli uomini di Sodoma avevano cercato di avere rapporti sessuali con gli angeli (questa ipotesi è diversa da quella del punto 2: la violenza e il rapporto omosessuale sono infrazioni punibili separatamente nella legge giudaica); 4. la città fu distrutta per il trattamento inospitale nei confronti dei visitatori mandati dal Signore.[3]
Dal 1955, gli studiosi moderni, soprattutto Bailey,[4]hanno sempre più favorito l'interpretazione del punto 4, insistendo sul fatto che i riferimenti sessuali nella storia sono secondari, se presenti, e che l'originale significato del passo riguardava l'ospitalità[5]. La tesi sostenuta da questo gruppo di studiosi è che Lot aveva violato le abitudini di Sodoma (di cui non era cittadino ma straniero residente) ricevendo ospiti sconosciuti all'interno delle mura cittadine, di notte, senza ottenere il permesso degli anziani della città. Quando gli uomini di Sodoma si riunirono per esigere che gli stranieri fossero condotti a loro, affinché potessero conoscerli, essi non intendevano conoscerli sessualmente, ma sapere semplicemente chi fossero. Di conseguenza, la città fu distrutta non per immoralità sessuale, ma per il peccato di inospitalità verso gli stranieri.
Numerose considerazioni forniscono credibilità a questa argomentazione. Come fa notare Bailey[6] il verbo ebraico yâdha, conoscere è usato molto raramente in accezione sessuale nella Bibbia: nell'Antico Testamento in soli 10 passi su 943 ha il significato di conoscenza carnale. Il passo su Sodoma è l'unico dell'Antico Testamento che generalmente si ritiene riferito a relazioni omosessuali, benché il vocabolo usato nel Vecchio Testamento per il coito omosessuale e per il coito con animali sia shâkhabh.
Boswell cita numerosi altri riferimenti a Sodoma e al suo destino contenuti nell'Antico Testamento. Questa città era diventata un simbolo del male in dozzine di passi, ma in nessun punto questi peccati vengono esplicitamente identificati con il comportamento omosessuale[7]. Isaia sottolinea la mancanza di giustizia, Geremia ricorda la lassitudine morale ed etica. I libri deuteronomici identificano normalmente il peccato come superbia e inospitalità (ad es. Sapienza 19,13-14). L'Ecclesiaste 16,8 dice che Dio odiava i Sodomiti per il loro orgoglio e Ezechiele 16,48-49 ne elenca i peccati:
Ecco questa fu l'iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlie avevano superbia, ingordigia, ozio dolente, ma non stesero la mano al povero e all'indigente; insuperbirono e commisero ciò che è abominevole dinanzi a me: io le vidi e le eliminai.
Unicamente nel Nuovo Testamento (Pietro 2; Giuda) viene sostenuto che il peccato di Sodoma è connesso in tutti i sensi con le pratiche omosessuali. Ma queste parti più recenti del Nuovo Testamento sembrano indicare il peccato come una trasgressione di ordini tra esseri umani e angelici[8].
Sembrerebbe quindi corretto dire che il peccato di Sodoma ai tempi biblici era interpretato anzitutto come peccato di inospitalità.
C'è un argomento, però, che potrebbe dimostrare qualche desiderio sessuale da parte dei Sodomiti: l'offerta che fa Lot delle sue figlie agli uomini sembra un invito a concedersi soddisfazione eterosessuale piuttosto che omosessuale, in modo da dirigere le bramosie dei Sodomiti per canali meno disordinati. Bailey sostiene che questo episodio può essere ragionevolmente interpretato nel semplice senso che Lot abbia offerto la contropartita più appetitosa anche con lo scopo di calmare sul momento una folla ostile[9]. Boswell aggiunge che questa azione era conforme allo status estremamente inferiore delle figlie femmine di quell'epoca e cita dalla Bible de Jérusalem che «l'onore di una donna aveva allora meno valore del dovere sacro dell'ospitalità»[10]. Inoltre, porta come ulteriore riprova dell'assenza di interesse sessuale il passo parallelo in Giudici 19,22-28, evidentemente influenzato, se non modellato, su Genesi 19. In questa storia, ad un vecchio ger (straniero residente come Lot) viene intimato dagli uomini di Gàbaa di far uscire l'uomo che stava ospitando perché volevano conoscerlo, e anche il vecchio offre sua figlia. Anzi la storia, a differenza di Genesi 19, ha un seguito: lo straniero dà la propria donna alla folla che abusa sessualmente di lei a tal punto che lo straniero la rinviene al mattino morta sulla soglia. Successivamente, egli dichiara che gli uomini di Gàbaa avevano circondato la casa di colui che lo ospitava con l'intento di ucciderlo. Da questa storia Boswell ricava che neanche qui ci sono riferimenti omosessuali e che il diritto dell'ospitalità è molto più importante dell'abuso sessuale.
A questo riguardo, invece, McNeill assume un'altra posizione: siccome il vocabolo ebraico yâdha torna nuovamente ad essere usato da Lot quando egli offre le sue figlie ai Sodomiti, risulta «chiaro e senza alcuna possibilità di dubbio che l'offerta implica la conoscenza carnale»[11]. Infatti, anche se fosse solamente una proposta di scambio, l'intento sessuale rimarrebbe comunque chiaro. Anche i LXX nella loro versione della Bibbia, riferendosi agli angeli, usano un'espressione greca che significa semplicemente fare la conoscenza di, diventare conoscenti di: suggenwmeJa autoiV; mentre per le figlie di Lot usano verbi (egnwsan e crhsasJe) che chiaramente si riferiscono a un comportamento sessuale[12]. Resta comunque possibile, continua McNeill, che l'autore biblico intendesse giocare deliberatamente sull'ambiguità del termine, facendone uso nei due diversi significati.
Possiamo quindi concludere che forse Bailey e Boswell hanno un po' esagerato nel sostenere che non vi è alcuna allusione ad abusi sessuali in relazione agli stranieri, ma che le loro argomentazioni riguardo al peccato di inospitalità di Sodoma sono convincenti .
Nell'Antico Testamento l'unico luogo dove vengono nominati atti omosessuali in sé è il Levitico:
Sembrerebbe quindi corretto dire che il peccato di Sodoma ai tempi biblici era interpretato anzitutto come peccato di inospitalità.
C'è un argomento, però, che potrebbe dimostrare qualche desiderio sessuale da parte dei Sodomiti: l'offerta che fa Lot delle sue figlie agli uomini sembra un invito a concedersi soddisfazione eterosessuale piuttosto che omosessuale, in modo da dirigere le bramosie dei Sodomiti per canali meno disordinati. Bailey sostiene che questo episodio può essere ragionevolmente interpretato nel semplice senso che Lot abbia offerto la contropartita più appetitosa anche con lo scopo di calmare sul momento una folla ostile[9]. Boswell aggiunge che questa azione era conforme allo status estremamente inferiore delle figlie femmine di quell'epoca e cita dalla Bible de Jérusalem che «l'onore di una donna aveva allora meno valore del dovere sacro dell'ospitalità»[10]. Inoltre, porta come ulteriore riprova dell'assenza di interesse sessuale il passo parallelo in Giudici 19,22-28, evidentemente influenzato, se non modellato, su Genesi 19. In questa storia, ad un vecchio ger (straniero residente come Lot) viene intimato dagli uomini di Gàbaa di far uscire l'uomo che stava ospitando perché volevano conoscerlo, e anche il vecchio offre sua figlia. Anzi la storia, a differenza di Genesi 19, ha un seguito: lo straniero dà la propria donna alla folla che abusa sessualmente di lei a tal punto che lo straniero la rinviene al mattino morta sulla soglia. Successivamente, egli dichiara che gli uomini di Gàbaa avevano circondato la casa di colui che lo ospitava con l'intento di ucciderlo. Da questa storia Boswell ricava che neanche qui ci sono riferimenti omosessuali e che il diritto dell'ospitalità è molto più importante dell'abuso sessuale.
A questo riguardo, invece, McNeill assume un'altra posizione: siccome il vocabolo ebraico yâdha torna nuovamente ad essere usato da Lot quando egli offre le sue figlie ai Sodomiti, risulta «chiaro e senza alcuna possibilità di dubbio che l'offerta implica la conoscenza carnale»[11]. Infatti, anche se fosse solamente una proposta di scambio, l'intento sessuale rimarrebbe comunque chiaro. Anche i LXX nella loro versione della Bibbia, riferendosi agli angeli, usano un'espressione greca che significa semplicemente fare la conoscenza di, diventare conoscenti di: suggenwmeJa autoiV; mentre per le figlie di Lot usano verbi (egnwsan e crhsasJe) che chiaramente si riferiscono a un comportamento sessuale[12]. Resta comunque possibile, continua McNeill, che l'autore biblico intendesse giocare deliberatamente sull'ambiguità del termine, facendone uso nei due diversi significati.
Possiamo quindi concludere che forse Bailey e Boswell hanno un po' esagerato nel sostenere che non vi è alcuna allusione ad abusi sessuali in relazione agli stranieri, ma che le loro argomentazioni riguardo al peccato di inospitalità di Sodoma sono convincenti .
Nell'Antico Testamento l'unico luogo dove vengono nominati atti omosessuali in sé è il Levitico:
18,22: «Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio».
20,13: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di essi».
Boswell, commentando questi due versetti, dice che il termine ebraico toevah, qui tradotto con abominio, di solito non significa qualcosa di cattivo in sé, come la violenza o il furto (trattati altrove nel Levitico), ma qualcosa che, secondo il rito, è impuro, come mangiare maiale o avere rapporti sessuali durante il periodo mestruale[13]. In tutto l'Antico Testamento il termine è usato per indicare quei peccati degli ebrei che implicano contaminazioni etniche o idolatria e molto spesso compare come parte dell'espressione toevah ha-goyim, l'impurità dei gentili (2Re 16,3). Per esempio, nella condanna della prostituzione sacra[14] che implica l'idolatria viene usato toevah (1Re 14,24), mentre nella proibizione della prostituzione in generale appare un termine diverso, zimah (Lv 19,29). Spesso toevah significa specificamente idolo[15] e la sua connessione con l'idolatria, secondo Boswell, è evidente anche nel contesto dei passi che abbiamo citato riguardanti atti omosessuali. Infatti, nel Levitico il capitolo 18 sembra avere lo scopo di fare una distinzione fra gli ebrei e i pagani come si può leggere nelle osservazioni iniziali: «Non farete come si fa nel paese d'Egitto dove avete abitato, né farete come si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi» (versetto 3). Inoltre Boswell fa notare che la proibizione di atti omosessuali (18,22) segue immediatamente la proibizione di una pratica pagana di sessualità idolatra: «Non lascerai sacrificare alcuno dei tuoi figli a Moloch e non profanerai il nome del tuo Dio ...» (18,21)[16]. Con questo Boswell vuole dimostrare che, siccome il Levitico proibisce agli ebrei di seguire i costumi dei pagani perché idolatrici, il versetto 22 non sarebbe altro che la proibizione di un comportamento, quello omosessuale, tipico dei pagani e ritualmente impuro. Dunque, essendo un atteggiamento che viola la purezza rituale e il culto monoteistico, non è ritenuto in se stesso un male.
Boswell ritiene che anche il capitolo 20 del Levitico, come il 18, abbia lo scopo manifesto di fondare un sistema di purezza rituale per mezzo del quale gli ebrei si sarebbero distinti dai popoli vicini[17]. Egli dice che, «anche se entrambi i capitoli contengono proibizioni (ad es. contro l'incesto e l'adulterio) che potrebbero discendere da assoluti morali, la loro funzione, nel contesto di Levitico 18 e 20, sembra essere quella di simboli della specificità giudaica»[18].
Anche Bailey ipotizza che le prescrizioni contenute nel Levitico fossero volte più a prevenire eventuali contaminazioni degli Ebrei con i costumi dei pagani piuttosto che ad estirpare i vizi già presenti. Questa idea, però, presuppone che le nazioni con cui gli Ebrei erano a contatto si concedessero alle pratiche omosessuali a tal punto che la loro influenza potesse diventare pericolosa[19]. Bailey indaga sulle testimonianze riguardanti i popoli in questione e giunge alla conclusione che l'omosessualità, di solito, non era molto diffusa fra gli Ebrei, come del resto non lo era fra i Canaaniti e gli Egiziani[20]. Questo, tuttavia, continua Bailey, non attenua i toni che il testo biblico usa nella condanna delle pratiche omosessuali.
Boswell ritiene che anche il capitolo 20 del Levitico, come il 18, abbia lo scopo manifesto di fondare un sistema di purezza rituale per mezzo del quale gli ebrei si sarebbero distinti dai popoli vicini[17]. Egli dice che, «anche se entrambi i capitoli contengono proibizioni (ad es. contro l'incesto e l'adulterio) che potrebbero discendere da assoluti morali, la loro funzione, nel contesto di Levitico 18 e 20, sembra essere quella di simboli della specificità giudaica»[18].
Anche Bailey ipotizza che le prescrizioni contenute nel Levitico fossero volte più a prevenire eventuali contaminazioni degli Ebrei con i costumi dei pagani piuttosto che ad estirpare i vizi già presenti. Questa idea, però, presuppone che le nazioni con cui gli Ebrei erano a contatto si concedessero alle pratiche omosessuali a tal punto che la loro influenza potesse diventare pericolosa[19]. Bailey indaga sulle testimonianze riguardanti i popoli in questione e giunge alla conclusione che l'omosessualità, di solito, non era molto diffusa fra gli Ebrei, come del resto non lo era fra i Canaaniti e gli Egiziani[20]. Questo, tuttavia, continua Bailey, non attenua i toni che il testo biblico usa nella condanna delle pratiche omosessuali.
1.2 Il Nuovo Testamento
Ci sono tre passi negli scritti di S. Paolo che è pensato possano riguardare le relazioni omosessuali:
Rm 1,26-27: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami: le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni verso gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento».
1 Cor 6,9-10: «[...] Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati (malakoi Vulg. molles), né sodomiti (arsenokoitai Vulg. masculorum concubinatores), né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio».
1 Tm 1,9-10: «[...] sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli [...] per i pervertiti (arsenokoitai Vulg. masculorum concubinatores) [...] e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina».
1 Cor 6,9-10: «[...] Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati (malakoi Vulg. molles), né sodomiti (arsenokoitai Vulg. masculorum concubinatores), né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio».
1 Tm 1,9-10: «[...] sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli [...] per i pervertiti (arsenokoitai Vulg. masculorum concubinatores) [...] e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina».
Da Rm 1,26-27 deriva la maggiore argomentazione del Nuovo Testamento contro l'omosessualità in quanto intrensecamente immorale.
Herman van de Spijker[21] ha osservato che il significato del passo sta nella sua connessione con l'idolatria; cioè, S. Paolo censura il comportamento sessuale dei Romani perché lo associa con i riti orgiastici pagani in onore di false divinità. Secondo Boswell, questa teoria si dimostra inadeguata perché è chiaro che per S. Paolo il comportamento sessuale è biasimevole in se stesso e non solamente per le sue associazioni[22]. Inoltre, S. Paolo non descrive atti freddamente premeditati e privi di passionalità compiuti secondo il rito o la cerimonia: dice molto chiaramente che quanti erano coinvolti «si sono accesi di passione gli uni per gli altri». Osserva, dunque, Boswell che «È irragionevole concludere da questo passo che vi fosse qualche motivo diverso dal desiderio sessuale»[23].
McNeill e Boswell concordano nel ritenere che le persone che S. Paolo condanna non sono omosessuali: ciò che egli scredita sono gli atti omosessuali commessi da persone senza dubbio eterosessuali. Il punto centrale di Rm 1, infatti, consiste nello stigmatizzare persone che hanno rifiutato la chiamata e si sono allontanate dalla retta via che una volta seguivano. La causa del peccato presso i Romani era non che essi mancassero delle inclinazioni proprie, ma che le avessero: possedevano la verità, ma «nell'ingiustizia» (v. 18), perché «non furono capaci di tenere Dio nella loro mente» (v. 28).
Tuttavia, entrambi questi studiosi ritengono che nel passo in questione non ci sia una chiara condanna degli atti omosessuali. L'espressione contro natura è l'espressione equivalente della frase greca di S. Paolo para jusin, che fu usata per la prima volta in questo contesto da Platone. Dall'esame che McNeill ha condotto sull'uso della parola jusiV negli scritti di S. Paolo, si può comprendere con quale significato egli la utilizzasse[24]. Benché sia molto probabile che S. Paolo prendesse la frase dalla popolare filosofia stoica allora corrente, egli non specifica successivamente una natura o una essenza intrinseche in senso filosofico. Per lui natura non era un problema di legge universale o di verità, ma piuttosto la questione del carattere di alcune persone o gruppi di persone, un carattere che Boswell dice «largamente etnico e completamente umano: gli ebrei sono ebrei per natura (Ga 2,15), proprio come i gentili sono incirconcisi per natura» (Rm 2,27)[25]. Natura non è una forza morale per S. Paolo: gli uomini possono essere buoni o cattivi per natura in conseguenza della propria indole. Negli scritti di S. Paolo non c'è natura in astratto, ma è sempre natura di qualcuno, dei giudei, dei gentili o degli dei pagani. Quindi, natura in Rm 1,26-27 si dovrebbe intendere come la natura personale dei pagani in questione.
Inoltre, contro è una traduzione un po' sviante della preposizione para. Nel Nuovo Testamento significa non in opposizione a (espresso da kata), ma, piuttosto, più che, oltre a o anche al posto di.
In conclusione, contro natura indica piuttosto un comportamento imprevisto, insolito o differente da ciò che ci si aspetterebbe secondo il normale ordine delle cose: al di là della natura forse, ma non immorale, non c'è nessuna violazione sottintesa della legge naturale[26].
Quindi, S. Paolo credeva che i gentili conoscessero la verità di Dio, ma la rifiutassero come avevano rifiutato la loro stessa natura nei confronti dei loro desideri sessuali, andando al di là di ciò che era naturale per loro e di ciò che era approvato dai giudei[27].
Gli altri due passi di S. Paolo che abbiamo preso in esame risentono di cattive traduzioni. Due termini greci (malakoi e arsenokoitai) in 1 Cor 6,9-10 e uno (arsenokoitai) in 1 Tm1,9-10 sono stati usati, almeno dall'inizio del Novecento, per indicare che gli omosessuali saranno esclusi dal regno dei cieli[28]. Il primo dei due, (malakoV) morbido, è una parola greca estremamente comune; si trova in altri passi del Nuovo Testamento con il significato di malato (Mt 4,23; 11,8) e negli scritti patristici con significati diversi come liquido, codardo, raffinato, di debole volontà, delicato, nobile e depravato. In un contesto morale specifico significa molto spesso licenzioso, dissoluto o privo di autocontrollo[29]. A livello più ampio, viene spesso tradotto con incontinente o dissoluto, ma Boswell è del parere che l'attribuzione di entrambi questi significati necessariamente ai «gay» sia completamente gratuita[30]
Il punto fondamentale è che l'unanime tradizione della Chiesa dopo la Riforma, e del Cattolicesimo fino a tutto il XX secolo, ha applicato questo termine a colui che è dedito alla masturbazione. Questa era l'interpretazione di molti teologi che contribuirono a stigmatizzare l'omosessualità: almeno dal tempo di San Tommaso in poi, tutti i teologi morali definirono la masturbazione con il corrispondente latino di malacia, cioè con mollitia o mollities[31]. Da ciò deriva l'attribuzione del concetto di effeminatezza agli omosessuali.
Il secondo termine, arsenokoitai, è rarissimo; S. Paolo sembra essere stato il primo autore ad usarlo, e fu veramente poco frequente dopo di lui. I traduttori biblici spesso hanno reso questa parola con sodomita e gli autori della maggior parte dei lessici hanno ripreso questa traduzione. L'applicazione specifica del termine all'omosessualità è più comprensibile; tuttavia le maggiori testimonianze sostengono con prove sicure che per S. Paolo o per i suoi contemporanei non significava omosessuale, ma prostituta-maschio almeno a tutto il IV secolo, dopo di che si confuse con una varietà di termini che disapprovano le attività sessuali e spesso venne equiparato all'omosessualità[32].
In conclusione, il Nuovo Testamento non sostiene posizioni dimostrabili sull'omosessualità. «Affermare che i riferimenti di S. Paolo agli eccessi dell'incontinenza sessuale implicanti comportamento omosessuale indichino una posizione generale contraria all'erotismo omosessuale è tanto infondato quanto il ritenere che la sua condanna dell'ubriachezza implichi il divieto di bere vino. Al massimo, l'effetto delle Scritture cristiane sull'atteggiamento verso l'omosessualità potrebbe essere definito dubbio»[33].
Herman van de Spijker[21] ha osservato che il significato del passo sta nella sua connessione con l'idolatria; cioè, S. Paolo censura il comportamento sessuale dei Romani perché lo associa con i riti orgiastici pagani in onore di false divinità. Secondo Boswell, questa teoria si dimostra inadeguata perché è chiaro che per S. Paolo il comportamento sessuale è biasimevole in se stesso e non solamente per le sue associazioni[22]. Inoltre, S. Paolo non descrive atti freddamente premeditati e privi di passionalità compiuti secondo il rito o la cerimonia: dice molto chiaramente che quanti erano coinvolti «si sono accesi di passione gli uni per gli altri». Osserva, dunque, Boswell che «È irragionevole concludere da questo passo che vi fosse qualche motivo diverso dal desiderio sessuale»[23].
McNeill e Boswell concordano nel ritenere che le persone che S. Paolo condanna non sono omosessuali: ciò che egli scredita sono gli atti omosessuali commessi da persone senza dubbio eterosessuali. Il punto centrale di Rm 1, infatti, consiste nello stigmatizzare persone che hanno rifiutato la chiamata e si sono allontanate dalla retta via che una volta seguivano. La causa del peccato presso i Romani era non che essi mancassero delle inclinazioni proprie, ma che le avessero: possedevano la verità, ma «nell'ingiustizia» (v. 18), perché «non furono capaci di tenere Dio nella loro mente» (v. 28).
Tuttavia, entrambi questi studiosi ritengono che nel passo in questione non ci sia una chiara condanna degli atti omosessuali. L'espressione contro natura è l'espressione equivalente della frase greca di S. Paolo para jusin, che fu usata per la prima volta in questo contesto da Platone. Dall'esame che McNeill ha condotto sull'uso della parola jusiV negli scritti di S. Paolo, si può comprendere con quale significato egli la utilizzasse[24]. Benché sia molto probabile che S. Paolo prendesse la frase dalla popolare filosofia stoica allora corrente, egli non specifica successivamente una natura o una essenza intrinseche in senso filosofico. Per lui natura non era un problema di legge universale o di verità, ma piuttosto la questione del carattere di alcune persone o gruppi di persone, un carattere che Boswell dice «largamente etnico e completamente umano: gli ebrei sono ebrei per natura (Ga 2,15), proprio come i gentili sono incirconcisi per natura» (Rm 2,27)[25]. Natura non è una forza morale per S. Paolo: gli uomini possono essere buoni o cattivi per natura in conseguenza della propria indole. Negli scritti di S. Paolo non c'è natura in astratto, ma è sempre natura di qualcuno, dei giudei, dei gentili o degli dei pagani. Quindi, natura in Rm 1,26-27 si dovrebbe intendere come la natura personale dei pagani in questione.
Inoltre, contro è una traduzione un po' sviante della preposizione para. Nel Nuovo Testamento significa non in opposizione a (espresso da kata), ma, piuttosto, più che, oltre a o anche al posto di.
In conclusione, contro natura indica piuttosto un comportamento imprevisto, insolito o differente da ciò che ci si aspetterebbe secondo il normale ordine delle cose: al di là della natura forse, ma non immorale, non c'è nessuna violazione sottintesa della legge naturale[26].
Quindi, S. Paolo credeva che i gentili conoscessero la verità di Dio, ma la rifiutassero come avevano rifiutato la loro stessa natura nei confronti dei loro desideri sessuali, andando al di là di ciò che era naturale per loro e di ciò che era approvato dai giudei[27].
Gli altri due passi di S. Paolo che abbiamo preso in esame risentono di cattive traduzioni. Due termini greci (malakoi e arsenokoitai) in 1 Cor 6,9-10 e uno (arsenokoitai) in 1 Tm1,9-10 sono stati usati, almeno dall'inizio del Novecento, per indicare che gli omosessuali saranno esclusi dal regno dei cieli[28]. Il primo dei due, (malakoV) morbido, è una parola greca estremamente comune; si trova in altri passi del Nuovo Testamento con il significato di malato (Mt 4,23; 11,8) e negli scritti patristici con significati diversi come liquido, codardo, raffinato, di debole volontà, delicato, nobile e depravato. In un contesto morale specifico significa molto spesso licenzioso, dissoluto o privo di autocontrollo[29]. A livello più ampio, viene spesso tradotto con incontinente o dissoluto, ma Boswell è del parere che l'attribuzione di entrambi questi significati necessariamente ai «gay» sia completamente gratuita[30]
Il punto fondamentale è che l'unanime tradizione della Chiesa dopo la Riforma, e del Cattolicesimo fino a tutto il XX secolo, ha applicato questo termine a colui che è dedito alla masturbazione. Questa era l'interpretazione di molti teologi che contribuirono a stigmatizzare l'omosessualità: almeno dal tempo di San Tommaso in poi, tutti i teologi morali definirono la masturbazione con il corrispondente latino di malacia, cioè con mollitia o mollities[31]. Da ciò deriva l'attribuzione del concetto di effeminatezza agli omosessuali.
Il secondo termine, arsenokoitai, è rarissimo; S. Paolo sembra essere stato il primo autore ad usarlo, e fu veramente poco frequente dopo di lui. I traduttori biblici spesso hanno reso questa parola con sodomita e gli autori della maggior parte dei lessici hanno ripreso questa traduzione. L'applicazione specifica del termine all'omosessualità è più comprensibile; tuttavia le maggiori testimonianze sostengono con prove sicure che per S. Paolo o per i suoi contemporanei non significava omosessuale, ma prostituta-maschio almeno a tutto il IV secolo, dopo di che si confuse con una varietà di termini che disapprovano le attività sessuali e spesso venne equiparato all'omosessualità[32].
In conclusione, il Nuovo Testamento non sostiene posizioni dimostrabili sull'omosessualità. «Affermare che i riferimenti di S. Paolo agli eccessi dell'incontinenza sessuale implicanti comportamento omosessuale indichino una posizione generale contraria all'erotismo omosessuale è tanto infondato quanto il ritenere che la sua condanna dell'ubriachezza implichi il divieto di bere vino. Al massimo, l'effetto delle Scritture cristiane sull'atteggiamento verso l'omosessualità potrebbe essere definito dubbio»[33].
1.3 La tradizione teologica
Il pensiero degli asceti cristiani ebbe una notevole influenza sull'atteggiamento della Chiesa primitiva verso l'omosessualità. Infatti, furono proprio le loro idee a fornire di volta in volta la giustificazione ufficiale all'oppressione dei gay in molti stati cristiani.
Il primo e più influente di tutti gli argomenti usati dai teologi cristiani che s'opponevano al comportamento omosessuale fu quello derivato dal comportamento animale. L'epistola di Barnaba, probabilmente composta nel I secolo d. C., è ora considerata apocrifa, ma era accettata come Sacra Scrittura dai primi cristiani. L'autore dell'opera mette in parallelo la proibizione mosaica di mangiare determinati animali con diversi peccati di natura sessuale:
Il primo e più influente di tutti gli argomenti usati dai teologi cristiani che s'opponevano al comportamento omosessuale fu quello derivato dal comportamento animale. L'epistola di Barnaba, probabilmente composta nel I secolo d. C., è ora considerata apocrifa, ma era accettata come Sacra Scrittura dai primi cristiani. L'autore dell'opera mette in parallelo la proibizione mosaica di mangiare determinati animali con diversi peccati di natura sessuale:
[Mosè disse] non mangerai la lepre [cfr. Lv 11,5]. Perché? Per non diventare, egli disse, un molestatore di ragazzi, e per non essere trasformato in questa. Infatti alla lepre cresce ogni anno una nuova apertura anale, cosicché quanti anni essa ha vissuto, tanti buchi anali possiede.
Neppure mangerai la iena, egli disse, per non diventare un adultero o un seduttore, né per diventare come loro. Perché? Perché questo animale cambia il sesso ogni anno e un anno è maschio e l'altro è femmina.
Ed egli giustamente disprezzava anche la donnola [cfr. Lv 11,29]. Non diventerai, egli disse, come questa che noi sentiamo commettere atti impuri con la bocca, né ti congiungerai con quelle donne che hanno commesso atti illeciti con la bocca impura. Infatti, quest'animale concepisce attraverso la bocca.
Nonostante contenga molte incomprensioni e interpretazioni errate della tradizione zoologica precedente[34], questo testo ebbe un'influenza decisiva su molti cristiani che ne ampliarono i pregiudizi. Queste argomentazioni animali di Barnaba furono adottate da Clemente di Alessandria come fondamento delle proprie contro l'omosessualità nel Paedagogus, nonostante egli fosse uno dei primi teologi cristiani ad invocare la regola alessandrina (i rapporti sessuali per essere moralmente giusti devono essere indirizzati alla procreazione).
La diffusione di tale tradizione fu poi assicurata dall'inserimento di queste considerazioni sulla sessualità animale nell'opera di scienze naturali più popolare del Medioevo: il Physiologus. Esso conteneva, tra l'altro, descrizioni di animali in cui la morale cristiana scaturiva dai vari aspetti del comportamento animale. Apparve per la prima volta in greco poco dopo l'epistola di Barnaba e presto fu tradotto in latino, mentre si diffondevano decine di versioni diverse. Successivamente venne tradotto in quasi tutte le lingue volgari e la sua influenza fu incalcolabile soprattutto nell'Alto Medioevo. Anche il nostro Pier Damiani ha scritto un bestiario, contenuto nell'opuscolo LII, in cui descrive, tra gli altri, il comportamento della donnola e della iena[35].
La diffusione di tale tradizione fu poi assicurata dall'inserimento di queste considerazioni sulla sessualità animale nell'opera di scienze naturali più popolare del Medioevo: il Physiologus. Esso conteneva, tra l'altro, descrizioni di animali in cui la morale cristiana scaturiva dai vari aspetti del comportamento animale. Apparve per la prima volta in greco poco dopo l'epistola di Barnaba e presto fu tradotto in latino, mentre si diffondevano decine di versioni diverse. Successivamente venne tradotto in quasi tutte le lingue volgari e la sua influenza fu incalcolabile soprattutto nell'Alto Medioevo. Anche il nostro Pier Damiani ha scritto un bestiario, contenuto nell'opuscolo LII, in cui descrive, tra gli altri, il comportamento della donnola e della iena[35].
«Certamente la donnola, come affermano gli studiosi della natura, concepisce, è vero, con la bocca, ma partorisce con l'orecchio».
« [...] da uomo quale era stato, si trasforma per così dire in una donnicciuola. E giustamente lo si paragona alla iena che talora da maschio si cambia in femmina, talora da femmina in maschio, e perciò se ne parla come di un animale immondo, e a motivo di ciò non è ammessa come cibo per l'uomo [...]»[36].
È interessante notare che Damiani non parla di questi due animali con lo scopo di redarguire un comportamento sessuale pervertito, ma, nel primo caso, per parlare del digiuno e, nel secondo, per definire chiunque sia diventato guasto o fetido. Infatti, riferendosi a certi fratelli che non sono molto pronti a digiunare ma che ubbidiscono con umiltà, dice: «[...] il concepimento per mezzo della bocca va inteso nel senso di cibi, [...] il parto per mezzo dell'orecchio sta invece ad indicare l'obbedienza»[37]. Il passo della iena, invece, è riferito a coloro che vengono vomitati dal corpo di Cristo perché diventati tiepidi, cioè morti alla fede e alle buone azioni, e che così, per la perdita del calore, si trasformano da uomo a donna.
È certamente significativo che Damiani dimostri di conoscere queste leggende sulla sessualità animale ma che non le usi, né qui né nel LG, per condannare l'omosessualità.
Oltre che da questi accenni alla sessualità animale, l'opinione degli scrittori cristiani riguardo all'omosessualità fu influenzata anche dalla sua associazione con le molestie sui bambini, cioè dalla confusione fra omosessualità e pederastia[38]. Già la Didaché e l'epistola di Barnaba contengono l'ingiunzione: «Non corromperai i ragazzi», mentre Giovanni Crisostomo, in uno dei suoi sermoni, inveisce contro i pederasti che vengono in Chiesa per osservare con sguardo libidinoso i ragazzi[39]. Anche l'associazione con il paganesimo o con la sessualità edonistica può aver destato sospetti contro il comportamento omosessuale[40].
Secondo McNeill, un altro fattore che svolse un ruolo importante nella tradizione cristiana occidentale fu l'influenza dello stoicismo e, in particolare, la sua interpretazione della legge di natura per quanto riguarda l'etica sessuale[41].
L'assioma fondamentale degli stoici era di vivere secondo natura, cioè sottomessi all'ordine del mondo predisposto da Dio, il quale era inteso come ragione e logos diffusi attraverso il cosmo. La ragione, come anima del mondo, aveva una precisa interpretazione biologica e la legge di natura era identificata con le leggi biologiche che formano l'universo fisico. Quindi, siccome il mondo doveva essere governato dalla ragione, quelle cose che non avevano un motivo razionale che le giustificasse erano da ritenersi erronee. Fra queste c'era anche l'omosessualità, poiché l'unico motivo razionale per avere un rapporto sessuale era la procreazione.
Boswell, invece, ritiene assolutamente errato dedurre che tali concezioni di natura fossero determinanti nel formare l'etica sessuale cristiana o che i cristiani sottoscrivessero le premesse filosofiche e teologiche concernenti la moralità naturale che casualmente citavano[42]. La conseguenza principale che avrebbero avuto queste filosofie sul pensiero cristiano sarebbe stata semplicemente quella di eliminare ogni concezione di natura ideale dalla filosofia cristiana, almeno fino al XIII secolo. Frammenti di filosofie naturali entrarono a più riprese nel pensiero cristiano, ma le difficoltà insite nel tentativo di conciliare il concetto di natura con la dottrina del Nuovo Testamento o con le basi filosofiche della moralità naturale precludevano ai cristiani qualunque richiamo generale o sistematico alla natura[43]. Nella prima teologia cristiana quando si parla di natura non si fa riferimento ad un'idea astratta: per S. Agostino come per S. Paolo, natura riguarda sempre le caratteristiche di individui o cose.
Comunque, in S. Agostino, si trovano spesso sia considerazioni morali che presentano strette somiglianze con le argomentazioni stoiche sulla natura, sia locuzioni quali uso naturale o contro natura che, in seguito, fornirono popolarità alla sessualità naturale. Boswell però ritiene, forse con troppa enfasi, che in fondo Agostino non facesse riferimento alla natura in se stessa ma a qualcosa di naturale cioè di caratteristico, innato e normale. Dunque, egli avrebbe definito il comportamento omosessuale contra mores hominum, solo perché non era caratteristico della sessualità umana a lui familiare, mentre avrebbe usato l'espressione contra naturam riferendosi esclusivamente alle nature individuali delle persone coinvolte in tali attività.
Al di là di queste obiezioni, più o meno credibili, ritengo non si possa negare che l'associazione dell'omosessualità con la violazione del concetto di moralità naturale (da cui la sua definizione di contra naturam) abbia rivestito un ruolo determinante nella condanna di tale comportamento.
È certamente significativo che Damiani dimostri di conoscere queste leggende sulla sessualità animale ma che non le usi, né qui né nel LG, per condannare l'omosessualità.
Oltre che da questi accenni alla sessualità animale, l'opinione degli scrittori cristiani riguardo all'omosessualità fu influenzata anche dalla sua associazione con le molestie sui bambini, cioè dalla confusione fra omosessualità e pederastia[38]. Già la Didaché e l'epistola di Barnaba contengono l'ingiunzione: «Non corromperai i ragazzi», mentre Giovanni Crisostomo, in uno dei suoi sermoni, inveisce contro i pederasti che vengono in Chiesa per osservare con sguardo libidinoso i ragazzi[39]. Anche l'associazione con il paganesimo o con la sessualità edonistica può aver destato sospetti contro il comportamento omosessuale[40].
Secondo McNeill, un altro fattore che svolse un ruolo importante nella tradizione cristiana occidentale fu l'influenza dello stoicismo e, in particolare, la sua interpretazione della legge di natura per quanto riguarda l'etica sessuale[41].
L'assioma fondamentale degli stoici era di vivere secondo natura, cioè sottomessi all'ordine del mondo predisposto da Dio, il quale era inteso come ragione e logos diffusi attraverso il cosmo. La ragione, come anima del mondo, aveva una precisa interpretazione biologica e la legge di natura era identificata con le leggi biologiche che formano l'universo fisico. Quindi, siccome il mondo doveva essere governato dalla ragione, quelle cose che non avevano un motivo razionale che le giustificasse erano da ritenersi erronee. Fra queste c'era anche l'omosessualità, poiché l'unico motivo razionale per avere un rapporto sessuale era la procreazione.
Boswell, invece, ritiene assolutamente errato dedurre che tali concezioni di natura fossero determinanti nel formare l'etica sessuale cristiana o che i cristiani sottoscrivessero le premesse filosofiche e teologiche concernenti la moralità naturale che casualmente citavano[42]. La conseguenza principale che avrebbero avuto queste filosofie sul pensiero cristiano sarebbe stata semplicemente quella di eliminare ogni concezione di natura ideale dalla filosofia cristiana, almeno fino al XIII secolo. Frammenti di filosofie naturali entrarono a più riprese nel pensiero cristiano, ma le difficoltà insite nel tentativo di conciliare il concetto di natura con la dottrina del Nuovo Testamento o con le basi filosofiche della moralità naturale precludevano ai cristiani qualunque richiamo generale o sistematico alla natura[43]. Nella prima teologia cristiana quando si parla di natura non si fa riferimento ad un'idea astratta: per S. Agostino come per S. Paolo, natura riguarda sempre le caratteristiche di individui o cose.
Comunque, in S. Agostino, si trovano spesso sia considerazioni morali che presentano strette somiglianze con le argomentazioni stoiche sulla natura, sia locuzioni quali uso naturale o contro natura che, in seguito, fornirono popolarità alla sessualità naturale. Boswell però ritiene, forse con troppa enfasi, che in fondo Agostino non facesse riferimento alla natura in se stessa ma a qualcosa di naturale cioè di caratteristico, innato e normale. Dunque, egli avrebbe definito il comportamento omosessuale contra mores hominum, solo perché non era caratteristico della sessualità umana a lui familiare, mentre avrebbe usato l'espressione contra naturam riferendosi esclusivamente alle nature individuali delle persone coinvolte in tali attività.
Al di là di queste obiezioni, più o meno credibili, ritengo non si possa negare che l'associazione dell'omosessualità con la violazione del concetto di moralità naturale (da cui la sua definizione di contra naturam) abbia rivestito un ruolo determinante nella condanna di tale comportamento.
[1] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, Milano 1989 (ed. orig.: Christianity, Social Tolerance, and Homosexuality. Gay People in Western Europe from the Beginning of the Christian Era to the Fourteenth Century, Chicago 1980)
[2] Ibid., p. 124. Per alcune osservazioni sul lavoro di Boswell, si veda H.J. Kuster e R.J. Cormier, Old Views and New Trends. Observations on the Problem of Homosexuality in the Middle Ages, «Studi Medievali» 25 (1984).
[2] Ibid., p. 124. Per alcune osservazioni sul lavoro di Boswell, si veda H.J. Kuster e R.J. Cormier, Old Views and New Trends. Observations on the Problem of Homosexuality in the Middle Ages, «Studi Medievali» 25 (1984).
[3] Ibid., p. 125.
[4] D.S. Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition, London 1955 (rist. Hamden, CT, 1975), pp. 1-28.
[5] In seguito, anche J.J. McNeill, La Chiesa e l'omosessualità, Milano 1979, pp. 56-83 (ed. orig.: The Church and the Homosexual, Kansas City 1976), ha accettato questa teoria.
[6] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 2-3.
[7] Ad esempio Dt 29,23; 32,32; Is 3,9; 13,19; Ger 23,14; 49,18; 50,40; Lam 4,6; Ez 16,46-48; Am 4,11; Zc 2,9; Mt 10,15; Lc 17,29; Rm 9,29; 2 Pt 2,6; Gd 7.
[8] Per l'interpretazione omosessuale della storia di Sodoma cfr. J.J. McNeill, La Chiesa e ..., p. 85-93.
[9] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 6.
[10] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 127 n. 8.
[11] Cfr. J.J. McNeill, La Chiesa e ..., p. 62.
[12] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 147-148 n. 4. Probabilmente Boswell non usa questa annotazione per ammettere un qualche riferimento sessuale (benché neanche lo neghi esplicitamente) perché, non trattandosi del testo originale, potrebbe essere già frutto di un'interpretazione successiva.
[13] Ibid., p. 131.
[14] Si tratta della consuetudine dei popoli pagani di avere delle prostitute nei templi, per questo motivo chiamate sacre; ad esse ci si riferisce con il termine kadash (plurale kadeshim) che letteralmente significa santo o sacro.
[15] Ad esempio in Is 44,19; Ez 7,20; 16,36; Ger 16,18; cfr. Dt 7,25-26.
[16] Proibizione dei terribili sacrifici infanticidi dedicati al dio pagano Moloch: i bambini venivano fatti passare attraverso il fuoco. Cfr. Lv 20,2-5: tale pratica viene definita un'impurità e una prostituzione.
[17] Cfr. Lv 20,2: «Chiunque tra i figli d'Israele e i residenti in Israele dia un suo figlio a Moloch, sia messo a morte; la gente del paese lo lapidi».
[18] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 132.
[19] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 30.
[20] Ibid., p. 37.
[21] H. van de Spijker, Die gleichgeschlechtliche Zuneigung, Freiburg 1968, pp. 82 ss.
[22] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 139. Le argomentazioni di Boswell riguardo all'interpretazione di 1 Co 6,9-10 e 1 Tm 1,9-10 hanno creato qualche controversia: si veda J. Wright, Homosexuals or Prostitutes: The Meaning of ARSENOKOITAI [1Co 6,9, 1Tm 1,10], «Vigiliae Christianae» 38 (1984), pp. 125-153 e W.L. Peterson, Can ARSENOKOITAI Be Translated by Homosexuals? [1Co 6,9, 1Tm 1,10], ibid. 40 (1986), pp. 187-191. Boswell, comunque, rimane convinto della sua interpretazione e risponde a queste osservazioni in J. Boswell, The Marriage of Likeness. Same-sex Unions in Pre-modern Europe, London 1995, p. 219 n. 4.
[23] Ibid.
[24] Cfr. J.J. McNeill, La Chiesa e ..., p. 69.
[25] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 141.
[26] Filone Giudeo e pochi dei Padri greci avevano qualche idea sull'infrazione delle leggi di natura, la cui violazione era in sé colpevole anche per chi ignorava la legge di Dio. Tra i Padri influenzati dalle idee di Filone, la confusione aumentò e in occidente ci fu una comprensione poco chiara del concetto fino all'Alto Medioevo; cfr., Ibid., n. 61 pag. 152.
[27] Cfr. Ibid., p. 139.
[28] Per un esame dettagliato dei termini in questione, si veda Ibid., appendice 1: San Paolo: studio lessicografico, pp. 419-444.
[29] Aristotele spiega esattamente che cosa intende per significato morale di malacoV nell'Etica Nicomachea 7,4.4: è incontinenza rispetto ai piaceri del corpo, un difetto morale che non attribuisce in particolare ai gay.
[30] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 138.
[31] Cfr. Summa Theologiae II,2,54,1, Resp. e Vincenzo di Beauvais, Speculum doctrinale, 4,162.
[32] L'interpretazione di arsenocoitai come prostituta maschio si ritrova anche nella Vulgata che parla di masculorum concubitores, cioè concubini dei maschi.
[33] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 146.
[34] La leggenda della iena era già creduta al tempo di Aristotele e, benché egli la rifiutasse (Historia animalium, 6,32), nel III sec. tutti i trattati zoologici l'avevano accettata; anche Ovidio la usò nelle Metamorfosi 15,408-409.
[35] De bono religiosi status et variarum animantium tropologia (PL 145, 763D-792A).
[36] Per la traduzione italiana dell'Op. LII si veda Pier Damiani, Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Milano 1987, pp. 103-142.
[37] Pier Damiani, Lettere ai monaci ..., p. 123. Poco prima Damiani elogia la feconda verginità degli avvoltoi e introduce il riferimento alla donnola come altro esempio di concepimento che non viola la verginità, dopo di che formula la sua interpretazione allegorica.
[38] Questa associazione era dovuta, oltre che all'imprecisione semantica, anche all'uso di abbandonare i bambini indesiderati al mercato schiavistico. Questi bambini spesso venivano usati come oggetti sessuali, come testimoniano sia autori pagani che apologisti cristiani. Cfr. J. Boswell, L'abbandono dei bambini in Europa occidentale, Milano 1991 (ed. orig.: The kindness of strangers, New York / Toronto 1988).
[39] Didaché 2,2; Ep. Barn. 19,4; In Matt. hom. 73,1
[40] Cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 183.
[41] Cfr. J.J. McNeill, La Chiesa e ..., pp. 106-117.
[42] Cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 184-193.
[43] Il concetto alessandrino di natura era inconciliabile con la dottrina di Cristo e dei suoi apostoli. Infatti per Filone, che era il massimo esponente giudaico della moralità naturale, qualunque uso della sessualità umana che non portasse alla procreazione faceva violenza alla natura e quindi il celibato, la più alta risposta alla sessualità umana nel Nuovo Testamento, era innaturale.
[25] Per la storia dell'omosessualità nel tardo Medioevo, si rimanda ai capitoli 10 e 11 di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 335-412.
2. L'omosessualità nell'alto Medioevo
L'approccio di Boswell allo studio dell'omosessualità nel Medioevo è interessante e nuovo.[1] Egli ritiene che la trasformazione della cultura urbana dell'antichità nella società agricola del Medioevo abbia avuto un effetto ambivalente sui gay. Da un lato, la decadenza di grandi città come Roma sembra abbia ridotto a ben poca cosa, o per lo meno alla latitanza, la cultura gay così fiorente in molti centri urbani dell'antichità; la letteratura gay che sopravvive in questo periodo è molto scarsa e manifestazioni pubbliche come i matrimoni[2] o la prostituzione di omosessuali di sesso maschile sembrano essere stati completamente sconosciuti. Dall'altro lato, a eccezione di poche aree, il controllo dello stato era diventato così inefficace che l'imposizione di leggi o atteggiamenti repressivi era difficile o impossibile. Contrariamente all'opinione comune, Boswell sostiene che i gay non erano di solito i soggetti di legislazioni proscrittive durante questo periodo, anche se c'era stata una graduale restrizione degli atteggiamenti sociali verso tutte le forme di sessualità al di fuori del matrimonio dal III fino al IV secolo.
Nel 533 l'imperatore Giustiniano collocò tutte le relazioni omosessuali nella stessa categoria dell'adulterio e le sottopose per la prima volta a sanzioni civili (l'adulterio era a quel tempo punibile con la pena di morte)[3]. Nel 538 e 544 l'imperatore emise ulteriori leggi[4], in gran parte di natura esortativa, per spingere tutti coloro che erano caduti in simili peccati a cercare il perdono con la penitenza. Alcuni hanno visto queste leggi come la risposta di un governatore superstizioso ai terremoti del 525 e alla peste di Costantinopoli del 543, ma poiché la prima legge fu emessa tredici anni dopo il terremoto e otto anni prima della peste questa non sembra una spiegazione molto probabile.
Giustiniano esprimeva la sua opposizione all'omosessualità in termini religiosi, ma gli imperatori bizantini giustificavano spesso le loro leggi con la retorica cristiana. Inoltre, appare improbabile che l'imperatore si sforzasse di inserire i principi della morale cristiana nella legge civile, perché accanto ad una costituzione che cita l'autorità della Bibbia contro i gay c'è un editto che permette lo scioglimento del matrimonio, se consensuale. D'altra parte, questo non è sufficiente per dire che la Chiesa ufficiale ispirava l'azione di Giustiniano contro i gay. Al contrario, le uniche persone, di cui conosciamo il nome, a essere state punite per atti omosessuali erano vescovi famosi[5].
Intorno al 650 il governo della Spagna visigotica approvò una legislazione contro gli atti omosessuali che stabiliva la castrazione per chi li commetteva[6]. La Chiesa non prese parte alla sua approvazione e non cooperò all'oppressione spagnola dei gay per oltre quarant'anni dopo la promulgazione delle suddette leggi, ma alla fine, per diretto ordine della monarchia, fu obbligata a emanare una legislazione ecclesiastica sull'argomento. Così emise un decreto conciliare che stabiliva la degradazione degli ordini sacri, la scomunica e l'esilio per gli ecclesiastici dichiarati colpevoli di omosessualità; per i laici, invece, cento frustate e l'esilio[7].
In ambito civile, dopo la legislazione visigotica, non fu emanata più nessuna legge fino a Carlo Magno. Questi, peraltro, si limitò ad emettere un editto che esortava preti e vescovi «a cercare con ogni mezzo di impedire e sradicare questo male», ma non prescriveva nessuna pena ed era solo una ammonizione ecclesiastica[8]. I successivi decreti dei Franchi contro le pratiche omosessuali si basarono quasi uniformemente sui miti provvedimenti di questo editto che non citava alcuna autorità biblica o ecclesiastica tranne un canone del concilio di Ancira.
Da questo veloce excursus sulla storia della legislazione medievale possiamo dedurre che le leggi contro il comportamento omosessuale erano emanate su iniziativa delle autorità civili senza il consiglio o sostegno della Chiesa. J. Boswell, inoltre, vede una certa corrispondenza tra l'atteggiamento relativamente indulgente dei teologi dell'età carolingia verso l'omosessualità e l'assenza di statuti civili al riguardo. Secondo lui questo dimostra «in modo evidente che la gerarchia cristiana dal VII al X secolo considerava il comportamento omosessuale non più riprovevole del corrispondente comportamento eterosessuale»[9].
In realtà, nel primo Medioevo, la Chiesa formulò alcuni provvedimenti ufficiali contro l'omosessualità che, comunque, si rivelarono abbastanza moderati. Le prime testimonianze sono quelle del concilio di Elvira e del concilio di Ancira. Il primo, svoltosi verso la fine del IV secolo (305-306) nel sud della Spagna, include fra i suoi decreti un canone che proibisce agli stupratores puerorum di fare la comunione, anche in punto di morte[10]. Secondo Bailey, questo canone si riferiva a qualche situazione particolare, ma la legislazione successiva e l'opinione della Chiesa ci suggeriscono che, al tempo in cui fu promulgato, non faceva distinzioni fra i vari tipi di atti omosessuali[11].
Il concilio di Ancira (314) in Asia Minore, emanò due canoni (16 e 17) in cui venivano puniti gli alogeusamenoi, letteralmente quelli che hanno abbandonato la ragione. Bailey discute e confronta le diverse traduzioni latine dei due canoni per giungere alla conclusione che entrambi erano indirizzati a persone colpevoli di atti omosessuali[12]. Boswell, invece, sostiene che originariamente il canone 16 (del 17 non fa menzione) non era attribuito all'omosessualità. Il fatto che le penitenze tengano conto dell'età e dello stato civile del peccatore, a suo avviso, suggerisce che la colpa è sessuale, ma non c'è una testimonianza più specifica sulla sua natura. I primi traduttori latini sembra che abbiano riconosciuto l'ambiguità dell'espressione, ma altri, in epoca più tarda, stabilirono che il canone stigmatizzava ora la bestialità, ora l'incesto o l'omosessualità[13]. Infatti, il problema era capire a quale categoria di peccatori il termine greco alogeusamenoi si riferisse. Le interpretazioni latine più tarde del passo Interpretatio Isidori antiqua, Interpretatio Isidori vulgata o quella di Dionisius Exiguus fecero precedere ciascuno dei due canoni da un titolo in cui attribuirono l'irragionevolezza delle persone in questione (de his qui irrationabiliter versati sunt sive versantur) al fatto che avevano praticato la bestialità o la sodomia e, dunque, avevano abbandonato la ragione.
Pier Damiani, come vedremo, cita entrambi questi canoni nel LG basandosi sulla traduzione di Dionisius Exiguus[14]. Egli li usa non solo per riferirsi a chi ha consumato l'atto, ma anche a chi ha peccato con dei maschi in qualsiasi altro modo. Dunque, secondo la classificazione damianea dei peccati omosessuali, sarebbe stata sufficiente la masturbazione per essere giudicati con questi canoni[15].
Un'altra testimonianza dell'intervento della Chiesa contro l'omosessualità la troviamo nei penitenziali. Questi testi ebbero una grandissima diffusione in tutto il Medioevo sia per la loro praticità, sia per il prezioso aiuto che fornivano ai sacerdoti nel trovare la punizione per i vari peccati. Per soddisfare questa funzione di manuale, affrontavano tutti i tipi di problematiche, fra cui un posto molto importante era assegnato all'omosessualità. Le punizioni previste per tale peccato potevano oscillare dai tre anni per i rapporti femorali o orali, ai venti anni per il peccato dei Sodomiti.
Siccome i penitenziali non costituiscono un materiale compatto ed omogeneo, spesso la loro funzione religiosa e civile viene sottovalutata. Comunque, anche se da queste raccolte si ricava un quadro un po' contraddittorio della legislazione ecclesiastica medievale, nello stesso tempo, come vedremo, esse ci forniscono particolari importanti per capire la moralità medievale, anche in relazione all'atteggiamento verso l'omosessualità[16].
A dispetto di questi tentativi di legislazione civile ed ecclesiastica di cui abbiamo parlato, si ha l'impressione che i cristiani del primo Medioevo fossero abbastanza indifferenti al problema dell'omosessualità, perlomeno in rapporto all'ostilità del periodo successivo (a partire dal XII secolo).
A creare questo atteggiamento moderato, come già abbiamo detto, possono aver contribuito gli effetti della trasformazione della cultura urbana dell'antichità nella società agricola del Medioevo. Un altro fattore può risiedere nella scomparsa delle idealizzazioni del concetto di natura e delle influenze negative che esse avevano avuto sull'omosessualità. Benché l'espressione contra naturam continuasse ad essere impiegata per descrivere la sessualità non procreativa, secondo una considerazione forse un po' forzata di Boswell, «la sua forza semantica era viziata dal fatto che nell'Occidente intensamente rurale del primo Medioevo nessun teologo si sarebbe curato di invocare la natura come modello morale»[17].
Per l'interpretazione del concetto di natura nell'Alto Medioevo, risulta più convincente l'analisi basata sulla definizione che ne dà Boezio nel suo Liber de persona et duabus naturis. Boezio formulò una definizione essenzialmente realistica di natura: 1. tutto ciò che è, 2. tutto ciò che agisce o subisce azione, 3. il principio del moto, 4. la qualità propria di qualcosa[18].
Nessuno dei significati elaborati da Boezio poteva essere violato dal comportamento sessuale e l'omosessualità sembrerebbe rientrare nei primi tre significati, perché esiste e comporta cambiamento fisico e movimento. Solo la quarta definizione escludeva gli omosessuali perché le loro inclinazioni non erano considerate innate.
Il trattato più esteso del primo Medioevo sulla natura fu il Periphyseon (Le classificazioni della natura) di Scoto Eriugena, composto intorno alla metà del IX secolo[19]. Anche qui la definizione di natura sembra includere l'omosessualità: «Natura è il nome generale per ogni cosa che è e che non è [...] Nulla assolutamente può essere concepito che non debba essere compreso sotto questo termine»[20].
Perciò le rare obiezioni teologiche del primo Medioevo agli atti omosessuali non vanno ricollegate alle concezioni di natura, ma piuttosto vanno riferite all'idea di impurità del seme e di sconvenienza ad emetterlo se non per assoluta necessità. Il termine sodomia veniva riferito ad ogni emissione di seme non rivolta esclusivamente alla procreazione della prole legittima all'interno del matrimonio e il termine includeva anche molta parte dell'attività eterosessuale. Per esempio, Incmaro di Reims, uno dei più influenti teologi dell'età carolingia, confermava e seguiva l'uso prevalente ai suoi tempi e applicava il termine sodomia a tutti gli atti sessuali non procreativi. Definiva contro natura qualsiasi emissione di seme che non fosse con la propria legittima moglie: con una monaca, con una parente, con la moglie di un altro, con un animale o per se stessi, sia per manipolazione, sia con altri mezzi[21]. «Perciò nessuno dica che non ha commesso sodomia se ha agito contrariamente alla natura con un uomo o con una donna o se ha deliberatamente e consapevolmente contaminato se stesso strofinandosi, toccandosi o con altre azioni improprie»[22]. Piuttosto l'interesse di Incmaro sembra sorgere dalla teoria che il seme dell'uomo sia intrinsecamente impuro[23] e che la sua emissione possa essere tollerata solo in due circostanze, quando presumibilmente è inevitabile: la polluzione notturna[24] e la procreazione.
L'omosessualità viene così ridotta ad una semplice forma di fornicazione, cioè l'emissione del seme in modo improprio.
Da queste testimonianze, benché non siano sufficienti per coprire tutto il pensiero del primo Medioevo, possiamo ipotizzare che l'atteggiamento verso l'omosessualità fosse abbastanza tollerante all'inizio di questo periodo; infatti, per trovare atteggiamenti intolleranti bisognerà attendere il XIII secolo con il suo conformismo intellettuale e istituzionale[25].
Nel 533 l'imperatore Giustiniano collocò tutte le relazioni omosessuali nella stessa categoria dell'adulterio e le sottopose per la prima volta a sanzioni civili (l'adulterio era a quel tempo punibile con la pena di morte)[3]. Nel 538 e 544 l'imperatore emise ulteriori leggi[4], in gran parte di natura esortativa, per spingere tutti coloro che erano caduti in simili peccati a cercare il perdono con la penitenza. Alcuni hanno visto queste leggi come la risposta di un governatore superstizioso ai terremoti del 525 e alla peste di Costantinopoli del 543, ma poiché la prima legge fu emessa tredici anni dopo il terremoto e otto anni prima della peste questa non sembra una spiegazione molto probabile.
Giustiniano esprimeva la sua opposizione all'omosessualità in termini religiosi, ma gli imperatori bizantini giustificavano spesso le loro leggi con la retorica cristiana. Inoltre, appare improbabile che l'imperatore si sforzasse di inserire i principi della morale cristiana nella legge civile, perché accanto ad una costituzione che cita l'autorità della Bibbia contro i gay c'è un editto che permette lo scioglimento del matrimonio, se consensuale. D'altra parte, questo non è sufficiente per dire che la Chiesa ufficiale ispirava l'azione di Giustiniano contro i gay. Al contrario, le uniche persone, di cui conosciamo il nome, a essere state punite per atti omosessuali erano vescovi famosi[5].
Intorno al 650 il governo della Spagna visigotica approvò una legislazione contro gli atti omosessuali che stabiliva la castrazione per chi li commetteva[6]. La Chiesa non prese parte alla sua approvazione e non cooperò all'oppressione spagnola dei gay per oltre quarant'anni dopo la promulgazione delle suddette leggi, ma alla fine, per diretto ordine della monarchia, fu obbligata a emanare una legislazione ecclesiastica sull'argomento. Così emise un decreto conciliare che stabiliva la degradazione degli ordini sacri, la scomunica e l'esilio per gli ecclesiastici dichiarati colpevoli di omosessualità; per i laici, invece, cento frustate e l'esilio[7].
In ambito civile, dopo la legislazione visigotica, non fu emanata più nessuna legge fino a Carlo Magno. Questi, peraltro, si limitò ad emettere un editto che esortava preti e vescovi «a cercare con ogni mezzo di impedire e sradicare questo male», ma non prescriveva nessuna pena ed era solo una ammonizione ecclesiastica[8]. I successivi decreti dei Franchi contro le pratiche omosessuali si basarono quasi uniformemente sui miti provvedimenti di questo editto che non citava alcuna autorità biblica o ecclesiastica tranne un canone del concilio di Ancira.
Da questo veloce excursus sulla storia della legislazione medievale possiamo dedurre che le leggi contro il comportamento omosessuale erano emanate su iniziativa delle autorità civili senza il consiglio o sostegno della Chiesa. J. Boswell, inoltre, vede una certa corrispondenza tra l'atteggiamento relativamente indulgente dei teologi dell'età carolingia verso l'omosessualità e l'assenza di statuti civili al riguardo. Secondo lui questo dimostra «in modo evidente che la gerarchia cristiana dal VII al X secolo considerava il comportamento omosessuale non più riprovevole del corrispondente comportamento eterosessuale»[9].
In realtà, nel primo Medioevo, la Chiesa formulò alcuni provvedimenti ufficiali contro l'omosessualità che, comunque, si rivelarono abbastanza moderati. Le prime testimonianze sono quelle del concilio di Elvira e del concilio di Ancira. Il primo, svoltosi verso la fine del IV secolo (305-306) nel sud della Spagna, include fra i suoi decreti un canone che proibisce agli stupratores puerorum di fare la comunione, anche in punto di morte[10]. Secondo Bailey, questo canone si riferiva a qualche situazione particolare, ma la legislazione successiva e l'opinione della Chiesa ci suggeriscono che, al tempo in cui fu promulgato, non faceva distinzioni fra i vari tipi di atti omosessuali[11].
Il concilio di Ancira (314) in Asia Minore, emanò due canoni (16 e 17) in cui venivano puniti gli alogeusamenoi, letteralmente quelli che hanno abbandonato la ragione. Bailey discute e confronta le diverse traduzioni latine dei due canoni per giungere alla conclusione che entrambi erano indirizzati a persone colpevoli di atti omosessuali[12]. Boswell, invece, sostiene che originariamente il canone 16 (del 17 non fa menzione) non era attribuito all'omosessualità. Il fatto che le penitenze tengano conto dell'età e dello stato civile del peccatore, a suo avviso, suggerisce che la colpa è sessuale, ma non c'è una testimonianza più specifica sulla sua natura. I primi traduttori latini sembra che abbiano riconosciuto l'ambiguità dell'espressione, ma altri, in epoca più tarda, stabilirono che il canone stigmatizzava ora la bestialità, ora l'incesto o l'omosessualità[13]. Infatti, il problema era capire a quale categoria di peccatori il termine greco alogeusamenoi si riferisse. Le interpretazioni latine più tarde del passo Interpretatio Isidori antiqua, Interpretatio Isidori vulgata o quella di Dionisius Exiguus fecero precedere ciascuno dei due canoni da un titolo in cui attribuirono l'irragionevolezza delle persone in questione (de his qui irrationabiliter versati sunt sive versantur) al fatto che avevano praticato la bestialità o la sodomia e, dunque, avevano abbandonato la ragione.
Pier Damiani, come vedremo, cita entrambi questi canoni nel LG basandosi sulla traduzione di Dionisius Exiguus[14]. Egli li usa non solo per riferirsi a chi ha consumato l'atto, ma anche a chi ha peccato con dei maschi in qualsiasi altro modo. Dunque, secondo la classificazione damianea dei peccati omosessuali, sarebbe stata sufficiente la masturbazione per essere giudicati con questi canoni[15].
Un'altra testimonianza dell'intervento della Chiesa contro l'omosessualità la troviamo nei penitenziali. Questi testi ebbero una grandissima diffusione in tutto il Medioevo sia per la loro praticità, sia per il prezioso aiuto che fornivano ai sacerdoti nel trovare la punizione per i vari peccati. Per soddisfare questa funzione di manuale, affrontavano tutti i tipi di problematiche, fra cui un posto molto importante era assegnato all'omosessualità. Le punizioni previste per tale peccato potevano oscillare dai tre anni per i rapporti femorali o orali, ai venti anni per il peccato dei Sodomiti.
Siccome i penitenziali non costituiscono un materiale compatto ed omogeneo, spesso la loro funzione religiosa e civile viene sottovalutata. Comunque, anche se da queste raccolte si ricava un quadro un po' contraddittorio della legislazione ecclesiastica medievale, nello stesso tempo, come vedremo, esse ci forniscono particolari importanti per capire la moralità medievale, anche in relazione all'atteggiamento verso l'omosessualità[16].
A dispetto di questi tentativi di legislazione civile ed ecclesiastica di cui abbiamo parlato, si ha l'impressione che i cristiani del primo Medioevo fossero abbastanza indifferenti al problema dell'omosessualità, perlomeno in rapporto all'ostilità del periodo successivo (a partire dal XII secolo).
A creare questo atteggiamento moderato, come già abbiamo detto, possono aver contribuito gli effetti della trasformazione della cultura urbana dell'antichità nella società agricola del Medioevo. Un altro fattore può risiedere nella scomparsa delle idealizzazioni del concetto di natura e delle influenze negative che esse avevano avuto sull'omosessualità. Benché l'espressione contra naturam continuasse ad essere impiegata per descrivere la sessualità non procreativa, secondo una considerazione forse un po' forzata di Boswell, «la sua forza semantica era viziata dal fatto che nell'Occidente intensamente rurale del primo Medioevo nessun teologo si sarebbe curato di invocare la natura come modello morale»[17].
Per l'interpretazione del concetto di natura nell'Alto Medioevo, risulta più convincente l'analisi basata sulla definizione che ne dà Boezio nel suo Liber de persona et duabus naturis. Boezio formulò una definizione essenzialmente realistica di natura: 1. tutto ciò che è, 2. tutto ciò che agisce o subisce azione, 3. il principio del moto, 4. la qualità propria di qualcosa[18].
Nessuno dei significati elaborati da Boezio poteva essere violato dal comportamento sessuale e l'omosessualità sembrerebbe rientrare nei primi tre significati, perché esiste e comporta cambiamento fisico e movimento. Solo la quarta definizione escludeva gli omosessuali perché le loro inclinazioni non erano considerate innate.
Il trattato più esteso del primo Medioevo sulla natura fu il Periphyseon (Le classificazioni della natura) di Scoto Eriugena, composto intorno alla metà del IX secolo[19]. Anche qui la definizione di natura sembra includere l'omosessualità: «Natura è il nome generale per ogni cosa che è e che non è [...] Nulla assolutamente può essere concepito che non debba essere compreso sotto questo termine»[20].
Perciò le rare obiezioni teologiche del primo Medioevo agli atti omosessuali non vanno ricollegate alle concezioni di natura, ma piuttosto vanno riferite all'idea di impurità del seme e di sconvenienza ad emetterlo se non per assoluta necessità. Il termine sodomia veniva riferito ad ogni emissione di seme non rivolta esclusivamente alla procreazione della prole legittima all'interno del matrimonio e il termine includeva anche molta parte dell'attività eterosessuale. Per esempio, Incmaro di Reims, uno dei più influenti teologi dell'età carolingia, confermava e seguiva l'uso prevalente ai suoi tempi e applicava il termine sodomia a tutti gli atti sessuali non procreativi. Definiva contro natura qualsiasi emissione di seme che non fosse con la propria legittima moglie: con una monaca, con una parente, con la moglie di un altro, con un animale o per se stessi, sia per manipolazione, sia con altri mezzi[21]. «Perciò nessuno dica che non ha commesso sodomia se ha agito contrariamente alla natura con un uomo o con una donna o se ha deliberatamente e consapevolmente contaminato se stesso strofinandosi, toccandosi o con altre azioni improprie»[22]. Piuttosto l'interesse di Incmaro sembra sorgere dalla teoria che il seme dell'uomo sia intrinsecamente impuro[23] e che la sua emissione possa essere tollerata solo in due circostanze, quando presumibilmente è inevitabile: la polluzione notturna[24] e la procreazione.
L'omosessualità viene così ridotta ad una semplice forma di fornicazione, cioè l'emissione del seme in modo improprio.
Da queste testimonianze, benché non siano sufficienti per coprire tutto il pensiero del primo Medioevo, possiamo ipotizzare che l'atteggiamento verso l'omosessualità fosse abbastanza tollerante all'inizio di questo periodo; infatti, per trovare atteggiamenti intolleranti bisognerà attendere il XIII secolo con il suo conformismo intellettuale e istituzionale[25].
[1] Tra le opere generali sull'omosessualità nella storia, l'unica degna di nota è lo studio iniziatore di D.S. Bailey, Homosexuality and ... In particolare, per gli studi sull'omosessualità nel Medioevo segnaliamo: D. Roby, Early Medieval Attitudes toward Homosexuality, «Gai Saber» 1, n. 1 (1977), pp. 67-71; A. Karlen, The Homosexual Heresy, «Chaucer Review» 6, n. 1 (1971), pp. 44-63; M. Goodich, Sodomy in Medieval Secular Law, «Journal of Homosexuality» 1, n. 3 (1976), pp. 295-302; Id., Sodomy in Ecclesiastical Law and Theory, Ibid., n. 4 (1976), pp. 45-52; Id., The Unmentionable Vice: Homosexuality in the Later Medieval Period, Santa Barbara 1979; V. Bullough e J.A. Brundage, Sexual Practices and the Medieval Church, Buffalo 1982.
[2] Bailey e Boswell affermano che le unioni omosessuali erano ben note nel tardo impero. Con il Codice Teodosiano 9, 7, 3, secondo Boswell, nel 342 i matrimoni gay, che fino a quel momento erano stati legali e noti a tutti, furono messi fuori legge. Bailey, invece, rifiutò l'attribuzione del passo ai matrimoni fra maschi. Cfr. D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 70 e J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 159, n. 9. Per uno studio approfondito sul problema si veda l'ultimo lavoro di J. Boswell, The Marriage ..., London 1995.
[3] Istitutiones 4,18,4.
[4] Novellae 77,141. Cfr. D.S. Bailey, Homosexuality and ..., pp. 73-79
[5] Ad esempio, Isaia di Rodi, prefectus vigilum di Costantinopoli, e Alessandro, vescovo di Diospolis in Tracia. Entrambi furono portati a Costantinopoli per ordine imperiale, furono processati e destituiti dal prefetto della città che li punì mandando in esilio Isaia dopo gravi torture e abbandonando Alessandro al pubblico scherno dopo averlo castrato. Da questo momento in poi, sembra (Giovanni Malala, Chronographia, 18,166 [PG 97,644]) che l'imperatore abbia ordinato la castrazione per tutti gli omosessuali. Cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 220, n. 10-11.
[6] Leges Visigothorum 3,5,4, a cura di K. Zeumer, Hannover 1902, 1, 163, in MGH, Leges, I,1. Questo e gli editti successivi sono discussi da D.S. Bailey, Homosexuality and ..., pp. 92-94, che non considera però l'insolita situazione storica della Spagna in quel momento.
[7] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 221 ritiene che la severità di queste leggi rappresenti un'anomalia nella giustizia del primo Medioevo. Ma essa è dovuta al forte conformismo che i Visigoti (eretici ariani diventati cattolici nel 589) imposero per cercare di promuovere l'unificazione del regno cristiano di Spagna. «[...] scelsero gli ebrei e i gay come capri espiatori di vaste tensioni sociali causate da differenze etniche e religiose tra la popolazione». Cfr. anche Id., The Royal Treasure: Muslim Communities under the Crown of Aragon in the Fourteenth Century, New Haven 1977 e D. Nirenberg, Communities of violence. Persecution of Minorities in the Middle Ages, Princeton 1996.
[8] Admonitio generalis, in Capitularia Regum Francorum, I, 22, Hannover 1883 (MGH, Leges, II).
[9] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 224.
[10] «Stupratoribus puerorum, nec in fine dandam esse communionem» (canone 71), in J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze / Venezia 1759-1798, 2,17. Se contaminazione si riferisca alla violenza o alla seduzione o a entrambe, non è chiaro.
[11] Cfr. D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 86.
[12] Cfr. Ibid., pp. 86-89.
[13] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 223, n. 33. Il miglior testo greco dei canoni originali è pubblicato in R.B. Backham, The Texts of the Canon of Ancyra, «Studia biblica et ecclesiastica» 3 (1891), pp. 139-216. Backham fornisce le traduzioni inglesi o le parafrasi delle versioni siriache e armene, evidentemente non conosciute da Bailey. Per la traduzione latina dei canoni curata da Dionisio Esiguo, Codex canonum ecclesiasticorum, PL 67, 154C-D; comunque, tutte le traduzioni latine del concilio sono pubblicate in C. Turner, Ecclesiae occidentali monumenta iuris antiquissima, II, Oxford 1907, parte 1, pp. 1-144.
[14] Reindel I, 305-307 (PL 145, 172D-173A; 173D-174A). Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter Damian and His Canonical Sources. A Preliminary Study in the Antecedents of the Gregorian Reform, Toronto 1956, pp. 30-31, testi 21-22.
[15] «Patet profecto, quia in fine commatis non de corruptoribus tantummodo masculorum, sed et de quolibet modo pollutoribus sententiam proferat» (Reindel I, 306 [PL 145, 173B]). Quali siano questi altri modi Damiani lo dice nel primo capitolo, dove specifica i quattro gradi di peccato omosessuale; cfr. Reindel I, 287-288 (PL 145, 161C-D).
[16] Per una breve storia della penitenza e dei penitenziali si veda il § 3.
[17] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 241.
[18] Boezio, Liber de persona et duabus naturis. 1. Natura quid sit (PL 64, 1341-42): 1. «Omnis vero natura est», 2. «Natura est vel quod facere, vel quod pati possit», 3. «Natura est motus principium, secundum se, non per accidens», 4. «Natura est unamquamque rem informans specifica differentia». Per un commento a questa definizione, si veda J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 241, n. 120.
[19] Edito e tradotto da I.P. Sheldon-Williams, Johannis Scotti Eriugenae Periphyseon (De divisione naturae) Dublino 1968 (Scriptores Latini Hiberniae 7).
[20] PL 122,444: «Est igitur natura generale nomen [...] omnium quae sunt et quae non sunt [...] Nihil enim in universo cogitationibus nostris potest occurrere, quod tali vocabulo valeat carere». Cfr. I.P. Sheldon-Williams, Johannis Scotti ..., p. 36.
[21] L'interpretazione si trova nel trattato di Incmaro di Reims, De divortio Lotharii et Tebhergae, interrogatio XII (PL 125, 689-695).
[22] PL 125, 693.
[23] Incmaro chiama il seme lutum, lordura e fluxus, attribuendogli quindi una connotazione principalmente negativa.
[24] La polluzione notturna era attribuita ad un eccesso di fluido (plenitudo humoris) che veniva espulso naturalmente.
[25] Per la storia dell'omosessualità nel tardo Medioevo, si rimanda ai capitoli 10 e 11 di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 335-412.
3. La letteratura penitenziale
Già nell'antichità, la Chiesa aveva iniziato a raccogliere e a codificare le sue leggi, e molte di queste raccolte in seguito sfociarono indirettamente o direttamente nelle collezioni canoniche medievali. Le prime nacquero in Oriente a partire dalla fine del I secolo e furono chiamate pseudo-apostoliche, perché circolavano sotto il nome degli Apostoli. In Occidente, invece, si diffusero alcuni secoli dopo, in seguito ai primi grandi concili, come quello di Nicea (325) e quello di Cartagine (419). [1] Queste collezioni includevano soprattutto canoni conciliari e decreti pontifici e quindi trattavano argomenti di vario interesse ecclesiastico. Tra questi, acquisì sempre più importanza il problema della penitenza e della modalità penitenziale che, nel corso dei secoli, subì una profonda evoluzione. Parallelamente, si sviluppò una letteratura che raccoglieva i canoni emanati dalla Chiesa in questa materia. Generalmente si trattava di liste di peccati, come quelle lasciateci da Sant'Agostino e da San Cesario di Arles, o come, a partire dal VI secolo, i penitenziali. Però, a mano a mano che il sistema penitenziale mutava, queste liste si rivelavano insufficienti; si sentiva la necessità di un approfondimento teologico e, soprattutto, di una maggior fedeltà ai canoni conciliari. Così, dopo una fase intermedia in cui ai penitenziali vennero aggiunti dei brevi trattati teologici, nacquero delle collezioni sistematiche, divise per argomenti. Alla trattazione della penitenza era riservato a volte un intero libro che costituiva, all'interno dell'opera, un vero e proprio penitenziale (per questo, spesso le collezioni sono chiamate anche penitenziali e viceversa).
Alcune di queste raccolte, contenute nel Decretum di Burcardo di Worms, furono utilizzate da Pier Damiani nel LG. Il nostro autore, però, sferza un violento attacco contro il contenuto dei penitenziali, perché ritiene che contengano neniae, ovverossia frottole inventate dagli stessi peccatori per sfuggire a pene più severe. L'atteggiamento di Pier Damiani è chiaramente sintomatico di un'attitudine generale e indice di un momento critico della letteratura penitenziale.
Ripercorriamo ora a grandi linee la storia della penitenza e dei testi penitenziali fino ad arrivare alle fonti usate nell'XI secolo da Pier Damiani.
3.1 La penitenza nel Medioevo
Nella Chiesa antica era venuto gradualmente articolandosi un sistema penitenziale estremamente rigoroso, che andava sotto il nome di penitenza pubblica o, più propriamente, canonica, perché regolata poco per volta dai canoni dei primi concili. [2] Chi l'abbracciava era sottoposto ad un processo pubblico sotto l'autorità del vescovo, a cui privatamente confessava i peccati, ed entrava a far parte dell'ordo poenitentium. Da quel momento, tutto nella sua vita avrebbe rivelato la sua condizione di penitente: il posto in fondo o fuori dalla chiesa, la posizione genuflessa, l'esclusione dall'offerta e dalla comunione, il vestito di peli di capra o cilicio il capro era simbolo del dannato alla sinistra del Cristo giudice la rasatura dei capelli oppure i capelli e la barba lunghi ed incolti, l'aspetto trascurato e macilento per i digiuni e per la proibizione di prendersi cura della propria persona. Inoltre, si abbattevano sui penitenti delle interdizioni: non potevano più prestare servizio militare, ricorrere a tribunali civili, svolgere attività commerciali, esercitare cariche pubbliche e, soprattutto, non potevano più accedere a dignità e ordini ecclesiastici. In pratica, l'ingresso in penitenza corrispondeva ad una morte civile e, come se non bastasse, con la minaccia della non reiterabilità. Proprio per l'inasprimento del rigore, nel V-VI secolo, l'ordo poenitentium non accoglieva più se non vecchi e moribondi, ed erano gli stessi sinodi e concili a raccomandarlo [3] . A questo regime penitenziale, caduto ormai in disuso, si affiancò, a partire dal VI sec., una prassi penitenziale privata e iterabile. Si ritiene, in genere, che essa sia nata nei monasteri d'Irlanda, d'Inghilterra o di Scozia, da cui il nome di penitenza insulare che talvolta gli viene dato. Queste comunità, così lontane da Roma, sembrano non aver mai conosciuto la penitenza antica, secondo la testimonianza fornitaci dal Penitenziale attribuito a Teodoro di Canterbury (inizio VIII sec.): «Non c'è riconciliazione pubblica in questa provincia, perché non c'è penitenza pubblica». [4] Grazie ai missionari venuti dalle isole, soprattutto grazie a Colombano (543-615) e ai suoi discepoli, la penitenza privata passò sul Continente e vi fu propagata. Le due fondamentali caratteristiche del nuovo sistema di amministrazione della penitenza erano la segretezza del rito e la sua reiterabilità: il peccatore confessava i suoi peccati in privato al sacerdote, non più soltanto al vescovo, tante volte quante aveva peccato. Un altro aspetto di novità è costituito dal sistema di tassazione precisa delle colpe, da cui il nome di penitenza tariffata, cioè a ciascun tipo di peccato corrispondono degli obblighi cui il peccatore deve adempiere. La tariffa non era una tassa da pagare al sacerdote, ma l'entità della pena da scontare per espiare la colpa commessa. Questa tassa penitenziale consisteva in mortificazioni più o meno dure, ma, soprattutto, in digiuni di varia natura. Le tariffe penitenziali erano contenute in raccolte dette libri penitenziali, cataloghi di estensione e qualità differenti, e spesso confusi, che il sacerdote usava per analizzare i peccati e assegnare la penitenza ai fedeli confessati.
Siccome le pene imposte per i vari peccati si sommavano, si potevano totalizzare penitenze più lunghe dell'intera vita. Per ovviare a tali inconvenienti si introdusse il sistema delle commutazioni, che rendeva possibile scambiare lunghi periodi penitenziali con atti più intensi e gravosi, ma di più breve durata. Inoltre, conformemente all'uso del diritto germanico e celtico del guidrigildo, secondo cui un delitto poteva essere riscattato da una somma di denaro proporzionata, si ammise anche la compositio, cioè il riscatto della pena mediante un contributo pecuniario. Col tempo, essendosi diffusa l'abitudine di commutare la propria punizione con la celebrazione di un certo numero di messe oppure facendo compiere il riscatto ad un'altra persona, si verificarono degli abusi scandalosi. In definitiva, infatti, erano soprattutto i poveri e i monaci che si accollavano le penitenze e, solitamente dietro pagamento di compenso sistema di cui potevano usufruire soltanto i ricchi. Inoltre, era forte la tentazione di assegnare come compositio la donazione di terre ai monasteri e la costruzione di chiese e di conventi. È evidente che in questi casi le commutazioni perdevano il loro significato religioso originario di strumento per l'espiazione dei peccati e per la riconciliazione. La nuova disciplina finì così per sembrare troppo conciliante e permissiva.
Numerosi furono i tentativi di restaurazione della penitenza antica, vista la confusione, l'anarchia e l'evidente carattere anticanonico della nuova modalità, fino ad arrivare alla riforma caroligia. Il tentativo carolingio, tuttavia, fu un mezzo fallimento che portò alla formazione di una dicotomia penitenziale (a partire dal IX sec.) riassunta in una frase rimasta celebre: «per un peccato grave in pubblico, penitenza pubblica, cioè compiuta secondo il modo antico; per un peccato grave occulto, penitenza segreta, cioè compiuta secondo il sistema della penitenza tariffata». Successivamente, verso la fine del XII secolo, ci fu un'altra innovazione nella Chiesa latina e la modalità bipartita divenne tripartita: erano previste una penitenza pubblica solenne, la cui amministrazione era riservata al vescovo, una penitenza pubblica non solenne che consisteva nel pellegrinaggio penitenziale e la penitenza privata sacramentale in uso ancora oggi nella Chiesa latina.
3.2 I penitenziali
I libri penitenziali, come abbiamo detto prima, erano dei manuali pratici destinati ai confessori nel sistema della penitenza tariffata e contenevano liste di peccati, ognuno con la corrispondente tassa penitenziale. [5] Le dimensioni dei penitenziali possono essere molto varie poche pagine o interi opuscoli e, per la maggior parte, sono anonimi o posti sotto il patrocinio, usurpato, di un grande personaggio.
I termini libri penitenziali, penitenziali o Penitenziale (quando si tratta di un documento preciso), sono relativamente recenti, come, parimenti, lo sono gli equivalenti latini Poenitentiale, Liber poenitentialis, Poenitentiarius, Libellus poenitentiae. [6]
Le liste delle tassazioni sono, spesso, incoerenti e incomplete e il loro contenuto, per quanto sia differente da un esemplare all'altro, è sempre strutturato in maniera uniforme, e cioè secondo la formula «Chi commette questa colpa, farà questa o quest'altra penitenza».
Le categorie di peccati su cui si insiste di più sono le colpe sessuali, i furti di beni di chiese, gli assassini, le violenze fisiche, i giuramenti falsi e le prescrizioni alimentari e igieniche. Le penitenze, di solito, consistono in mortificazioni corporali, in elemosine, in pene di esilio, ma, soprattutto, in giorni di digiuno più o meno austero. Il verbo paenitere, che ritroviamo continuamente nei testi penitenziali, è quasi sempre sinonimo di ieiunare. Ovviamente, per digiuno non si intende astensione totale dal cibo ma paenitere cum pane et aqua, come spesso viene specificato, oppure con legumi secchi, latte scremato, formaggio e sale. Altre volte digiuno significa semplicemente non bere vino e non mangiare carne.
Dalla seconda metà del VII secolo agli inizi del IX, cioè nel periodo di maggior diffusione dei penitenziali, la loro tipologia si mantenne pressoché immutata, a prescindere dal luogo di provenienza. [7] Nel loro proliferare, però, si notano molte e rilevanti divergenze nella valutazione dei peccati e nella comminazione delle pene; non mancano giudizi erronei e incoerenze macroscopiche. Spesso è lo stesso compilatore ad aggiungere ai canoni antichi delle tariffe arbitrarie per i peccati, il che dimostra la situazione caotica che si era creata nel sistema tariffato.
Una revisione, che segnò la fine della fase creativa della composizione dei penitenziali, si ebbe con la riorganizzazione della gerarchia episcopale al tempo della riforma carolingia, la quale cercò, come si è visto, di restaurare la penitenza antica.
La lotta ai penitenziali, tacciati di pericolosi errori, fu intrapresa da numerosi concili, a partire da quelli riformatori dell'813 (Concilio di Reims e di Chalon-sur-Saône), in cui fu ordinato di ricercare e di bruciare i vecchi tariffari e, in loro sostituzione, di redigere nuove raccolte di canoni autentici.
3.3 L'omosessualità nei penitenziali
Tutti i penitenziali hanno almeno un canone che censura l'omosessualità e molti dedicano uno spazio relativamente ampio al problema. [8]
Secondo Payer, sono due i fattori che influenzano il trattamento penitenziale dell'omosessualità: il tipo specifico di offesa e le persone coinvolte. [9] I vari tipi di comportamento omosessuale più ricorrenti in questi manuali possono essere raggruppati in base alla seguente casistica:
- riferimenti generali a maschi legati sessualmente ad altri maschi;
- menzione specifica di sodomites oppure l'uso di una forma linguistica derivata come fornicatio sodomita, sodomitico more, sodomitico ritu, in scelere sodomitico, sodomiticum peccatum. Non c'è dubbio che tali espressioni denotino il comportamento omosessuale. Payer ipotizza che l'uso di questi termini si riferisca al rapporto anale maschile;
- riferimenti alle relazioni in terga. Questa espressione sembra essere usata in alternativa a quelle citate nel punto precedente per indicare le relazioni anali, però è soggetta ad una punizione di solito più lieve della sodomia. È difficile spiegare quale sia la differenza fra questi due tipi di riferimenti; l'unico particolare che li distingue è che l'espressione in terga viene usata raramente per il rapporto fra maschi adulti e spesso sembra alludere ad un comportamento particolare dei giovani. Viceversa, l'accenno alla sodomia è usato una sola volta in riferimento ai giovani (Penitenziale di Egberto di York 5,17, VIII secolo);
- riferimenti ai rapporti femorali (qualche volta attribuita anche ai rapporti intra crura);
- riferimenti alla masturbazione reciproca;
- riferimenti ai rapporti sessuali orali;
- riferimenti a giovani ragazzi (minimi) che simulano rapporti sessuali stimolandosi a vicenda;
- riferimenti a un tipo ai rapporto forzato in cui un ragazzo più giovane è oppresso da un altro giovane;
- riferimenti a rapporti sessuali con fratelli naturali.
In base alle persone coinvolte in questo peccato, possiamo raggruppare i canoni nel modo seguente:
- canoni indirizzati a persone non identificate (introdotti da si quis oppure che si riferiscono a viri). Questi canoni censurano tutte le forme specifiche di comportamento omosessuale;
- canoni indirizzati a vescovi, preti, diaconi, monaci. Non menzionano i differenti tipi di atti omosessuali ma parlano indifferentemente di chi pecca come i sodomiti e assegnano le penitenze in base al grado ecclesiastico del peccatore, dove chi occupa un più alto rango riceve la punizione più severa. In questi canoni che interessano gli ecclesiastici, il riferimento a ciò che fanno i sodomiti è, probabilmente, un riferimento generale a tutti i tipi di rapporti omosessuali. Comunque, spesso è impossibile distinguere tra i canoni indirizzati ai religiosi e quelli rivolti ai maschi in generale. Il LG di Pier Damiani sembra essere la prima estesa discussione sull'omosessualità clericale;
- canoni indirizzati ai giovani, in cui viene censurata l'intera gamma di comportamenti omosessuali, ma si usano le varianti linguistiche accennate sopra per il riferimento alla sodomia.
Sarebbe molto complesso e, forse, inutile tentare di confrontare la gravità dei diversi tipi di atti omosessuali basandosi su un confronto delle relative penitenze. Comunque, da un esame della tradizione, si ricava un'impressionante concordanza nella pesantezza delle penitenze assegnate.
Limitandoci all'esame dei canoni in cui i soggetti sono dei maschi indefiniti, si può notare quanto segue:
- le relazioni sessuali maschili che non sono specificate ulteriormente, in genere, implicano una penitenza che oscilla dai dieci anni ai quindici anni;
- le censure che usano una variante linguistica di sodomites, di solito, implicano una pena di dieci anni, ma che può variare anche fra i sette e i venti anni;
- le censure di rapporti in terga implicano sempre una pena di tre anni;
- le rapporti femorali sono puniti con tre anni;
- la masturbazione reciproca è menzionata soltanto tre volte in riferimento a maschi adulti: Synodus Luci Victoriae 8, [10] due anni; Bigotianum II, 2, 3, [11] cento giorni; Penitenziale di Arundel 67, [12] trenta giorni;
- la penitenza per i rapporti orali varia dai tre ai sette anni, ma più frequentemente è di tre o quattro anni.
È interessante osservare che l'omosessualità femminile raramente viene presa in considerazione. Il penitenziale di Teodoro la cita separatamente: «se una donna ha fornicato con un'altra donna, faccia penitenza per tre anni». [13] Anche in Beda c'è un riferimento alle relazioni lesbiche fra suore che usano un certo strumento, forse un fallo artificiale: «se una suora [ha peccato] con un'altra suora usando uno strumento, sette anni» [14] . Sebbene questo canone non sia stato largamente adottato dai penitenziali successivi, avrà una grande diffusione nelle collezioni più tarde.
Burcardo di Worms nel suo Decretum include un interrogatorio supplementare per le donne, a cui vengono imputate strane pratiche anticoncezionali e abortive, oltre che magiche. Tra le domande che Burcardo consiglia al sacerdote di rivolgere alle donne, troviamo un chiaro riferimento ad attività lesbiche:
Ti sei comportata come alcune donne che si fabbricano oggetti o marchingegni somiglianti al membro virile, e, secondo le tue voglie, li hai collegati con delle legature al luogo delle tue vergogne, o a quello di un'altra, per provare piacere con altre donnicciole; oppure l'hanno fatto altre donne, con lo stesso strumento o con un altro, per provare piacere con te? Se l'hai fatto, cinque anni di penitenza nei giorni prescritti [15]
Inoltre, ci sono riferimenti ad unioni di donne con animali. Questo è un peccato che viene punito, più severamente del lesbismo, con quaranta giorni a pane ed acqua per sette anni consecutivi e con l'obbligo di fare penitenza per tutta la vita.
Dunque, se è eccessivo quanto dice G. Rattray Taylor che i penitenziali dedicano uno spazio sproporzionato alla prescrizione penitenziale dell'omosessualità, [16] è certamente vero che essi manifestano un interesse considerevole verso questo soggetto, in netto contrasto con il disinteresse mostrato per le relazioni eterosessuali fra laici non sposati.
Inoltre, secondo Payer, i numerosi canoni che menzionano l'attività omosessuale fra religiosi non suggeriscono l'idea di un'attività dilagante, ma confermano che probabilmente l'omosessualità era ritenuta normale all'interno di ambienti in cui le persone erano tutte dello stesso sesso. [17]
J. Boswell nel seguire la sua ipotesi sull'atteggiamento indulgente della Chiesa del primo Medioevo verso l'omosessualità, è indotto a sottovalutare l'importanza dei penitenziali e del trattamento delle pratiche omosessuali al loro interno. Egli porta come esempio il penitenziale dell'VIII secolo di Gregorio III, in cui sono assegnate quattro quaresime di penitenza per attività lesbiche e un anno per i rapporti tra molles [18] . In confronto, la penitenza per un prete che andava a caccia era di tre anni. [19]
Si potrebbero fare, oltre a questo, altri riferimenti a peccati puniti più severamente dell'omosessualità, ma ciò non sarebbe sufficiente per affermare che questo era un problema di minore importanza per la Chiesa. I compilatori dei tariffari, come abbiamo detto, spesso usavano un metro di valutazione molto personale nell'assegnazione delle penitenze e quindi è molto probabile che alcune esagerazioni, indicative di una maggiore o minore tolleranza, siano imputabili all'autore stesso del penitenziale.
3.4 Le Collezioni canoniche [20]
A partire dal IX secolo, si assiste ad una svolta nella compilazione dei penitenziali. I semplici tariffari non sono più sufficienti o, comunque, non sono più credibili; è necessario appoggiarsi per ogni regola e per ogni ordinamento alla tradizione dei concili e dell'autorità papale. Per questo motivo, non vengono più usate come fonti le antiche collezioni indigene e insulari ma piuttosto altre collezioni più sicure, quali la Dionysio-Hadriana e l'Hispana. [21] Le raccolte del IX secolo, benché avessero ancora un campo di indagine particolarmente ristretto, spesso aggiungevano delle spiegazioni utili per il confessore. Ad esempio, la Dacheriana [22] (IX sec.), nata in ambiente carolingio e particolarmente importante perché usata a sua volta come fonte nelle raccolte successive, riprende la Dionisyo-Hadriana e l'Hispana aggiungendovi però, nel primo libro, una teoria generale sulla penitenza e sulla confessione. Analogamente, Alitgario, vescovo di Cambrai ( 831), inizia il suo De vitiis et virtutibus et de ordine poenitentium con un piccolo trattato sulle virtù e sui vizi. Anche Rabano Mauro, abate di Fulda e poi arcivescovo di Magonza, nei suoi due penitenziali (Paenitentiale ad Otgarium e Paenitentiale ad Heribaldum), composti tra l'841 e l'853, anziché limitarsi ad una lista di tariffe, confronta e spiega le varie determinazioni penitenziali assegnate dai canoni.
Sia Alitgario che Rabano affermano di aver scritto i loro testi penitenziali in risposta ad una precisa richiesta di compilare delle collezioni di sole fonti autorevoli. In particolare, Ebbone di Reims, scrivendo ad Alitgario, si dice molto preoccupato della confusione e delle contraddizioni contenute nei libretti penitenziali usati dai sacerdoti e lo prega di compilare un penitenziale ex patrum dictis canonum quoque sententiis. [23] Così, Alitgario accetta l'incarico. Nella prefazione, egli precisa che la raccolta non è sua, bensì è una selezione di sentenze dei santi, e che il sesto libro sulla penitenza lo ha preso dallo scrigno della Chiesa romana. [24] La trovata ebbe molta fortuna e il penitenziale venne citato come Penitenziale Romano in parecchie opere successive. In realtà, il sesto libro è opera di Alitgario che nel compilarlo si servì di penitenziali precedenti ma non abbastanza autorevoli per essere citati.
Questo è un esempio degli espedienti che i compilatori del IX secolo, benché fosse un'abitudine diffusa anche prima, escogitarono per rendere più credibili le loro raccolte.
Le collezioni compilate dal X secolo in poi si potrebbero chiamare miste perché, rispetto alle raccolte pure precedenti, incorporavano anche testi presi dai Padri della Chiesa, dalla legge romana, dai capitolari Carolingi e dagli scritti pseudo-isidoriani.
In questa nuova fase, anche i penitenziali vennero usati come fonti e, soprattutto, per la tematica sessuale di cui i decreti conciliari e papali non parlavano o trattavano solo in parte. [25] Appartengono a questo tipo di raccolte il De synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis di Regino di Prüm e il Decretum di Burcardo di Worms, entrambi del X secolo. Regino, in particolare, fu il primo compilatore dopo la condanna del IX secolo a raccomandare esplicitamente l'uso dei manuali penitenziali.
L'era dei penitenziali si chiude praticamente con il sec. XI a causa dell'opposizione esercitata dalla riforma gregoriana. Questi testi venivano criticati per l'eccessivo giuridismo che li ispirava o per l'arbitrio che essi avevano finito per promuovere. Comunque, l'unica voce di questo periodo del tutto contro i penitenziali è quella di Pier Damiani che nel LG sferra un duro attacco ai canoni apocrifi contenuti nei penitenziali. [26] Di solito, le collezioni dell'XI secolo fanno pochi riferimenti all'uso di libri penitenziali, e, comunque, ogni loro utilizzo è strumentale al rafforzamento dell'autorità papale. [27]
Alla fine del XII secolo, compaiono le prime Summe confessorum o Summae de paenitentia che costituiscono la tappa conclusiva nella storia della letteratura penitenziale medievale. Le Summae infatti, malgrado le loro affinità con i penitenziali, appartengono proprio ad una tipologia diversa. Di solito contengono considerazioni giuridico-morali che non si trovano mai nei penitenziali; non riportano più le liste dei peccati con accanto la tassazione precisa. Sono dei manuali che spiegano come i confessori devono accogliere i penitenti, quali virtù devono animare gli uni e gli altri e quale ordine seguire nella confessione.
[1] Per una trattazione dettagliata della storia della legge canonica medievale, si veda la voce Law, Canon, a cura di R.E. Reynolds e S. Chodorow, in Dictionary of the Middle Ages, VII, New York 1986, pp. 395-418.
[2] Per la storia della penitenza nel Medioevo, si veda ad es. G. Piana, Peccati e penitenza nel Medioevo, in A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo. Il penitenziale di Burcardo di Worms, a cura di G.Picasso, G.Piana, G.Motta, Novara 1986, pp. 7-40, e C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel Medioevo, II ed. ital. a cura di C. Achille Cesarini, Torino 1988, pp. 14-35.
[3] Ad es. il concilio di Agde (506) can. 15 e quello di Orléans (511) can. 27.
[4] «Reconciliatio ideo in hac provincia publice statuta non est, quia et publica poenitentia non est»; Penitenziale di Teodoro, I, 13, 4; BAK 197.
[5] La differenza fra penitenziali e collezioni canoniche spesso non è definita in modo molto chiaro. G. Piana, Peccati e penitenza ..., pp. 18-21 riunisce sotto la dicitura penitenziali sia le collezioni canoniche primitive, sia i tariffari, sia le collezioni sistematiche successive. In effetti, sono tappe storiche di uno stesso genere, però ritengo sia meglio analizzarle distintamente, per quanto in sintesi, affinché risulti più chiaro lo stretto rapporto che le lega con lo sviluppo della modalità penitenziale. Per questo tipo di approccio, si veda P. Payer, Sex and the Penitentials. The Development of Sexual Code 550-1150, Toronto 1984. Per un'antologia di testi penitenziali si veda J. McNeill e H. Gamer, Medieval Handbooks of Penance: A Translation of the Principal «Libri poenitentiales» and Selections from Related Documents, New York 1938 (Records of Civilization: Sources and Studies 29).
[6] Spesso le stesse forme appaiono con la grafia più tarda ae in luogo di oe.
[7] Per una classificazione dei penitenziali si veda C. Vogel, Les «Libri Paenitentiales», Turnhout 1978 (Typologie des Sources du Moyen Âge Occidental 27).
[8] Per lo studio del trattamento dell'omosessualità nei penitenziali v. D.S. Bailey, Homosexuality and ..., pp. 100-110 e J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 225-227.
[9] P. Payer, Sex and the Penitentials ..., pp. 40-44: analizza il problema dell'omosessualità nei penitenziali composti prima del IX secolo, mentre nell'appendice D, Homosexuality and the Penitentials, elenca tutti i penitenziali editi contenenti canoni che censurano il comportamento omosessuale.
[10] È un testo del VI secolo proveniente dal Galles. Per l'edizione si veda: L. Bieler, The Irish Penitentials, appendice: D.A. Binchy, Penitentials texts in Old Irish Translation, Dublin 1963 (Scriptores Latini Hiberniae 5).
[11] È un penitenziale che prende il nome dal codice Bigotianum (Parigi, Bibl. Naz. Lat 3182); fu redatto in Francia intorno alla fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo. Cfr. L. Bieler, The Irish ..., 220.
[12] Datato intorno al X secolo, v. BBK I, 455.
[13] «Si mulier cum muliere fornicaverit III annos peniteat» Penitenziale di Teodoro I, 2, 12. Per l'edizione di questo penitenziale, redatto verso la fine del VII inizio dell'VIII secolo, v. P. Finsterwalder, Die «Canones Theodori Cantauriensis» und ihre Überlieferunngsformen (Untersuchungen zu den Bussbüchern des 7., 8., und 9. Jahrhunderts, 1), Weimar 1929, pp. 285-334.
[14] «Si sanctaemoniales cum sanctaemoniales per machinam, annos VII» Penitenziale di Beda 3, 24, BAK 223.
[15] «Fecisti quod quaedam mulieres facere solent, ut faceres quoddam molimen aut machinamentum in modum virilis membri, ad mensuram tuae voluntatis, et illud loco verendorum tuorum, aut alterius, cum aliquibus ligaturis colligares, et fornicationem faceres cum aliis muliereculis, vel aliae eodem instrumento, sive alio, tecum? Si fecisti, quinque annos per legitimas ferias poeniteas» PL 140, 971. L'unica edizione completa del Decretum è di J. Foucher, D. Burchardi Wormacensis Decretum Libri XX, Coloniae 1548 ripresa nel vol. 140 della Patrologia Latina.
[16] G. Rattray Taylor, Sex in History, New York 1954, p. 54.
[17] P. Payer, Sex and the Penitentials ..., p. 44.
[18] «Si qua mulier cum altera coitum fecerit, quattuor quadragesimas poeniteat. Molles unum annum poeniteant», J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum ..., 12, 295, cap. 30. Boswell ha tradotto quattuor quadragesimas con 160 giorni, ma credo che sia preferibile tradurre quattro quaresime siccome la penitenza veniva fatta soprattutto durante il periodo quaresimale. Il termine molles di solito si riferisce a coloro che praticano la masturbazione, ma spesso si usa per indicare un atteggiamento effeminato o il ruolo passivo nel rapporto sessuale. Cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 225, n. 38-39.
[19] De diversis minoribusque culpis: «Si quis clericus venationes exercuit unum annum peniteat, diaconus duo, presbyter tres», Ibid., cap. 30.
[20] Per la storia delle raccolte v. P. Fournier e G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en occident depuis les Fausses Décrétales jusqu'au Décret de Gratien, I-II, Paris 1931-1932; G. Fransen, Les Collections canoniques, Turnhout 1973 (Typologie des sources du Moyen Âge Occidental 10).
[21] La Dionysio-Hadriana, o semplicemente Hadriana, è la raccolta Dionisiana, iniziata nel V secolo e terminata, ad opera di Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, con le aggiunte e i rifacimenti dei tempi di papa Adriano I (772-795). L'Hispana è del VII secolo ed è stata compilata, come dice il nome stesso, in ambiente spagnolo. Entrambe sono a carattere storico-cronologico, cioè i concilî sono riportati per intero, secondo un ordine cronologico.
[22] Prende il nome dal suo primo editore: L. D'Achery, Spicilegium sive Collectio veterum aliquot scriptorum qui in Galliae Bibliothecis delituerant. Collectio antiqua canonum paenitentialium, Lutetiae Parisiorum 1670, ried. a cura di L.F.J. De La Barre, Paris 1723, 3 vol. con note di Baluze e Mertène (rist. anast. Farnborough 1967).
[23] Per la traduzione italiana della lettera di Ebbone v. C. Vogel, Il peccatore e la penitenza ..., pp. 117-118.
[24] «[...] non est ex labore nostre excerpsionis sed adsumptus de scrinio romane ecclesiae» BBK II, 266; per la traduzione italiana v. C. Vogel, Il peccatore e la penitenza ..., p.118-119.
[25] Si veda, in proposito, P. Payer, Sex and the Penitentials ..., pp. 72-87.
[26] Cfr. Reindel I, 300-305 e § 5.2.
[27] Alcuni esempi di collezioni gregoriane sono la Collectio canonum di Anselmo di Lucca e il Decretum di Ivo di Chartres.
4. Pier Damiani e il libro scomodo
4. Pier Damiani e la riforma della Chiesa
Pier Damiani nacque a Ravenna nel 1007. Ebbe un'infanzia dura e dolorosa, come ci narra il suo biografo S. Giovanni da Lodi, ma non è facile riconoscere quanto vi sia di vero nel suo racconto fortemente mitizzato[1]. Affidato dapprima alle cure di una donna che viveva nella casa di un prete, fu raccolto, essendo rimasto presto orfano, da un fratello, ma non è sicuro che per questo abbia preso, in segno di riconoscenza, il cognome Damiani[2]. Studiò a Ravenna, poi a Faenza e a Parma e, fra i suoi maestri, cita un prete di nome Mainfredo e Ivo di Chartres. Iniziò la sua attività come professore nelle arti del trivio e del quadrivio, ma alcuni fatti, in cui egli vide la mano di Dio, lo persuasero a cambiare vita. Verso il 1035 entrò nell'eremo di Fonte Avellana, fondato poco prima del Mille e molto noto nel Medioevo. La sua personalità si impose subito in quel piccolo gruppo di eremiti e nel 1043 venne eletto priore. Tre anni dopo assiste all'incoronazione imperiale di Enrico III a Roma ed entra in rapporti con l'ambiente di corte. I suoi successivi contatti furono numerosi e cordialissimi: si recò più volte in Germania, l'imperatrice Agnese fu sua penitente e tentò di trattenere Enrico IV dal divorzio con Berta. Dal 1050 in poi, Damiani partecipò alla riforma ecclesiastica collaborando con gli scritti e con l'intervento personale all'energica azione riformatrice iniziata da Leone IX . Questo papa lo nominò priore del convento di Ocri e, almeno per i primi anni, intrattenne con lui un buon rapporto di amicizia. Anche sotto i pontificati di Stefano IX, di Niccolò II e di Alessandro II, Damiani godette di una posizione di primo piano tanto da venir creato, nel 1057, cardinale e vescovo di Ostia, ma Stefano IX era stato costretto a minacciarlo di scomunica per fargli accettare quella carica. In tali uffici assolse varie incombenze (ambasciatore papale a Cluny, paciere a Milano, a Firenze e in altre città) ma la vita di curia non era adatta a lui, carattere troppo aspro e spirito troppo indipendente. Dopo molte insistenze, sempre respinte, verso il 1067 ottenne finalmente di poter rinunciare all'episcopato e ritornò al chiostro, pur continuando a dare il suo aiuto nella riforma della Chiesa.
Poco prima che il suo amico Ildebrando salisse al trono papale, Pier Damiani moriva il 22 febbraio 1072 a Faenza, dove fu sepolto nella chiesa di S. Maria fuori porta.
Pier Damiani fu, dunque, innanzi tutto, un monaco, maestro di vita religiosa e soprattutto di vita eremitica, sull'esempio di S. Romualdo di cui scrisse anche la biografia[3]. Le sue opere, specialmente quelle dirette ai monaci, sono piene di concetti di quella dottrina dell'eremo, come la chiama Palazzini, formulata da Damiani stesso e rimasta poi classica: il monastero è una preparazione all'eremo, cui tutti i monaci dovrebbero tendere, come più alta forma di vita religiosa[4].
Un altro aspetto della figura di Damiani è delineato dal Blum che lo ha definito «consigliere dei Papi»; fu questo, infatti, il suo compito principale nella vita pubblica del periodo pregregoriano[5].
Damiani era afflitto dai mali della Chiesa, di cui condannò molto energicamente le manifestazioni più palesi, le cosiddette piaghe del secolo: la simonia e il nicolaismo[6]. Durante la prima metà dell'XI secolo, nel periodo in cui Damiani era priore di Fonte Avellana, ben otto papi avevano occupato successivamente, e a volte si erano disputati, la sede apostolica. Dopo la morte di Silvestro II (1003), con cui sembrava iniziato un periodo di riforma, la situazione era di nuovo precipitata nell'antica corruzione e il papato era diventato appannaggio delle grandi famiglie aristocratiche[7]. Essendo stato, quindi, spettatore di questi anni agitati e profondamente corrotti, Damiani comincia ad agire in prima persona scrivendo ed incontrando i pontefici. Iniziò con Gregorio VI, il primo papa che sembrò far sperare al mondo l'attuazione di una riforma e si tenne sempre a contatto con gli altri papi che gli succedettero, divenendo quando più quando meno, uomo di fiducia e di consiglio. Ma la vocazione a consigliere dei pontefici non era dettata da altro che dal desiderio di affrettare la riforma della Chiesa. Quest'altro aspetto della figura di Damiani, il riformatore, lo portò ad avere molteplici contatti con le più note personalità ecclesiastiche e laiche dell'epoca[8].
Egli, però, non seppe misurare, almeno in tutta l'estensione, la radice profonda del male riposta nell'investitura laica che implicava la sottomissione della Chiesa all'Impero. Anzi, Damiani era persuaso che la riforma della Chiesa poteva essere realizzata solo con l'accordo dei due poteri spirituale e temporale. Nella Disceptatio Synodalis, che compose per difendere Alessandro II dall'antipapa Onorio II, egli si propose unicamente di ricreare l'intesa tra la santa Sede e la corte germanica, senza rendersi sempre conto dell'importanza dei sacrifici accettati in vista della loro riconciliazione[9]. Infatti, Damiani, in questo suo scritto, sembra smentire il decreto del 1059 in cui Niccolò II stabiliva che l'elezione del pontefice spettava in primo luogo ai cardinali vescovi e non all'imperatore. Ammiratore dell'istituzione imperiale, come aveva funzionato al tempo di Enrico III, egli non vide fra Chiesa e Impero la possibilità di rapporti diversi da quelli fino ad allora seguiti. Di altro parere era, invece, il suo collega nelle ambascerie papali, Ildebrando da Soana, futuro Gregorio VII, che ingaggiò la lotta contro le investiture per respingere l'ingerenza dei laici nelle elezioni dei pontefici, dei vescovi e degli abati. Per Damiani la preoccupazione maggiore era di combattere strenuamente l'incontinenza e far rivivere nel clero la virtù della purezza e della castità perfetta[10].
Contro la simonia, Damiani scrisse il Liber Gratissimus in cui, pur condannando questa pratica, sosteneva che i sacramenti amministrati dai preti simoniaci conservavano la loro validità perché non era dagli uomini ma da Cristo che traevano la loro efficacia[11]. Questa posizione, però, era in disaccordo con ciò che l'autore aveva sostenuto negli scritti precedenti, in cui si era battuto fieramente contro i simoniaci. Probabilmente, Damiani cambiò il suo giudizio perché, nel frattempo, aveva saputo che anche il vescovo da cui era stato ordinato era simoniaco! Contro di lui, a causa di questo suo ripensamento, si scagliò Umberto di Silva Candida, sostenitore della tesi rigorista, il quale negò decisamente la validità del sacerdozio di Damiani.
Dopo le discussioni sollevate dal Liber Gratissimus, molto criticato nell'ambiente ecclesiastico, si verificò un certo allontanamento tra Leone IX e Pier Damiani. Ciò potrebbe essere spiegato, secondo Lucchesi, dalla posizione di Umberto di Silva Candida nella questione delle ordinazioni, poiché questi fu un cardinale molto influente su Leone IX[12]. Altri studiosi invece, come vedremo nel § 4.2, ritengono che l'allontanamento sia stato determinato dalla risposta che il papa diede a Pier Damiani riguardo al LG.
In altri opuscoli, Damiani si occupò della necessità di una vita illibata da parte dei chierici e vi espresse le sue idee sul celibato e sulla castità del clero. In particolare, egli scrisse nel De caelibatu sacerdotum (1059) un'esortazione al papa Niccolò II, che era il dedicatario dell'opuscolo, affinché esercitasse tutto il rigore dei sacri canoni contro i prelati immorali e perché deponesse quelli che violavano la castità[13]. Nella lettera inviata a Cuniberto, vescovo di Torino, e in quella indirizzata alla principessa Adelaide di Susa (1064), si scaglia contro quei chierici intemperanti che vivono velut iure matrimonii confoederentur uxoribus e rivolge un'apostrofe alle concubine degli ecclesiastici chiamandole empie tigri, arpie e vipere furiose[14].
Un altro costume del clero che Pier Damiani riteneva dovesse essere risanato molto urgentemente era la pratica dell'omosessualità. Così, fin dai primi anni della sua attività di consigliere papale, si adoperò per guarire la Chiesa da questo «male abominevole» e, a questo scopo, scrisse il Liber Gomorrhianus dedicandolo al papa Leone IX, confidando nella volontà riformatrice del pontefice[15]. In questo opuscolo, che costituisce l'oggetto del nostro lavoro e che, quindi, studieremo approfonditamente nei prossimi paragrafi, Damiani fa un'analisi particolareggiata di questa terribile colpa, usando termini arditi e severi.
Comunque Damiani, nonostante la grande opera di riforma che intraprese, sentì sempre la nostalgia per la vita eremitica, tant'è che, come abbiamo visto, negli ultimi anni della sua vita, volle tornare al suo amato eremo di Fonte Avellana, rinunciando alla sede di Ostia.
Dante colloca Pier Damiani nel settimo cielo fra i contemplativi e lo mostra nella sua veste di fiero fustigatore della dilagante corruzione ecclesiastica e come spirito innamorato della vita eremitica[16]. Egli aveva un carattere ardente, nonostante il continuo sforzo di vincersi, un po' ombroso, tanto da essere paragonato a San Girolamo. Per usare le parole di P. Brezzi, «[...] in lui vi era una assoluta purezza d'intenzione, elevatezza morale, noncuranza dei mezzi termini, fervore inesauribile, forza di convinzione»[17].
4.1 Il ruolo del Liber Gomorrhianus nella riforma del clero
Pier Damiani scrisse il LG intorno alla seconda metà del 1049[18]. Il libro è la prima delle opere dell'autore che censura gli abusi sessuali degli ecclesiastici e, nello stesso tempo, come dice Brundage, è «l'espressione più esplicita contro la sessualità deviante di tutta la letteratura del periodo riformatore»[19].
Bailey definisce il LG una «composizione straordinaria» e, sotto alcuni punti di vista, «l'asserzione medievale più importante sul soggetto dell'omosessualità»[20]. Infatti, prima di Damiani, nessuno aveva affrontato in modo sistematico il problema dell'omosessualità e, soprattutto, nessuno aveva mai denunciato apertamente l'esistenza di questa pratica in ambiente ecclesiastico. Damiani che, come abbiamo visto, desiderava ardentemente promuovere l'attività riformatrice dei pontefici, soprattutto al fine di restaurare la disciplina nella gerarchia ecclesiastica, volle dimostrare quanto fosse urgente risanare i costumi del clero. Così, nel LG, si scaglia contro il dilagare in nostris partibus del quadruplice vizio contro natura, ne analizza i vari tipi di comportamento e le situazioni in cui questi vengono compiuti proponendo un'unica drastica soluzione: tutti gli ecclesiastici colpevoli di qualsiasi atto omosessuale devono essere immediatamente degradati, a qualunque grado essi appartengano. Damiani ritiene «completamente assurdo che quelli che si macchiano abitualmente con questa malattia purulenta osino entrare nell'ordine o rimanere nel loro grado [...] perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri»[21]. Comunque, egli aggiunge, «non affermo questo come pretesto per proporre una bozza di sentenza definitiva [...], ma semplicemente per spiegare la mia opinione a riguardo». Egli non prevede attenuanti anzi, rispetto all'opinione comune sulla gravità delle varie pratiche, Damiani formula un giudizio ancora più severo considerando anche la masturbazione fra gli atti innaturali e, forse, benché non lo dica esplicitamente, anche la fellatio. Damiani non assegna penitenze, non commina né digiuni, né preghiere, nessuna pena sarebbe mai sufficientemente pesante per l'espiazione di una colpa così abominevole. Se i peccatori in questione fossero dei laici, sicuramente li redarguirebbe con decisione e con durezza, ma impartirebbe loro una penitenza per riavvicinarsi a Dio e per ricevere il perdono. Ma qui gli scellerati sono dei sacerdoti, sono dei ministri del Signore! A costoro non deve più essere permesso di toccare il corpo e il sangue di Cristo, le loro mani sono sudicie e indegne. Per questi ecclesiastici nient'altro deve essere previsto se non la degradazione e l'allontanamento dall'ordine.
Damiani, anche se ammette una certa gradualità nelle colpe omosessuali, punisce la masturbazione, il rapporto interfemorale e la penetrazione anale nello stesso modo. «Perciò egli dice non si deve rallegrare colui che non pecca con un altro, se da solo cade nelle lussuriose contaminazioni dell'adescamento»[22]. Per questa sua severità e intransigenza, o come la chiama Brundage, ossessione, questo opuscolo di Damiani costituisce un unicum nella letteratura medievale cristiana[23]. Credo, però, che sia più giusto dire che è la materia trattata, l'analisi dettagliata dei fatti e la drastica condanna in esso pronunciata che rendono il LG il primo vero documento decisamente contro l'omosessualità.
Secondo Payer il LG fu «il primo di una lunga serie di trattati e contro trattati sulla materia che avrebbero caratterizzato il movimento di riforma fino alla fine del secolo»[24]. A questo riguardo, bisogna precisare che, prima di Damiani, si trovano numerosi riferimenti all'omosessualità, ma tutti sono contenuti nei penitenziali o nelle collezioni canoniche che, come abbiamo visto, non si possono di certo considerare dei trattati. Dopo Damiani, anche i canonisti del periodo gregoriano si interessarono alle questioni sollevate dal LG. Il Decretum di Ivo di Chartres, per esempio, contiene numerosi canoni che condannano la sodomia, la bestialità, la pederastia e la fellatio e per queste colpe sono previste anche pene più severe rispetto agli altri peccati, ma egli attinge queste prescrizioni dalle raccolte canoniche precedenti[25]. Nei penitenziali non si discute del problema dell'omosessualità, di quanto detestabile sia questa colpa e di come venga commessa, in essi ogni questione è studiata in relazione alla penitenza più giusta da imporre, non viene esaminata la radice del peccato come ha fatto Damiani. Credo, quindi, che si possa dire con sicurezza che, almeno nel primo Medioevo, non furono scritti sull'omosessualità altri trattati di una certa estensione paragonabili al LG.
Boswell fa riferimento a Damiani inserendolo in quel «piccolo e rumoroso gruppo di asceti» che risvegliò la violenta ostilità di Crisostomo il quale affermava che gli atti omosessuali non solo erano peccaminosi, ma così gravi da essere paragonati più all'assassinio che alla golosità o alla fornicazione[26]. Per tutto il periodo della riforma questi uomini, continua Boswell, «lottarono per interessare la Chiesa istituzionale alla loro crociata, per cambiare le opinioni della gente e dei teologi in materia». Le autorità ecclesiastiche non stabilirono mai delle punizioni per il comportamento omosessuale e finsero di non sentire quelle poche lamentele che ricevevano dai riformatori. Oltre a Damiani che cercò, con scarso successo, di interessare al problema Leone IX e Alessandro II,[27] lo stesso Ivo di Chartres denunciò a papa Urbano II, il pontefice che promosse la prima crociata, i nomi di alcuni prelati altolocati che erano ben conosciuti per essere coinvolti in attività omosessuali, ma anche la sua protesta cadde nel vuoto[28]. Quasi certamente nello stesso tempo, si cercò di introdurre in Inghilterra una legislazione ecclesiastica che definiva peccaminoso il comportamento omosessuale[29]. Il concilio di Londra del 1102 prese delle misure per far sì che il pubblico venisse informato della scorrettezza di tali atti e insistette perché la sodomia venisse confessata come peccato. Sant'Anselmo di Canterbury si oppose alla pubblicazione del decreto e in una lettera all'arcidiacono Guglielmo, disse: questo peccato è stato finora così comune che difficilmente si prova imbarazzo per esso e, perciò, molti sono caduti in tale peccato perché erano inconsapevoli della sua gravità[30].
Boswell sottolinea giustamente che questa indifferenza della Chiesa istituzionale al comportamento omosessuale è ancora più straordinario perché fu proprio durante questo periodo che furono fatti i più strenui sforzi per rinvigorire il celibato ecclesiastico. Intanto, un altro gruppo all'interno della Chiesa cominciò a sostenere «il valore positivo delle relazioni omosessuali e le celebrò in una esplosione di letteratura gay cristiana» basata sull'esempio dell'amicizia fra Gesù e Giovanni[31].
In questo contesto, quindi, senza alcun dubbio, il LG riveste un ruolo unico e particolare che sembra preludere all'intolleranza che nascerà nel XIII secolo e che punirà l'omosessualità anche con la pena di morte[32].
Lucchesi ha individuato un'altra novità importante contenuta nel LG rispetto agli altri lavori precedenti. Fu scritto per essere sottoposto all'autorità del papa e riceverne conferma, ma anche per essere presentato all'attenzione di un sinodo: dum plurimorum consensu et iudicio res geritur[33]. Dunque, Damiani non solo chiede al papa di approvare con una sua decretali pagina le punizioni che egli propone per i colpevoli, ma pensa anche di offrire materiale di lavoro ad un prossimo sinodo, e cioè prepara un prossimo sinodo[34].
Evidentemente Damiani riponeva molta fiducia in Leone IX, ma questi, come vedremo nel prossimo capitolo, tempera alquanto la severità del provvedimento proposto dall'autore e, a quanto pare, nessun concilio discusse mai il problema dell'omosessualità.
4.2 Pier Damiani e Leone IX
Leone IX (1049-1054) fu il primo papa pellegrino della storia, fu quello che venne a Roma in abiti da viandante e che nel suo breve pontificato visitò quasi tutta l'Europa cristiana. Egli seppe circondarsi di insigni personalità. Infatti, fu allora che Ildebrando lasciò definitivamente il monastero per porsi ai fianchi del papa e che vennero a Roma Umberto di Silva Candida, l'alter ego di Leone IX, Federico di Lorena, futuro Stefano IX, et ex Ravennatium partibus Petrus Damianus vir eloquentissimus[35].
Leone IX fu il primo vero papa riformatore. Nei sinodi tenutisi sotto il suo pontificato dichiarò guerra alla simonia e all'incontinenza del clero[36]. Pier Damiani partecipò personalmente a ciascuno di questi sinodi e spesso le sue testimonianze sono le uniche pervenuteci circa i problemi discussi in tali assemblee. Nelle lettere contro i sacerdoti intemperanti, Damiani parla di un interdictum papae Leonis e di un decreto dello stesso pontefice contro le prostitute dei preti, entrambi emanati durante il sinodo dell'aprile del 1049[37]. Damiani, non contento di quanto veniva discusso e decretato dal sinodo, cercò di lavorare per conto suo su certe problematiche che gli stavano particolarmente a cuore. E fu così che iniziò a concretizzare la sua opera a favore della Chiesa componendo il Liber Gomorrhianus e dedicandolo, come abbiamo visto, allo stesso Leone IX.
In risposta al LG, il pontefice scrive a Pier Damiani una cortese lettera di apprezzamento per il libello che gli ha inviato e lo rassicura di aver dimostrato a se stesso di essere un nemico della contaminazione della carne[38]. Ne gradisce lo stile franco e il ragionamento sincero che, indiscutibilmente, lo rendono degno di combattere la lotta conto i peccati dalla parte della giustizia.
Anche Leone condanna questo vizio, questo «desiderio osceno» che allontana dalla virtù cristiana chiunque lo commetta e che, a maggior ragione, è detestabile se compiuto da dei sacerdoti: «come può uno essere ecclesiastico o chiamarsi tale, quando non ha temuto di macchiarsi di sua propria volontà?» Proprio i ministri del Signore che «avrebbero potuto chiamarsi non solo tempio sacro di Dio, ma anche il santuario in cui l'Agnello di Dio è stato immolato in splendida gloria», proprio loro conducono una vita tanto disgustosa.
Quindi, Leone approva la punizione che Damiani ha previsto per questi peccatori, perché è in accordo non solo con l'autorità dei sacri canoni ma anche con il giudizio del papa stesso (nostro iudicio). Egli definisce il tono pungente di Damiani «santa indignazione» e lo rassicura circa la validità delle sue affermazioni. Tuttavia, Leone IX ritiene opportuno imporre la sua autorità apostolica, come lo stesso Damiani aveva chiesto, in modo «da rimuovere ogni scrupoloso dubbio a quelli che leggono».
Dunque, sebbene l'autorità sacra preveda l'espulsione per coloro che si sono macchiati in uno qualsiasi dei quattro modi enumerati da Damiani, «noi dice Leone IX agiremo più umanamente». Egli, infatti, desidera e ordina che gli ecclesiastici non coinvolti in tali attività «da lunga abitudine o con molti uomini» rimangano nello stesso grado che occupavano quando erano stati dichiarati colpevoli, e che solo quelli in stato particolarmente peccaminoso vengano degradati dal loro rango. In particolare, chi ha peccato nei primi tre modi masturbazione solitaria, masturbazione reciproca e coito interfemorale dopo un periodo di penitenza, può ritornare al grado ecclesiastico che ricopriva prima. Ma non c'è speranza di recuperare la carica per chi ha peccato in questo stesso modo ma per lungo tempo oppure per poco tempo ma con molti uomini. La stessa sorte spetta a quelli che si sono uniti mediante la penetrazione anale poiché hanno commesso il delitto più grave ed impronunciabile.
Leone IX entra in merito alla gravità degl'atti omosessuali seguendo accuratamente la classificazione di Damiani e stabilendo una specie di gradualità fra i diversi comportamenti. Tale distinzione sembra soddisfare la richiesta, formulata da Damiani nel LG, di stabilire «chi, tenendo conto, certamente, della diversità [dei peccati], possa ricoprire misericordiosamente questo ufficio»[39]. Nonostante ciò, le sue precisazioni rimangono molto vaghe, sembra che volutamente lasci imprecisato che cosa intenda con abitudine e con pochi o molti uomini, come se volesse fornire degli appigli per gli accusati.
Nelle parole di Leone si legge chiaramente un atteggiamento molto tollerante. Da un lato, sembra voler accontentare Damiani comminando la degradazione laddove la gravità del peccato sia proprio innegabile. Dall'altro lato, non si inasprisce contro i peccatori ma, anzi, usa un tono comprensivo, sed nos humanius agentes. Leone IX non giustifica la sua affermazione, la impone (volumus, atque etiam iubemus) e il tono, nel seguito della lettera, non cambia. Egli attribuisce al suo scritto la validità di un decreto: «Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica».
Bailey, che sembra sia stato influenzato da K.H. Mann, ha interpretato questa frase come un ammonimento per Pier Damiani[40]. Al contrario Boswell dice in modo un po' confuso, che non si tratta affatto di una minaccia diretta a Piero[41]. Questo ammonimento viene chiarito dalla frase successiva in cui Leone aggiunge che «chi non commette il vizio ma lo incoraggia, costui è, giustamente, considerato colpevole di morte al pari di chi muore nel peccato». Ma, chi è che incoraggia il vizio? Colui che non lo vuole estirpare, che non lo vuole punire e che quindi è pronto a criticare le disposizioni di Leone.
L'affermazione, a mio avviso, non si riferisce direttamente a Pier Damiani ma a quelli che avrebbero preferito cancellare il decreto di Leone, quindi, con tutta probabilità agli accusati, cioè ai preti omosessuali. Tuttavia è implicito che questo sia un monito rivolto anche a Damiani che, desiderando un intervento più severo da parte del papa, avrebbe potuto protestare contro un provvedimento invece così comprensivo
È chiaro che Leone non è molto ben disposto verso il LG, i complimenti che rivolge a Damiani sono frasi di circostanza, lo saluta come un paladino della giustizia e lo premia con l'augurio della grazia eterna, ma, poco prima, gli dice «hai scritto ciò che sembrava meglio per te» sottintendendo che le sue opinioni personali non erano necessariamente identiche a quelle di Damiani.
Non bisogna dimenticare che Damiani aveva chiesto a Leone di scrivere una pagina decretali, di radunare degli «uomini spirituali e prudenti per compiere questo necessario esame» e per togliere, così, ogni dubbio dal suo cuore. Questa richiesta però non fu accolta da Leone IX. Infatti, non solo la risposta del papa non può essere considerata un decreto conciliare, ma non risulta nemmeno che in qualche concilio se ne sia discusso. Le testimonianze dei sinodi di Leone ci parlano di numerosi interventi contro la simonia o il matrimonio ecclesiastico, ma non contro l'omosessualità.
Come abbiamo detto, durante gli ultimi anni del pontificato di Leone IX, fra i due si verificò un certo allontanamento[42]. Bailey e Mann, che hanno frainteso le parole di Leone, ipotizzano che il diverbio fra i due sia stato provocato proprio dalla risposta del papa a Damiani. Ma, come dice Boswell, la prova di tale allontanamento deve essere ricercata in un'altra lettera che Damiani scrive a Leone IX tra il 1050 e il 1054[43].
Questa lettera mostra chiaramente che fra i due c'era stata una rottura abbastanza netta, perché Damiani dice in modo esplicito di volersi riconciliare con Leone IX e di essere pronto a fare ulteriori penitenze per meritarlo. Nello stesso tempo, l'autore non risparmia battute pungenti per Leone: è doveroso credere che Dio abiti nel suo cuore e che lo convinca a cedere alla benevolenza di chi scrive. Per capire che cosa sia successo di così tanto grave fra Damiani e Leone, analizziamo il contenuto della lettera.
Innanzitutto, l'autore si scaglia contro i suoi accusatori, contro quell'«antico nemico» che ha affilato le lingue dei maligni contro di lui e che, quotidianamente, si ingegna nella costruzione di nuove menzogne. Damiani è amareggiato e sorpreso perché «l'astuta capacità degli uomini» è riuscita ad ingannare anche il papa facendogli credere queste menzogne. Eppure il Signore insegna che non bisogna giudicare con troppa facilità le cose che non si conoscono. Di Sodoma e Gomorra, egli infatti dice: «Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me».
Dunque, Damiani rimprovera Leone IX per aver dato credito alle falsità sul suo conto senza verificare la loro corrispondenza con la verità e per non aver usato nei suoi confronti quella cautela che solitamente utilizza con tanta prudenza. Ma i suoi accusatori e l'«antico nemico» chi sono? Perché lo accusano?
Secondo Lucchesi, il LG avrebbe suscitato un certo scalpore sia tra il pubblico sia nell'ambiente pontificio e, quindi, in questa lettera indirizzata a Leone IX, Damiani risponderebbe alle perplessità e alle proteste mosse contro di lui[44]. In effetti, più volte nel LG, il peccato di omosessualità e il diavolo che lo istiga vengono chiamati nemici dell'uomo. Inoltre, chi meglio delle persone colpite nel LG avrebbe avuto motivo di accusarlo e di inventare menzogne contro di lui.
Damiani non ci dice di che cosa lo accusino, non sappiamo se le malignità formulate contro di lui fossero insinuazioni circa le sue tendenze sessuali oppure semplici condanne al suo stile troppo pungente e violento[45]. Sicuramente, qualche illazione sul suo orrore per il sesso e sulla sua triste visione della sessualità umana sarà stata fatta, ma nella lettera c'è un chiaro riferimento al suo carattere da temperare: « Per questo motivo, invoco e umilmente scongiuro quel testimone della mia coscienza [...] affinché subito ordini con la sua autorità che voi mi mitighiate, se lo giudica opportuno per la mia salvezza».
Un altro spunto per collegare la lettera con il LG ci è fornita dalla citazione del clamor Sodomorum et Gomorrhaeorum. Damiani dice che come Dio, prima di punire le due città, ha mandato gli angeli a constatare se le accuse mosse nei loro confronti erano fondate, così anche noi non dobbiamo credere alle malvagità se non dopo averle verificate. Dunque, Leone IX prima di dar fede alle falsità che le persone colpite nel LG avevano formulato contro Damiani, doveva accertarsi della sincerità e delle buone intenzioni che avevano mosso l'autore a denunciare il loro comportamento osceno.
Questi elementi credo che siano sufficienti per dire, in accordo con Capecelatro, che probabilmente dopo una prima reazione favorevole o, comunque, non contraria al LG, Leone IX abbia, in seguito, cambiato la sua posizione forse a causa di alcune voci maligne che aveva sentito sul conto di Damiani[46]. Questa ipotesi, inoltre, spiegherebbe anche la mancata applicazione dei provvedimenti stabiliti da Leone e l'assenza di ogni altra discussione sull'argomento, oltre che il tono arrabbiato della lettera di Damiani che forse aveva visto vanificarsi tutte le sue fatiche. Egli si difende, come già aveva fatto nel LG, affermando che non teme gli odi e le cattiverie di nessun uomo mortale perché è sicuro di aver agito per amore di Cristo e secondo la voce della sua coscienza.
In conclusione, la risposta di Leone è la risposta di un pontefice più interessato a mantenere la stabilità all'interno del clero che a punire le relazioni omosessuali. È molto significativo che Leone IX fosse in disaccordo con Damiani su questo problema perché, a detta del secondo, il papa era d'accordo che le prostitute a servizio dei preti fossero rese schiave, una punizione davvero severa per una pratica così comune[47].
4.3 Pier Damiani, Alessandro II e il furto del Liber Gomorrhianus
Papa Alessandro II (Anselmo da Baggio) fu un riformatore ardente e deciso dei costumi ecclesiastici. Egli era stato collega di Pier Damiani nella legazione del 1059, quando, per volere del papa Niccolò II, si recò a Milano per la riforma di quella Chiesa e di altre della Lombardia. Pier Damiani coadiuvò Alessandro II in ogni maniera per rafforzarlo nella sua posizione contro l'antipapa Onorio II (Cadalo, vescovo di Parma). Infatti, egli difese, nel 1061, la causa di Alessandro II davanti all'Assemblea di Augusta, e compose proprio a questo fine la Disceptatio synodalis inter regis advocatum et Romanae ecclesiae defensorem[48].
Fliche descrive Alessandro II come un uomo equilibrato, quasi timoroso e poco energico, e molto legato al suo consigliere Pier Damiani, soprattutto nei primi anni del suo pontificato[49]. In seguito, affermata la legittimità della sua elezione e rafforzato nelle sue posizioni, il papa porta avanti le idee riformatrici dei suoi predecessori, accentrando il potere ecclesiastico attorno alla Santa Sede. Anch'egli cercò di ricondurre il clero alla continenza e alla povertà, vigilando sulla rigida applicazione dei decreti pontifici sul nicolaismo e sulla sodomia. Scrivendo ai vescovi di Dalmazia, Alessandro II ordina che
Pier Damiani nacque a Ravenna nel 1007. Ebbe un'infanzia dura e dolorosa, come ci narra il suo biografo S. Giovanni da Lodi, ma non è facile riconoscere quanto vi sia di vero nel suo racconto fortemente mitizzato[1]. Affidato dapprima alle cure di una donna che viveva nella casa di un prete, fu raccolto, essendo rimasto presto orfano, da un fratello, ma non è sicuro che per questo abbia preso, in segno di riconoscenza, il cognome Damiani[2]. Studiò a Ravenna, poi a Faenza e a Parma e, fra i suoi maestri, cita un prete di nome Mainfredo e Ivo di Chartres. Iniziò la sua attività come professore nelle arti del trivio e del quadrivio, ma alcuni fatti, in cui egli vide la mano di Dio, lo persuasero a cambiare vita. Verso il 1035 entrò nell'eremo di Fonte Avellana, fondato poco prima del Mille e molto noto nel Medioevo. La sua personalità si impose subito in quel piccolo gruppo di eremiti e nel 1043 venne eletto priore. Tre anni dopo assiste all'incoronazione imperiale di Enrico III a Roma ed entra in rapporti con l'ambiente di corte. I suoi successivi contatti furono numerosi e cordialissimi: si recò più volte in Germania, l'imperatrice Agnese fu sua penitente e tentò di trattenere Enrico IV dal divorzio con Berta. Dal 1050 in poi, Damiani partecipò alla riforma ecclesiastica collaborando con gli scritti e con l'intervento personale all'energica azione riformatrice iniziata da Leone IX . Questo papa lo nominò priore del convento di Ocri e, almeno per i primi anni, intrattenne con lui un buon rapporto di amicizia. Anche sotto i pontificati di Stefano IX, di Niccolò II e di Alessandro II, Damiani godette di una posizione di primo piano tanto da venir creato, nel 1057, cardinale e vescovo di Ostia, ma Stefano IX era stato costretto a minacciarlo di scomunica per fargli accettare quella carica. In tali uffici assolse varie incombenze (ambasciatore papale a Cluny, paciere a Milano, a Firenze e in altre città) ma la vita di curia non era adatta a lui, carattere troppo aspro e spirito troppo indipendente. Dopo molte insistenze, sempre respinte, verso il 1067 ottenne finalmente di poter rinunciare all'episcopato e ritornò al chiostro, pur continuando a dare il suo aiuto nella riforma della Chiesa.
Poco prima che il suo amico Ildebrando salisse al trono papale, Pier Damiani moriva il 22 febbraio 1072 a Faenza, dove fu sepolto nella chiesa di S. Maria fuori porta.
Pier Damiani fu, dunque, innanzi tutto, un monaco, maestro di vita religiosa e soprattutto di vita eremitica, sull'esempio di S. Romualdo di cui scrisse anche la biografia[3]. Le sue opere, specialmente quelle dirette ai monaci, sono piene di concetti di quella dottrina dell'eremo, come la chiama Palazzini, formulata da Damiani stesso e rimasta poi classica: il monastero è una preparazione all'eremo, cui tutti i monaci dovrebbero tendere, come più alta forma di vita religiosa[4].
Un altro aspetto della figura di Damiani è delineato dal Blum che lo ha definito «consigliere dei Papi»; fu questo, infatti, il suo compito principale nella vita pubblica del periodo pregregoriano[5].
Damiani era afflitto dai mali della Chiesa, di cui condannò molto energicamente le manifestazioni più palesi, le cosiddette piaghe del secolo: la simonia e il nicolaismo[6]. Durante la prima metà dell'XI secolo, nel periodo in cui Damiani era priore di Fonte Avellana, ben otto papi avevano occupato successivamente, e a volte si erano disputati, la sede apostolica. Dopo la morte di Silvestro II (1003), con cui sembrava iniziato un periodo di riforma, la situazione era di nuovo precipitata nell'antica corruzione e il papato era diventato appannaggio delle grandi famiglie aristocratiche[7]. Essendo stato, quindi, spettatore di questi anni agitati e profondamente corrotti, Damiani comincia ad agire in prima persona scrivendo ed incontrando i pontefici. Iniziò con Gregorio VI, il primo papa che sembrò far sperare al mondo l'attuazione di una riforma e si tenne sempre a contatto con gli altri papi che gli succedettero, divenendo quando più quando meno, uomo di fiducia e di consiglio. Ma la vocazione a consigliere dei pontefici non era dettata da altro che dal desiderio di affrettare la riforma della Chiesa. Quest'altro aspetto della figura di Damiani, il riformatore, lo portò ad avere molteplici contatti con le più note personalità ecclesiastiche e laiche dell'epoca[8].
Egli, però, non seppe misurare, almeno in tutta l'estensione, la radice profonda del male riposta nell'investitura laica che implicava la sottomissione della Chiesa all'Impero. Anzi, Damiani era persuaso che la riforma della Chiesa poteva essere realizzata solo con l'accordo dei due poteri spirituale e temporale. Nella Disceptatio Synodalis, che compose per difendere Alessandro II dall'antipapa Onorio II, egli si propose unicamente di ricreare l'intesa tra la santa Sede e la corte germanica, senza rendersi sempre conto dell'importanza dei sacrifici accettati in vista della loro riconciliazione[9]. Infatti, Damiani, in questo suo scritto, sembra smentire il decreto del 1059 in cui Niccolò II stabiliva che l'elezione del pontefice spettava in primo luogo ai cardinali vescovi e non all'imperatore. Ammiratore dell'istituzione imperiale, come aveva funzionato al tempo di Enrico III, egli non vide fra Chiesa e Impero la possibilità di rapporti diversi da quelli fino ad allora seguiti. Di altro parere era, invece, il suo collega nelle ambascerie papali, Ildebrando da Soana, futuro Gregorio VII, che ingaggiò la lotta contro le investiture per respingere l'ingerenza dei laici nelle elezioni dei pontefici, dei vescovi e degli abati. Per Damiani la preoccupazione maggiore era di combattere strenuamente l'incontinenza e far rivivere nel clero la virtù della purezza e della castità perfetta[10].
Contro la simonia, Damiani scrisse il Liber Gratissimus in cui, pur condannando questa pratica, sosteneva che i sacramenti amministrati dai preti simoniaci conservavano la loro validità perché non era dagli uomini ma da Cristo che traevano la loro efficacia[11]. Questa posizione, però, era in disaccordo con ciò che l'autore aveva sostenuto negli scritti precedenti, in cui si era battuto fieramente contro i simoniaci. Probabilmente, Damiani cambiò il suo giudizio perché, nel frattempo, aveva saputo che anche il vescovo da cui era stato ordinato era simoniaco! Contro di lui, a causa di questo suo ripensamento, si scagliò Umberto di Silva Candida, sostenitore della tesi rigorista, il quale negò decisamente la validità del sacerdozio di Damiani.
Dopo le discussioni sollevate dal Liber Gratissimus, molto criticato nell'ambiente ecclesiastico, si verificò un certo allontanamento tra Leone IX e Pier Damiani. Ciò potrebbe essere spiegato, secondo Lucchesi, dalla posizione di Umberto di Silva Candida nella questione delle ordinazioni, poiché questi fu un cardinale molto influente su Leone IX[12]. Altri studiosi invece, come vedremo nel § 4.2, ritengono che l'allontanamento sia stato determinato dalla risposta che il papa diede a Pier Damiani riguardo al LG.
In altri opuscoli, Damiani si occupò della necessità di una vita illibata da parte dei chierici e vi espresse le sue idee sul celibato e sulla castità del clero. In particolare, egli scrisse nel De caelibatu sacerdotum (1059) un'esortazione al papa Niccolò II, che era il dedicatario dell'opuscolo, affinché esercitasse tutto il rigore dei sacri canoni contro i prelati immorali e perché deponesse quelli che violavano la castità[13]. Nella lettera inviata a Cuniberto, vescovo di Torino, e in quella indirizzata alla principessa Adelaide di Susa (1064), si scaglia contro quei chierici intemperanti che vivono velut iure matrimonii confoederentur uxoribus e rivolge un'apostrofe alle concubine degli ecclesiastici chiamandole empie tigri, arpie e vipere furiose[14].
Un altro costume del clero che Pier Damiani riteneva dovesse essere risanato molto urgentemente era la pratica dell'omosessualità. Così, fin dai primi anni della sua attività di consigliere papale, si adoperò per guarire la Chiesa da questo «male abominevole» e, a questo scopo, scrisse il Liber Gomorrhianus dedicandolo al papa Leone IX, confidando nella volontà riformatrice del pontefice[15]. In questo opuscolo, che costituisce l'oggetto del nostro lavoro e che, quindi, studieremo approfonditamente nei prossimi paragrafi, Damiani fa un'analisi particolareggiata di questa terribile colpa, usando termini arditi e severi.
Comunque Damiani, nonostante la grande opera di riforma che intraprese, sentì sempre la nostalgia per la vita eremitica, tant'è che, come abbiamo visto, negli ultimi anni della sua vita, volle tornare al suo amato eremo di Fonte Avellana, rinunciando alla sede di Ostia.
Dante colloca Pier Damiani nel settimo cielo fra i contemplativi e lo mostra nella sua veste di fiero fustigatore della dilagante corruzione ecclesiastica e come spirito innamorato della vita eremitica[16]. Egli aveva un carattere ardente, nonostante il continuo sforzo di vincersi, un po' ombroso, tanto da essere paragonato a San Girolamo. Per usare le parole di P. Brezzi, «[...] in lui vi era una assoluta purezza d'intenzione, elevatezza morale, noncuranza dei mezzi termini, fervore inesauribile, forza di convinzione»[17].
4.1 Il ruolo del Liber Gomorrhianus nella riforma del clero
Pier Damiani scrisse il LG intorno alla seconda metà del 1049[18]. Il libro è la prima delle opere dell'autore che censura gli abusi sessuali degli ecclesiastici e, nello stesso tempo, come dice Brundage, è «l'espressione più esplicita contro la sessualità deviante di tutta la letteratura del periodo riformatore»[19].
Bailey definisce il LG una «composizione straordinaria» e, sotto alcuni punti di vista, «l'asserzione medievale più importante sul soggetto dell'omosessualità»[20]. Infatti, prima di Damiani, nessuno aveva affrontato in modo sistematico il problema dell'omosessualità e, soprattutto, nessuno aveva mai denunciato apertamente l'esistenza di questa pratica in ambiente ecclesiastico. Damiani che, come abbiamo visto, desiderava ardentemente promuovere l'attività riformatrice dei pontefici, soprattutto al fine di restaurare la disciplina nella gerarchia ecclesiastica, volle dimostrare quanto fosse urgente risanare i costumi del clero. Così, nel LG, si scaglia contro il dilagare in nostris partibus del quadruplice vizio contro natura, ne analizza i vari tipi di comportamento e le situazioni in cui questi vengono compiuti proponendo un'unica drastica soluzione: tutti gli ecclesiastici colpevoli di qualsiasi atto omosessuale devono essere immediatamente degradati, a qualunque grado essi appartengano. Damiani ritiene «completamente assurdo che quelli che si macchiano abitualmente con questa malattia purulenta osino entrare nell'ordine o rimanere nel loro grado [...] perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri»[21]. Comunque, egli aggiunge, «non affermo questo come pretesto per proporre una bozza di sentenza definitiva [...], ma semplicemente per spiegare la mia opinione a riguardo». Egli non prevede attenuanti anzi, rispetto all'opinione comune sulla gravità delle varie pratiche, Damiani formula un giudizio ancora più severo considerando anche la masturbazione fra gli atti innaturali e, forse, benché non lo dica esplicitamente, anche la fellatio. Damiani non assegna penitenze, non commina né digiuni, né preghiere, nessuna pena sarebbe mai sufficientemente pesante per l'espiazione di una colpa così abominevole. Se i peccatori in questione fossero dei laici, sicuramente li redarguirebbe con decisione e con durezza, ma impartirebbe loro una penitenza per riavvicinarsi a Dio e per ricevere il perdono. Ma qui gli scellerati sono dei sacerdoti, sono dei ministri del Signore! A costoro non deve più essere permesso di toccare il corpo e il sangue di Cristo, le loro mani sono sudicie e indegne. Per questi ecclesiastici nient'altro deve essere previsto se non la degradazione e l'allontanamento dall'ordine.
Damiani, anche se ammette una certa gradualità nelle colpe omosessuali, punisce la masturbazione, il rapporto interfemorale e la penetrazione anale nello stesso modo. «Perciò egli dice non si deve rallegrare colui che non pecca con un altro, se da solo cade nelle lussuriose contaminazioni dell'adescamento»[22]. Per questa sua severità e intransigenza, o come la chiama Brundage, ossessione, questo opuscolo di Damiani costituisce un unicum nella letteratura medievale cristiana[23]. Credo, però, che sia più giusto dire che è la materia trattata, l'analisi dettagliata dei fatti e la drastica condanna in esso pronunciata che rendono il LG il primo vero documento decisamente contro l'omosessualità.
Secondo Payer il LG fu «il primo di una lunga serie di trattati e contro trattati sulla materia che avrebbero caratterizzato il movimento di riforma fino alla fine del secolo»[24]. A questo riguardo, bisogna precisare che, prima di Damiani, si trovano numerosi riferimenti all'omosessualità, ma tutti sono contenuti nei penitenziali o nelle collezioni canoniche che, come abbiamo visto, non si possono di certo considerare dei trattati. Dopo Damiani, anche i canonisti del periodo gregoriano si interessarono alle questioni sollevate dal LG. Il Decretum di Ivo di Chartres, per esempio, contiene numerosi canoni che condannano la sodomia, la bestialità, la pederastia e la fellatio e per queste colpe sono previste anche pene più severe rispetto agli altri peccati, ma egli attinge queste prescrizioni dalle raccolte canoniche precedenti[25]. Nei penitenziali non si discute del problema dell'omosessualità, di quanto detestabile sia questa colpa e di come venga commessa, in essi ogni questione è studiata in relazione alla penitenza più giusta da imporre, non viene esaminata la radice del peccato come ha fatto Damiani. Credo, quindi, che si possa dire con sicurezza che, almeno nel primo Medioevo, non furono scritti sull'omosessualità altri trattati di una certa estensione paragonabili al LG.
Boswell fa riferimento a Damiani inserendolo in quel «piccolo e rumoroso gruppo di asceti» che risvegliò la violenta ostilità di Crisostomo il quale affermava che gli atti omosessuali non solo erano peccaminosi, ma così gravi da essere paragonati più all'assassinio che alla golosità o alla fornicazione[26]. Per tutto il periodo della riforma questi uomini, continua Boswell, «lottarono per interessare la Chiesa istituzionale alla loro crociata, per cambiare le opinioni della gente e dei teologi in materia». Le autorità ecclesiastiche non stabilirono mai delle punizioni per il comportamento omosessuale e finsero di non sentire quelle poche lamentele che ricevevano dai riformatori. Oltre a Damiani che cercò, con scarso successo, di interessare al problema Leone IX e Alessandro II,[27] lo stesso Ivo di Chartres denunciò a papa Urbano II, il pontefice che promosse la prima crociata, i nomi di alcuni prelati altolocati che erano ben conosciuti per essere coinvolti in attività omosessuali, ma anche la sua protesta cadde nel vuoto[28]. Quasi certamente nello stesso tempo, si cercò di introdurre in Inghilterra una legislazione ecclesiastica che definiva peccaminoso il comportamento omosessuale[29]. Il concilio di Londra del 1102 prese delle misure per far sì che il pubblico venisse informato della scorrettezza di tali atti e insistette perché la sodomia venisse confessata come peccato. Sant'Anselmo di Canterbury si oppose alla pubblicazione del decreto e in una lettera all'arcidiacono Guglielmo, disse: questo peccato è stato finora così comune che difficilmente si prova imbarazzo per esso e, perciò, molti sono caduti in tale peccato perché erano inconsapevoli della sua gravità[30].
Boswell sottolinea giustamente che questa indifferenza della Chiesa istituzionale al comportamento omosessuale è ancora più straordinario perché fu proprio durante questo periodo che furono fatti i più strenui sforzi per rinvigorire il celibato ecclesiastico. Intanto, un altro gruppo all'interno della Chiesa cominciò a sostenere «il valore positivo delle relazioni omosessuali e le celebrò in una esplosione di letteratura gay cristiana» basata sull'esempio dell'amicizia fra Gesù e Giovanni[31].
In questo contesto, quindi, senza alcun dubbio, il LG riveste un ruolo unico e particolare che sembra preludere all'intolleranza che nascerà nel XIII secolo e che punirà l'omosessualità anche con la pena di morte[32].
Lucchesi ha individuato un'altra novità importante contenuta nel LG rispetto agli altri lavori precedenti. Fu scritto per essere sottoposto all'autorità del papa e riceverne conferma, ma anche per essere presentato all'attenzione di un sinodo: dum plurimorum consensu et iudicio res geritur[33]. Dunque, Damiani non solo chiede al papa di approvare con una sua decretali pagina le punizioni che egli propone per i colpevoli, ma pensa anche di offrire materiale di lavoro ad un prossimo sinodo, e cioè prepara un prossimo sinodo[34].
Evidentemente Damiani riponeva molta fiducia in Leone IX, ma questi, come vedremo nel prossimo capitolo, tempera alquanto la severità del provvedimento proposto dall'autore e, a quanto pare, nessun concilio discusse mai il problema dell'omosessualità.
4.2 Pier Damiani e Leone IX
Leone IX (1049-1054) fu il primo papa pellegrino della storia, fu quello che venne a Roma in abiti da viandante e che nel suo breve pontificato visitò quasi tutta l'Europa cristiana. Egli seppe circondarsi di insigni personalità. Infatti, fu allora che Ildebrando lasciò definitivamente il monastero per porsi ai fianchi del papa e che vennero a Roma Umberto di Silva Candida, l'alter ego di Leone IX, Federico di Lorena, futuro Stefano IX, et ex Ravennatium partibus Petrus Damianus vir eloquentissimus[35].
Leone IX fu il primo vero papa riformatore. Nei sinodi tenutisi sotto il suo pontificato dichiarò guerra alla simonia e all'incontinenza del clero[36]. Pier Damiani partecipò personalmente a ciascuno di questi sinodi e spesso le sue testimonianze sono le uniche pervenuteci circa i problemi discussi in tali assemblee. Nelle lettere contro i sacerdoti intemperanti, Damiani parla di un interdictum papae Leonis e di un decreto dello stesso pontefice contro le prostitute dei preti, entrambi emanati durante il sinodo dell'aprile del 1049[37]. Damiani, non contento di quanto veniva discusso e decretato dal sinodo, cercò di lavorare per conto suo su certe problematiche che gli stavano particolarmente a cuore. E fu così che iniziò a concretizzare la sua opera a favore della Chiesa componendo il Liber Gomorrhianus e dedicandolo, come abbiamo visto, allo stesso Leone IX.
In risposta al LG, il pontefice scrive a Pier Damiani una cortese lettera di apprezzamento per il libello che gli ha inviato e lo rassicura di aver dimostrato a se stesso di essere un nemico della contaminazione della carne[38]. Ne gradisce lo stile franco e il ragionamento sincero che, indiscutibilmente, lo rendono degno di combattere la lotta conto i peccati dalla parte della giustizia.
Anche Leone condanna questo vizio, questo «desiderio osceno» che allontana dalla virtù cristiana chiunque lo commetta e che, a maggior ragione, è detestabile se compiuto da dei sacerdoti: «come può uno essere ecclesiastico o chiamarsi tale, quando non ha temuto di macchiarsi di sua propria volontà?» Proprio i ministri del Signore che «avrebbero potuto chiamarsi non solo tempio sacro di Dio, ma anche il santuario in cui l'Agnello di Dio è stato immolato in splendida gloria», proprio loro conducono una vita tanto disgustosa.
Quindi, Leone approva la punizione che Damiani ha previsto per questi peccatori, perché è in accordo non solo con l'autorità dei sacri canoni ma anche con il giudizio del papa stesso (nostro iudicio). Egli definisce il tono pungente di Damiani «santa indignazione» e lo rassicura circa la validità delle sue affermazioni. Tuttavia, Leone IX ritiene opportuno imporre la sua autorità apostolica, come lo stesso Damiani aveva chiesto, in modo «da rimuovere ogni scrupoloso dubbio a quelli che leggono».
Dunque, sebbene l'autorità sacra preveda l'espulsione per coloro che si sono macchiati in uno qualsiasi dei quattro modi enumerati da Damiani, «noi dice Leone IX agiremo più umanamente». Egli, infatti, desidera e ordina che gli ecclesiastici non coinvolti in tali attività «da lunga abitudine o con molti uomini» rimangano nello stesso grado che occupavano quando erano stati dichiarati colpevoli, e che solo quelli in stato particolarmente peccaminoso vengano degradati dal loro rango. In particolare, chi ha peccato nei primi tre modi masturbazione solitaria, masturbazione reciproca e coito interfemorale dopo un periodo di penitenza, può ritornare al grado ecclesiastico che ricopriva prima. Ma non c'è speranza di recuperare la carica per chi ha peccato in questo stesso modo ma per lungo tempo oppure per poco tempo ma con molti uomini. La stessa sorte spetta a quelli che si sono uniti mediante la penetrazione anale poiché hanno commesso il delitto più grave ed impronunciabile.
Leone IX entra in merito alla gravità degl'atti omosessuali seguendo accuratamente la classificazione di Damiani e stabilendo una specie di gradualità fra i diversi comportamenti. Tale distinzione sembra soddisfare la richiesta, formulata da Damiani nel LG, di stabilire «chi, tenendo conto, certamente, della diversità [dei peccati], possa ricoprire misericordiosamente questo ufficio»[39]. Nonostante ciò, le sue precisazioni rimangono molto vaghe, sembra che volutamente lasci imprecisato che cosa intenda con abitudine e con pochi o molti uomini, come se volesse fornire degli appigli per gli accusati.
Nelle parole di Leone si legge chiaramente un atteggiamento molto tollerante. Da un lato, sembra voler accontentare Damiani comminando la degradazione laddove la gravità del peccato sia proprio innegabile. Dall'altro lato, non si inasprisce contro i peccatori ma, anzi, usa un tono comprensivo, sed nos humanius agentes. Leone IX non giustifica la sua affermazione, la impone (volumus, atque etiam iubemus) e il tono, nel seguito della lettera, non cambia. Egli attribuisce al suo scritto la validità di un decreto: «Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica».
Bailey, che sembra sia stato influenzato da K.H. Mann, ha interpretato questa frase come un ammonimento per Pier Damiani[40]. Al contrario Boswell dice in modo un po' confuso, che non si tratta affatto di una minaccia diretta a Piero[41]. Questo ammonimento viene chiarito dalla frase successiva in cui Leone aggiunge che «chi non commette il vizio ma lo incoraggia, costui è, giustamente, considerato colpevole di morte al pari di chi muore nel peccato». Ma, chi è che incoraggia il vizio? Colui che non lo vuole estirpare, che non lo vuole punire e che quindi è pronto a criticare le disposizioni di Leone.
L'affermazione, a mio avviso, non si riferisce direttamente a Pier Damiani ma a quelli che avrebbero preferito cancellare il decreto di Leone, quindi, con tutta probabilità agli accusati, cioè ai preti omosessuali. Tuttavia è implicito che questo sia un monito rivolto anche a Damiani che, desiderando un intervento più severo da parte del papa, avrebbe potuto protestare contro un provvedimento invece così comprensivo
È chiaro che Leone non è molto ben disposto verso il LG, i complimenti che rivolge a Damiani sono frasi di circostanza, lo saluta come un paladino della giustizia e lo premia con l'augurio della grazia eterna, ma, poco prima, gli dice «hai scritto ciò che sembrava meglio per te» sottintendendo che le sue opinioni personali non erano necessariamente identiche a quelle di Damiani.
Non bisogna dimenticare che Damiani aveva chiesto a Leone di scrivere una pagina decretali, di radunare degli «uomini spirituali e prudenti per compiere questo necessario esame» e per togliere, così, ogni dubbio dal suo cuore. Questa richiesta però non fu accolta da Leone IX. Infatti, non solo la risposta del papa non può essere considerata un decreto conciliare, ma non risulta nemmeno che in qualche concilio se ne sia discusso. Le testimonianze dei sinodi di Leone ci parlano di numerosi interventi contro la simonia o il matrimonio ecclesiastico, ma non contro l'omosessualità.
Come abbiamo detto, durante gli ultimi anni del pontificato di Leone IX, fra i due si verificò un certo allontanamento[42]. Bailey e Mann, che hanno frainteso le parole di Leone, ipotizzano che il diverbio fra i due sia stato provocato proprio dalla risposta del papa a Damiani. Ma, come dice Boswell, la prova di tale allontanamento deve essere ricercata in un'altra lettera che Damiani scrive a Leone IX tra il 1050 e il 1054[43].
Questa lettera mostra chiaramente che fra i due c'era stata una rottura abbastanza netta, perché Damiani dice in modo esplicito di volersi riconciliare con Leone IX e di essere pronto a fare ulteriori penitenze per meritarlo. Nello stesso tempo, l'autore non risparmia battute pungenti per Leone: è doveroso credere che Dio abiti nel suo cuore e che lo convinca a cedere alla benevolenza di chi scrive. Per capire che cosa sia successo di così tanto grave fra Damiani e Leone, analizziamo il contenuto della lettera.
Innanzitutto, l'autore si scaglia contro i suoi accusatori, contro quell'«antico nemico» che ha affilato le lingue dei maligni contro di lui e che, quotidianamente, si ingegna nella costruzione di nuove menzogne. Damiani è amareggiato e sorpreso perché «l'astuta capacità degli uomini» è riuscita ad ingannare anche il papa facendogli credere queste menzogne. Eppure il Signore insegna che non bisogna giudicare con troppa facilità le cose che non si conoscono. Di Sodoma e Gomorra, egli infatti dice: «Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me».
Dunque, Damiani rimprovera Leone IX per aver dato credito alle falsità sul suo conto senza verificare la loro corrispondenza con la verità e per non aver usato nei suoi confronti quella cautela che solitamente utilizza con tanta prudenza. Ma i suoi accusatori e l'«antico nemico» chi sono? Perché lo accusano?
Secondo Lucchesi, il LG avrebbe suscitato un certo scalpore sia tra il pubblico sia nell'ambiente pontificio e, quindi, in questa lettera indirizzata a Leone IX, Damiani risponderebbe alle perplessità e alle proteste mosse contro di lui[44]. In effetti, più volte nel LG, il peccato di omosessualità e il diavolo che lo istiga vengono chiamati nemici dell'uomo. Inoltre, chi meglio delle persone colpite nel LG avrebbe avuto motivo di accusarlo e di inventare menzogne contro di lui.
Damiani non ci dice di che cosa lo accusino, non sappiamo se le malignità formulate contro di lui fossero insinuazioni circa le sue tendenze sessuali oppure semplici condanne al suo stile troppo pungente e violento[45]. Sicuramente, qualche illazione sul suo orrore per il sesso e sulla sua triste visione della sessualità umana sarà stata fatta, ma nella lettera c'è un chiaro riferimento al suo carattere da temperare: « Per questo motivo, invoco e umilmente scongiuro quel testimone della mia coscienza [...] affinché subito ordini con la sua autorità che voi mi mitighiate, se lo giudica opportuno per la mia salvezza».
Un altro spunto per collegare la lettera con il LG ci è fornita dalla citazione del clamor Sodomorum et Gomorrhaeorum. Damiani dice che come Dio, prima di punire le due città, ha mandato gli angeli a constatare se le accuse mosse nei loro confronti erano fondate, così anche noi non dobbiamo credere alle malvagità se non dopo averle verificate. Dunque, Leone IX prima di dar fede alle falsità che le persone colpite nel LG avevano formulato contro Damiani, doveva accertarsi della sincerità e delle buone intenzioni che avevano mosso l'autore a denunciare il loro comportamento osceno.
Questi elementi credo che siano sufficienti per dire, in accordo con Capecelatro, che probabilmente dopo una prima reazione favorevole o, comunque, non contraria al LG, Leone IX abbia, in seguito, cambiato la sua posizione forse a causa di alcune voci maligne che aveva sentito sul conto di Damiani[46]. Questa ipotesi, inoltre, spiegherebbe anche la mancata applicazione dei provvedimenti stabiliti da Leone e l'assenza di ogni altra discussione sull'argomento, oltre che il tono arrabbiato della lettera di Damiani che forse aveva visto vanificarsi tutte le sue fatiche. Egli si difende, come già aveva fatto nel LG, affermando che non teme gli odi e le cattiverie di nessun uomo mortale perché è sicuro di aver agito per amore di Cristo e secondo la voce della sua coscienza.
In conclusione, la risposta di Leone è la risposta di un pontefice più interessato a mantenere la stabilità all'interno del clero che a punire le relazioni omosessuali. È molto significativo che Leone IX fosse in disaccordo con Damiani su questo problema perché, a detta del secondo, il papa era d'accordo che le prostitute a servizio dei preti fossero rese schiave, una punizione davvero severa per una pratica così comune[47].
4.3 Pier Damiani, Alessandro II e il furto del Liber Gomorrhianus
Papa Alessandro II (Anselmo da Baggio) fu un riformatore ardente e deciso dei costumi ecclesiastici. Egli era stato collega di Pier Damiani nella legazione del 1059, quando, per volere del papa Niccolò II, si recò a Milano per la riforma di quella Chiesa e di altre della Lombardia. Pier Damiani coadiuvò Alessandro II in ogni maniera per rafforzarlo nella sua posizione contro l'antipapa Onorio II (Cadalo, vescovo di Parma). Infatti, egli difese, nel 1061, la causa di Alessandro II davanti all'Assemblea di Augusta, e compose proprio a questo fine la Disceptatio synodalis inter regis advocatum et Romanae ecclesiae defensorem[48].
Fliche descrive Alessandro II come un uomo equilibrato, quasi timoroso e poco energico, e molto legato al suo consigliere Pier Damiani, soprattutto nei primi anni del suo pontificato[49]. In seguito, affermata la legittimità della sua elezione e rafforzato nelle sue posizioni, il papa porta avanti le idee riformatrici dei suoi predecessori, accentrando il potere ecclesiastico attorno alla Santa Sede. Anch'egli cercò di ricondurre il clero alla continenza e alla povertà, vigilando sulla rigida applicazione dei decreti pontifici sul nicolaismo e sulla sodomia. Scrivendo ai vescovi di Dalmazia, Alessandro II ordina che
un vescovo, un prete o un diacono che prendono moglie o conservano quella che hanno già, dovranno essere deposti, abbandonare il coro e non percepire rendite ecclesiastiche fino a completa resipiscenza[50].
Egli impone ai preti fornicatori la rigida proibizione di assistere alla Messa e ordina pene severe per quelli che osano vendere o comprare un ordine sacro, o un bene della Chiesa, ugualmente sacro: nella Chiesa di Dio nulla può essere venduto, né i beni né, a maggior ragione, i sacramenti[51]. Perciò, nulla vien cambiato nelle direttive apostoliche riguardanti la riforma della Chiesa: la legislazione precedente rimane rigorosamente in vigore.
Però, proprio Alessandro II che sosteneva con tanto vigore la riforma e che, come abbiamo detto, riceveva spesso consigli ed aiuti da Pier Damiani sembra che abbia addirittura cercato di sopprimere il LG.
In una lettera, indirizzata ai suoi due alleati curiali, i cardinali Stefano e Ildebrando (futuro Gregorio VII), Pier Damiani racconta che il papa gli aveva chiesto in prestito il manoscritto di un suo lavoro col pretesto di volerne avere una copia ad uso personale[52]. Durante la notte, però, Alessandro II chiude a chiave il manoscritto in un cassetto e, in seguito, si rifiuta di ridarlo all'autore. Damiani, che nella lettera racconta l'episodio ai due cardinali, si dice offeso da questo furto e si lamenta a lungo con toni infuriati e appassionati contro il comportamento del papa.
L.K. Little ritiene con certezza che il libro in questione sia il LG e questa tesi, sostenuta per primo da A. Capecelatro, è ritenuta corretta anche da J. Boswell e J. Brundage[53]. N. Tamassia, che si è occupato dell'aspetto legale di questa lamentela di Damiani, commenta come segue la lettera:
Però, proprio Alessandro II che sosteneva con tanto vigore la riforma e che, come abbiamo detto, riceveva spesso consigli ed aiuti da Pier Damiani sembra che abbia addirittura cercato di sopprimere il LG.
In una lettera, indirizzata ai suoi due alleati curiali, i cardinali Stefano e Ildebrando (futuro Gregorio VII), Pier Damiani racconta che il papa gli aveva chiesto in prestito il manoscritto di un suo lavoro col pretesto di volerne avere una copia ad uso personale[52]. Durante la notte, però, Alessandro II chiude a chiave il manoscritto in un cassetto e, in seguito, si rifiuta di ridarlo all'autore. Damiani, che nella lettera racconta l'episodio ai due cardinali, si dice offeso da questo furto e si lamenta a lungo con toni infuriati e appassionati contro il comportamento del papa.
L.K. Little ritiene con certezza che il libro in questione sia il LG e questa tesi, sostenuta per primo da A. Capecelatro, è ritenuta corretta anche da J. Boswell e J. Brundage[53]. N. Tamassia, che si è occupato dell'aspetto legale di questa lamentela di Damiani, commenta come segue la lettera:
Questa lettera non può non avere carattere giocoso. Si sa che gli autori sono felici, quando sono vittime di questi furti, e Pier Damiani, per quanto se ne dolesse apparentemente, restava sempre un retore [...] non ignaro che tutti attendevano i suoi scritti con una certa ansietà[54].
Secondo J.J Ryan, la lamentela di Damiani non è un gioco retorico, la sua preoccupazione sembra abbastanza reale. Egli ritiene però che il LG non abbia nulla a che fare con l'incidente raccontato nella suddetta epistola perché, a suo avviso, è molto improbabile che Pier Damiani avesse con sé, a Roma, il LG quindici anni dopo la sua composizione, cosa che, invece, non esclude Boswell visto che l'autore cercava ancora di interessare il papato alla riforma di tali questioni[55].
Ryan cerca di dimostrare che il libro in questione è un'altra opera di Damiani ma fornisce poche prove a sostegno della sua ipotesi[56] e non dà peso all'affettuosa descrizione del volume sottratto che, secondo Boswell, è applicabile solo al LG.
In effetti, Pier Damiani descrive questo suo libro come un figlio, come quell'unicum filium (quindi ancora più prezioso per la sua unicità) che aveva stretto a sé con il dolce abbraccio di un genitore, che gli era costato tanta fatica e che aveva quasi strappato alla povertà del suo misero ingegno. L'autore si esprime con toni affettuosi come se parlasse di una persona cara e cerca di rendere partecipi gli amici Stefano ed Ildebrando del suo rammarico e del suo risentimento per il furto subito, triste ricompensa per il duro lavoro. Inoltre, l'atteggiamento canzonatorio ed evasivo del papa infastidisce ulteriormente Damiani che non esita a paragonare il pontefice ad un pazzo «che scaglia tizzoni e frecce di morte» e che poi si giustifica dicendo che era uno scherzo. Se Alessandro ritiene, come dimostra con il suo comportamento, che il sacerdote sia un attore, allora anche Damiani si sente autorizzato a giocare e a scherzare con il nome del papa, formulando così una serie di velate minacce circa il suo possibile destino. Infatti, Alessandro II porta lo stesso nome di quel pontefice che fu flagellato e di quel ramaio, avido di denaro, che S. Paolo affida al Signore perché lo punisca secondo le sue opere.
Inoltre, Damiani ricorda al papa l'aiuto che gli prestò contro Cadalo e tutte le tribolazioni che dovette sopportare a servizio unicamente della sede apostolica. Perché dopo tante pene, per le quali merita di certo la beatitudine, deve subire l'oltraggio del furto e, per giunta, da parte di una persona che credeva amica?
Queste parole così pungenti non sono certamente una finzione letteraria, Damiani è veramente dispiaciuto per la perdita del suo amico codice.
Ma l'indignazione dell'autore era dovuta solamente all'atteggiamento irrispettoso e canzonatorio del papa, al fatto che gli aveva sottratto il libro con un sotterfugio e che non si decideva a restituirglielo, oppure il libro aveva un valore particolare per Damiani? Che cosa implicava il furto di questo suo lavoro? Egli non ci fornisce nessun elemento per rispondere a queste domande e per stabilire con certezza quale sia il libro rubato. È chiaro, comunque, che l'affronto ricevuto dal papa è il motivo principale della reazione di Damiani. Ma, forse, senza forzare troppo l'interpretazione della lettera, si possono formulare altre ipotesi quali, ad esempio, che si trattasse dell'unica copia in suo possesso e che, quindi, il furto significasse per Damiani la perdita irreparabile di un suo intero lavoro[57]. Oppure che l'argomento in esso trattato fosse particolarmente importante per Damiani, come si legge fra le righe della sua affettuosa descrizione del manoscritto e nei ripetuti solleciti che egli fa al papa per riavere il suo libro. Ma queste ipotesi non sono sufficienti, benché Boswell dica il contrario, per identificare il libro in questione con il LG[58]. C'è un altro elemento però da prendere in considerazione e che, a mio avviso, è determinante per la comprensione della lettera. Damiani, dopo aver ricordato al papa di essersi comportato come i Daniti che rubarono tutti gli averi di Mica, lo prega di non allontanare da sé il misero autore di quel libro a causa di «un incidente di così poco conto»[59]. È difficile stabilire a che cosa si riferisca Damiani ma di certo sottintende un fatto spiacevole legato all'opera in questione. Era stato l'argomento discusso nel libro o forse qualche considerazione dell'autore ad aver provocato un incidente, ad aver suscitato del malcontento o delle reazioni negative? Neanche questo possiamo sapere con certezza. Se però interpretiamo il fatto spiacevole come una qualche reazione negativa nei confronti di un suo lavoro, allora quasi certamente possiamo identificare l'amico codice con il LG. Nessun'altra opera di Damiani, infatti, ricevette delle critiche così forti come quelle seguite al LG, tali da indurlo a difendersi tenacemente come ha fatto nella lettera inviata a Leone IX.
A questo poi si deve aggiungere che non era nelle intenzioni di Damiani dare quel lavoro ad Alessandro «sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo» , ma perché allora lo aveva con sé? Forse voleva solamente chiedergli un parere sulla qualità del suo componimento, forse voleva provare nuovamente, come aveva fatto con Leone IX, a proporre dei severi provvedimenti contro l'omosessualità del clero.
Se accettiamo l'ipotesi che la lettera parli veramente del LG, allora ci dobbiamo chiedere che cosa indusse Alessandro II, che pure sosteneva con forza la riforma della Chiesa, a nascondere quel libro anziché usarlo come spunto per legiferare contro le immoralità del clero. Forse perché era troppo violento e diretto o perché proponeva sanzioni troppo pesanti. Boswell sembra insinuare che lo stesso Alessandro II avesse delle ragioni personali che lo spingevano a tale gesto, poiché era allievo di Lanfranco di Pavia, famoso per il suo attaccamento ai giovani monaci[60]. Senza alcun dubbio, comunque, Alessandro II considerava il LG scomodo e forse temeva, visto i precedenti, le reazioni che avrebbe potuto suscitare.
Dopo questa ultima vicissitudine, non sappiamo quale sia stata la storia del LG. Secondo J. Brundage, che a sua volta utilizza il pensiero di Little, Pier Damiani, nella lettera ai due cardinali, implorerebbe con successo, i due amici di recuperare il LG e di restituirlo al suo autore[61]. In questa lettera, però, non c'è traccia di una simile richiesta. Anzi, Pier Damiani coinvolge molto poco Ildebrando e Stefano: a loro indirizza la lettera e a loro chiede una penitenza per le dure parole pronunciate contro il papa. A parte questi due chiari riferimenti, il testo della lettera sembra rivolgersi ad un pubblico molto più vasto a cui Damiani sfoga la sua amarezza per l'ingiustizia subita.
4.4 Un libro scomodo
Dopo aver preso in esame le varie ipotesi circa la storia del LG, a partire dal motivo che indusse Damiani a comporlo fino agli insuccessi subiti, prima con Leone IX e poi con Alessandro II, siamo giunti alla conclusione che la Chiesa dell'XI secolo cercò in tutti i modi di evitare la discussione circa la pratica omosessuale in ambiente ecclesiastico. Inoltre, l'indifferenza della Chiesa istituzionale è ancora più straordinaria se paragonata all'accanimento con cui impose il celibato ecclesiastico[62]. I cento anni successivi al 1050, infatti, rappresentarono il culmine del prestigio morale papale e un periodo di riforma e di vigore spirituali senza confronto nel cattolicesimo romano.
Per questi motivi, come dice Boswell, «è difficile dimostrare che l'indifferenza verso la sessualità gay fosse semplicemente conseguenza di apatia»[63]. Probabilmente la denuncia e la condanna dei rapporti omosessuali fra ecclesiastici avrebbe coinvolto troppe personalità insigni del tempo, e forse proprio quelle che con più tenacia condannavano la corruzione e il malcostume. Come per la simonia, contro cui si dovettero moderare i provvedimenti a causa della vasta diffusione del problema, così anche per la pratica dell'omosessualità un intervento decisivo, come quello di Damiani, avrebbe allontanato dagli ordini o degradato molti ecclesiastici.
D'altra parte, Boswell dimostra in maniera abbastanza verosimile che c'era più di una relazione casuale tra la sessualità gay e alcune riforme effettuate durante questo secolo. Egli riporta delle testimonianze in cui i preti omosessuali vengono accusati di essere più desiderosi degli eterosessuali di rinvigorire le proibizioni contro i matrimoni ecclesiastici[64]. Una satira contro un vescovo riformatore lo accusa specificamente di essere ostile al matrimonio ecclesiastico proprio a causa delle sue inclinazioni omosessuali:
Ryan cerca di dimostrare che il libro in questione è un'altra opera di Damiani ma fornisce poche prove a sostegno della sua ipotesi[56] e non dà peso all'affettuosa descrizione del volume sottratto che, secondo Boswell, è applicabile solo al LG.
In effetti, Pier Damiani descrive questo suo libro come un figlio, come quell'unicum filium (quindi ancora più prezioso per la sua unicità) che aveva stretto a sé con il dolce abbraccio di un genitore, che gli era costato tanta fatica e che aveva quasi strappato alla povertà del suo misero ingegno. L'autore si esprime con toni affettuosi come se parlasse di una persona cara e cerca di rendere partecipi gli amici Stefano ed Ildebrando del suo rammarico e del suo risentimento per il furto subito, triste ricompensa per il duro lavoro. Inoltre, l'atteggiamento canzonatorio ed evasivo del papa infastidisce ulteriormente Damiani che non esita a paragonare il pontefice ad un pazzo «che scaglia tizzoni e frecce di morte» e che poi si giustifica dicendo che era uno scherzo. Se Alessandro ritiene, come dimostra con il suo comportamento, che il sacerdote sia un attore, allora anche Damiani si sente autorizzato a giocare e a scherzare con il nome del papa, formulando così una serie di velate minacce circa il suo possibile destino. Infatti, Alessandro II porta lo stesso nome di quel pontefice che fu flagellato e di quel ramaio, avido di denaro, che S. Paolo affida al Signore perché lo punisca secondo le sue opere.
Inoltre, Damiani ricorda al papa l'aiuto che gli prestò contro Cadalo e tutte le tribolazioni che dovette sopportare a servizio unicamente della sede apostolica. Perché dopo tante pene, per le quali merita di certo la beatitudine, deve subire l'oltraggio del furto e, per giunta, da parte di una persona che credeva amica?
Queste parole così pungenti non sono certamente una finzione letteraria, Damiani è veramente dispiaciuto per la perdita del suo amico codice.
Ma l'indignazione dell'autore era dovuta solamente all'atteggiamento irrispettoso e canzonatorio del papa, al fatto che gli aveva sottratto il libro con un sotterfugio e che non si decideva a restituirglielo, oppure il libro aveva un valore particolare per Damiani? Che cosa implicava il furto di questo suo lavoro? Egli non ci fornisce nessun elemento per rispondere a queste domande e per stabilire con certezza quale sia il libro rubato. È chiaro, comunque, che l'affronto ricevuto dal papa è il motivo principale della reazione di Damiani. Ma, forse, senza forzare troppo l'interpretazione della lettera, si possono formulare altre ipotesi quali, ad esempio, che si trattasse dell'unica copia in suo possesso e che, quindi, il furto significasse per Damiani la perdita irreparabile di un suo intero lavoro[57]. Oppure che l'argomento in esso trattato fosse particolarmente importante per Damiani, come si legge fra le righe della sua affettuosa descrizione del manoscritto e nei ripetuti solleciti che egli fa al papa per riavere il suo libro. Ma queste ipotesi non sono sufficienti, benché Boswell dica il contrario, per identificare il libro in questione con il LG[58]. C'è un altro elemento però da prendere in considerazione e che, a mio avviso, è determinante per la comprensione della lettera. Damiani, dopo aver ricordato al papa di essersi comportato come i Daniti che rubarono tutti gli averi di Mica, lo prega di non allontanare da sé il misero autore di quel libro a causa di «un incidente di così poco conto»[59]. È difficile stabilire a che cosa si riferisca Damiani ma di certo sottintende un fatto spiacevole legato all'opera in questione. Era stato l'argomento discusso nel libro o forse qualche considerazione dell'autore ad aver provocato un incidente, ad aver suscitato del malcontento o delle reazioni negative? Neanche questo possiamo sapere con certezza. Se però interpretiamo il fatto spiacevole come una qualche reazione negativa nei confronti di un suo lavoro, allora quasi certamente possiamo identificare l'amico codice con il LG. Nessun'altra opera di Damiani, infatti, ricevette delle critiche così forti come quelle seguite al LG, tali da indurlo a difendersi tenacemente come ha fatto nella lettera inviata a Leone IX.
A questo poi si deve aggiungere che non era nelle intenzioni di Damiani dare quel lavoro ad Alessandro «sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo» , ma perché allora lo aveva con sé? Forse voleva solamente chiedergli un parere sulla qualità del suo componimento, forse voleva provare nuovamente, come aveva fatto con Leone IX, a proporre dei severi provvedimenti contro l'omosessualità del clero.
Se accettiamo l'ipotesi che la lettera parli veramente del LG, allora ci dobbiamo chiedere che cosa indusse Alessandro II, che pure sosteneva con forza la riforma della Chiesa, a nascondere quel libro anziché usarlo come spunto per legiferare contro le immoralità del clero. Forse perché era troppo violento e diretto o perché proponeva sanzioni troppo pesanti. Boswell sembra insinuare che lo stesso Alessandro II avesse delle ragioni personali che lo spingevano a tale gesto, poiché era allievo di Lanfranco di Pavia, famoso per il suo attaccamento ai giovani monaci[60]. Senza alcun dubbio, comunque, Alessandro II considerava il LG scomodo e forse temeva, visto i precedenti, le reazioni che avrebbe potuto suscitare.
Dopo questa ultima vicissitudine, non sappiamo quale sia stata la storia del LG. Secondo J. Brundage, che a sua volta utilizza il pensiero di Little, Pier Damiani, nella lettera ai due cardinali, implorerebbe con successo, i due amici di recuperare il LG e di restituirlo al suo autore[61]. In questa lettera, però, non c'è traccia di una simile richiesta. Anzi, Pier Damiani coinvolge molto poco Ildebrando e Stefano: a loro indirizza la lettera e a loro chiede una penitenza per le dure parole pronunciate contro il papa. A parte questi due chiari riferimenti, il testo della lettera sembra rivolgersi ad un pubblico molto più vasto a cui Damiani sfoga la sua amarezza per l'ingiustizia subita.
4.4 Un libro scomodo
Dopo aver preso in esame le varie ipotesi circa la storia del LG, a partire dal motivo che indusse Damiani a comporlo fino agli insuccessi subiti, prima con Leone IX e poi con Alessandro II, siamo giunti alla conclusione che la Chiesa dell'XI secolo cercò in tutti i modi di evitare la discussione circa la pratica omosessuale in ambiente ecclesiastico. Inoltre, l'indifferenza della Chiesa istituzionale è ancora più straordinaria se paragonata all'accanimento con cui impose il celibato ecclesiastico[62]. I cento anni successivi al 1050, infatti, rappresentarono il culmine del prestigio morale papale e un periodo di riforma e di vigore spirituali senza confronto nel cattolicesimo romano.
Per questi motivi, come dice Boswell, «è difficile dimostrare che l'indifferenza verso la sessualità gay fosse semplicemente conseguenza di apatia»[63]. Probabilmente la denuncia e la condanna dei rapporti omosessuali fra ecclesiastici avrebbe coinvolto troppe personalità insigni del tempo, e forse proprio quelle che con più tenacia condannavano la corruzione e il malcostume. Come per la simonia, contro cui si dovettero moderare i provvedimenti a causa della vasta diffusione del problema, così anche per la pratica dell'omosessualità un intervento decisivo, come quello di Damiani, avrebbe allontanato dagli ordini o degradato molti ecclesiastici.
D'altra parte, Boswell dimostra in maniera abbastanza verosimile che c'era più di una relazione casuale tra la sessualità gay e alcune riforme effettuate durante questo secolo. Egli riporta delle testimonianze in cui i preti omosessuali vengono accusati di essere più desiderosi degli eterosessuali di rinvigorire le proibizioni contro i matrimoni ecclesiastici[64]. Una satira contro un vescovo riformatore lo accusa specificamente di essere ostile al matrimonio ecclesiastico proprio a causa delle sue inclinazioni omosessuali:
L'uomo che occupa questa sede [episcopale] è più Ganimede di Ganimede.
Senti perché esclude gli sposati dal clero:
Egli non ama i servizi di una moglie[65].
Ci sono testimonianze di accese dispute tra il clero gay e quello sposato su quale delle due predilezioni dovesse essere stigmatizzata. Un ecclesiastico sposato chiede alla gerarchia ecclesiastica:
Tu che fai passare nuove leggi ed emani severi statuti
E che ci tormenti, correggi in primo luogo quel sudiciume
Che più gravemente danneggia e che maggiormente allontana dalla legge.
Perché eviti di imporre pene severe ai sodomiti?
Questo tipo di malattia (che minaccia il mondo con la morte)
Sarebbe giusto che fosse estirpata per prima[66].
Questi documenti sono un'ulteriore prova del fatto che il LG trattava un argomento proibito e che quindi era un libro estremamente scomodo.
I papi non lo criticarono mai pubblicamente perché altrimenti avrebbero contraddetto il loro programma di riforma, ma cercarono in tutti i modi, e con successo, di lasciarlo fuori dalla lista dei provvedimenti riformatori.
In linea con la tesi di Boswell, possiamo concludere che, probabilmente, il LG riscosse poco successo non solo perché la sua diffusione avrebbe gettato una pessima luce sul clero, ma anche perché avrebbe sollevato un problema che in quel momento non era fra i più urgenti da risolvere.
Comunque, è giusto ribadire che, nonostante, o meglio, grazie alle sue vicissitudini, il LG costituisce una fonte storica unica all'interno del Medioevo.
I papi non lo criticarono mai pubblicamente perché altrimenti avrebbero contraddetto il loro programma di riforma, ma cercarono in tutti i modi, e con successo, di lasciarlo fuori dalla lista dei provvedimenti riformatori.
In linea con la tesi di Boswell, possiamo concludere che, probabilmente, il LG riscosse poco successo non solo perché la sua diffusione avrebbe gettato una pessima luce sul clero, ma anche perché avrebbe sollevato un problema che in quel momento non era fra i più urgenti da risolvere.
Comunque, è giusto ribadire che, nonostante, o meglio, grazie alle sue vicissitudini, il LG costituisce una fonte storica unica all'interno del Medioevo.
[1] PL 144, 113-146; Giovanni di Lodi, Vita di San Pier Damiani, a cura di R. Licata / V. Rossi, Roma 1993 (Spiritualità nei Secoli 49). Molti elementi per ricostruire la sua biografia sono offerti dallo stesso Damiani nelle sue opere. La maggiore biografia moderna di Piero è quella di J. Leclercq, Saint Pierre Damien, ermite et homme d'Église, Roma 1960 (Uomini e dottrine 8) (trad. it.: San Pier Damiano eremita e uomo di chiesa, Brescia 1972). Si veda anche F. Dressler, Petrus Damiani. Leben und Werk, «Studia Anselmiana» 34 (1954); J. Gonsette, Saint Pierre Damien et la culture profane, Louvain 1956. Per la grande quantità di materiale che forniscono, v. G. Lucchesi, Per una vita di san Pier Damiani. Componenti cronologiche e topografiche, in San Pier Damiano nel IX centenario della morte (1072-1972), I (1972), pp. 13-179 e II (1972) pp. 13-160 e gli Atti dei Convegni di Studi Avellaniti (I: Ascetica cristiana e ascetica giansenista e quietista nelle regioni d'influenza avellanita, Fonte Avellana 1977; II: Fonte Avellana nella società dei secoli XI e XII, ivi 1978). Cfr. anche Petrus Damianus «Medioevo Latino» 16 (1995) pp. 271-272.
[2] Nei migliori manoscritti è usata indifferentemente la forma Petrus Damianus e Petrus Damiani.
[3] Petrus Damiani, Vita Beati Romualdi, a cura di G. Tabacco, «Fonti per la storia d'Italia» 94 (1957).
[4] P. Palazzini, a cura di, Pier Damiani in Bibliotheca Sanctorum, X, Roma 1968 (rist. 1982), p. 555. Per la sua dottrina dell'eremo, cfr. A. Giabbani, L'insegnamento monastico di S. Pier Damiano, «Vita monastica» 15 (1961), pp. 3-18. Si veda anche l'opuscolo Dominus vobiscum (Reindel I, 248-278; PL 145, 231A-252B) in cui Damiani tesse il più alto elogio della vita monastica.
[5] O.J. Blum, The monitor of the Popes: St. Peter Damian, «Studi Gregoriani» 2 (1947), pp. 459-476
[6] Fu proprio Damiani a rendere popolare l'uso di questo termine per indicare i sacerdoti concubinari e gli oppositori del celibato ecclesiastico. Egli identificava l'eresia del matrimonio ecclesiastico con il Nicolaismo, una setta oscura del I sec. diffusa fra i Cristiani di Efeso e di Pergamo. Cfr. J.A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, Chicago 1987, p. 216
[7] Per più di trent'anni la casata dei conti di Tuscolo manipolò le elezioni papali insediandovi Benedetto VII (1012-1024), il fratello Giovanni XIX (1024-1033), che divenne papa quando era ancora laico, e il nipote Benedetto IX (1033-1048) all'età di dodici anni! A quest'ultimo, che aveva commesso gesta ignominiose, si opposero due papi, prima Silvestro III e poi Gregorio VI, cosicché nel 1045 esistevano tre papi! Vennero tutti deposti e fu eletto Clemente II (1046), a cui seguì Benedetto X, voluto ancora dai conti di Tuscolo, e Damaso II (1048).
[8] Cfr. H. Löwe, Petrus Damiani. Ein italienischer Reformer am Vorabend des Investiturstreites, in Geschichte in Wissenschaft und Unterricht, VI (1955), pp. 65-79
[9] Cfr. infra § 4.3, n. 1.
[10] C. Mazzotti, Il celibato e la castità del clero in S. Pier Damiano, in Studi su San Pier Damiano in onore del cardinale Amleto Giovanni Cicognani, Faenza 1961 (II ed. 1970), p. 124.
[11] Reindel I, 384-509 (PL 145, 99A-156B).
[12] G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 92.
[13] Reindel II, 206-218 (PL 145, 379B-388A).
[14] Reindel III, 258-288 (PL 145, 398A-416A) e III, 295-306 (PL 145, 416A-424A).
[15] Per l'edizione del LG si veda Reindel I, 284-330 (PL 145, 159B-190B) che abbiamo riportato anche nell'appendice 1. Recentemente è stato tradotto in inglese, v. Peter Damian, Book of Gomorrah. An Eleventh-Century Treatise against Clerical Homosexual Practices, trad. di P. Payer, Waterloo 1982. Esiste anche un'altra traduzione inglese delle lettere di Damiani, Peter Damian, Letters, trad. di O.J. Blum, Washington 1989-1992 (The Fathers of the Church. Mediaeval Continuation I-III); il quarto volume, che Reindel segnala in stampa nel 1993, a quanto mi risulta non è ancora uscito. La traduzione di Blum è corredata da una concordanza con le lettere pubblicate nella PL e nell'edizione curata da K. Reindel
[16] Paradiso, XXI, 43-90.
[17] P. Brezzi in S. Pier Damiani, De divina onnipotentia e altri opuscoli, a cura di P. Brezzi / B. Nardi, Firenze 1943, p.13 (Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano 5).
[18] Per la datazione si veda G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 83. P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 13 sembra esprimere qualche perplessità su questa data che, comunque, è stata accettata recentemente anche da K. Reindel nella sua edizione delle lettere di Damiani.
[19] J.A. Brundage, Law, Sex ..., p. 212. Oltre alle tre lettere citate nel paragrafo precedente (v. supra, n. 12 e 13), Damiani scrisse altre opere sugli abusi sessuali nella Chiesa: una lettera del 1063 sull'insolenza di certi uomini maligni indirizzata a papa Alessandro II (Reindel III, 46-64 [PL 144, 225A-235C]); un opuscolo scritto nel 1065 al nipote Damiano monaco in cui indica i mezzi per conservare la castità (Reindel III, 399-407 [PL 145, 709D-716C), scritto nel 1065 e una lettera indirizzata a Pietro, l'arciprete della canonica lateranense, che Damiani invita a persistere nella battaglia contro la lussuria degli ecclesiastici (Reindel IV, 145-162 [PL 145, 387B-398A]), scritta tra il 1069 e il 1072. Le date sono quelle fornite dal recente lavoro aggiornato di G. Lucchesi, Per una vita ..., in particolare l'appendice 6: «Datazione più probabile di lettere e di opuscoli di S. Pier Damiani», pp. 148-160.
[20] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 111
[21] Cfr. Reindel I, 289
[22] Cfr. Reindel I, 319.
[23] J.A. Brundage, Law, Sex ..., p. 213.
[24] P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 13. Cfr. C. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII, I: Der Kampf um den Priestercölibat, Leipzig 1894, pp. 239-342.
[25] Ivo di Chartres, Decretum, PL 161, 47-1022. Il Decretum è datato del 1091-1095 da L. Chevailler, Yves de Chartres in Dictionnaire de droit canonique, VII, 1965, coll. 1641-1666.
[26] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 265-266.
[27] Cfr. § 4.2 e 4.3.
[28] Rodolfo, l'arcivescovo di Tours, aveva persuaso il re di Francia a insediare come vescovo d'Orléans un certo Giovanni che era conosciuto come l'amante dell'arcivescovo. Cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 268-269.
[29] Non erano mai stati emanati degli statuti contro di essa, fatta eccezione per il canone 16 del concilio di Ancira, che, erroneamente, si riteneva avesse legiferato contro l'omosessualità; si veda al riguardo il § 2, n. 13-15.
[30] PL 159, 95: «Considerandum etiam est quia hactenus ita fuit publicum hoc peccatum, ut vix aliquis pro eo erubesceret; et ideo multi magnitudinem eius nescientes, in illu se praecipitabant». Boswell ipotizza che Sant'Anselmo avesse ragioni personali per sopprimere il decreto; egli addusse come giustificazione che il decreto era stato steso frettolosamente e che richiedeva una revisione. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 269, n. 26-27.
[31] Ibid., p. 266. Fu sant'Aelredo di Rievaulx l'esponente di questo gruppo. Egli scrisse due trattati sul concetto di amicizia cristiana; cfr. Aelredo di Rievaulx, Aelredi Rievallensis opera omnia, a cura di A. Hoste e H. Talbot, Turnhout 1971 (CCM 1). Sant'Anselmo scrisse molte lettere appassionate a Lanfranco di Pavia e ad alcuni suoi allievi. Per alcune poesie satiriche contro preti omosessuali si veda, T. Wright, a cura di, The Anglo-Latin Satirical Poets and Epigrammatists, London 1872.
[32] Già nel 1179 il concilio Laterano III emanò regolamenti sugli atti omosessuali: per gli ecclesiastici prevedeva o la deposizione dalla carica o il confino in un monastero a fare penitenza, per i laici, invece, la scomunica e l'esclusione dalla congregazione dei fedeli. Cfr. J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum ..., 22, 224-225.
[33] Reindel I, 329.
[34] G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 83.
[35] Bonizone di Sutri, Liber ad amicum, 5 in Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculis XI et XII conscripti, I, 587-588, Hannover 1891 (MGH, Scriptores, VI).
[36] Per la personalità di Leone IX e le riforme del periodo si veda, A., La Réforme grégorienne, I: La formation des idées grégoriennes, Paris 1924, pp. 129-159 e W. Ullmann, A Short History of the Papacy in the Middle Ages, London 1974, pp. 128-141.
[37] Cfr. supra, n. 14.
[38] (Reindel I, 285-286 [PL 145, 159B-160D]). Per la traduzione della lettera si veda § 6.2.
[39]Cfr. cap. XXVII del LG.
[40] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 114 e K.H. Mann, Lives of the Popes, Londra 1925, IV, pp. 51-52
[41] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 267, n. 12. La spiegazione di Boswell non è chiara. Egli sostiene che la frase si rivolga a «quelli che raccomandavano di punire tali colpe». Ma Damiani non era forse il più accanito castigatore di questo peccato? La traduzione di Boswell della lettera di Leone non chiarisce la sua posizione.
[42] Cfr. supra, n. 12.
[43] Reindel I, 332-334 (PL 144, 208B-209C). Per la traduzione della lettera si veda § 6.3.
[44] G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 83.
[45] J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 155, n. 107 dubita che Damiani potesse apparire vulnerabile agli occhi dei contemporanei. Cfr. J.A. Brundage, Law, Sex, ..., p. 185 per la «triste visione della sessualità umana» di Damiani.
[46] A. Capecelatro, Storia di San Pier Damiano e del suo tempo, Firenze 1862, p. 166. A. Fliche, La Réforme ..., I, p. 178 sostiene che Leone era irritato dall'opera a causa della cattiva luce gettata sul clero. Invece, F. Neukirch, Das Leben des Petrus Damiani, Göttingen 1875, p. 55 e J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 155, pensano che l'epistola non si riferisca al LG, ma piuttosto al Liber Gratissimus.
[47] G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 81.
[48] Reindel II, 531-572 (PL 144, 248B-254C e PL 145, 67A-87B). Questo opuscolo è forse il meno poderoso fra tutti quelli composti da Damiani. Qui egli si rivela meno abile nel districare la trama delle questioni politiche e meno esperto in fatto di diritto canonico. Cfr. A. Fliche, La Réforme ..., I, pp. 228-229; L. Kühn, Petrus Damiani und seine Anschauungen über Staat und Kirche, Karlsruhe 1913, pp. 19-31.
[49] A. Fliche, Storia della Chiesa dalle origini i giorni nostri, VIII: La Riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1123), Torino 1959, p. 33.
[50] P. Jaffé / W. Wattenbach, Regesta pontificum Romanorum, Leipzig 1881, 4477.
[51] P. Jaffé / W. Wattenbach, Regesta pontificum ..., 4722 e 4724. Cfr. A. Fliche, La Réforme..., I, pp. 356-357.
[52] Reindel IV, 74-79 (PL 144, 270A-272C). Per la traduzione della lettera si veda § 6.4.
[53] L.K. Little, The Personal Development of Peter Damiani, in Order and Innovation in the Middle Ages, Princeton, N. Y. 1976, pp. 333-334; A. Capecelatro, Storia di San Pier ..., p. 166; J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 268, n. 17; J.A. Brundage, Law, Sex, ..., pp. 212-213.
[54] N. Tamassia, Le opere di Pier Damiano, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti» LXII, 2 (1903), p. 885.
[55] J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 155-156. Egli segue l'ipotesi formulata precedentemente da F. Neukirch, Das Leben ..., p. 55.
[56] Ibid.; dapprima suppone che si tratti del Liber Gratissimus, poi, in maniera non del tutto chiara, mette in relazione la lettera con un passo del resoconto che Damiani invia ad Ildebrando dopo la missione a Milano del 1059 (Reindel II, 228-247 [PL 145, 89A-98D]), al fine di dimostrare che Damiani ha scritto una collezione canonica. Infatti, nel resoconto, Damiani sembra promettere ad Ildebrando che presto si dedicherà a quella raccolta che più volte lo aveva esortato a comporre per affermare il privilegium Romanae Ecclesiae. Non sappiamo se Damiani abbia mai tenuto fede a questa promessa. Alcuni studiosi hanno congetturato che egli sia l'autore della Collectio LXXIV titulorum, ma questa ipotesi non sembra credibile; cfr. A. Michel, Pseudo-Isidor, die Sentenzen Humberts und Burkard von Worms im Investiturstreit, «Studi Gregoriani» 3 (1948), pp. 149-161 e si veda Pier Damiani a cura di P. Palazzini, in Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, coll. 1377-1380.
[57] L'espressione unicum filium potrebbe alludere all'unica copia che Damiani possedeva di un suo lavoro, anche se ciò è abbastanza improbabile perché, secondo il suo consueto modo di procedere, Damiani conservava le tavolette di cera su cui veniva scritta la prima stesura dei suoi lavori.
[58] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., n.17 p. 293.
[59] Reindel IV, 77 (PL 144, 271D): «et propter brevem vilis articuli seriem pauperculum eiusdem stili non amittat auctorem».
[60] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 267-268. Per Lanfranco e il suo amore per gli allievi si veda R.W. Southern, St. Anselm and His Biographer, Oxford 1963.
[61] J.A. Brundage, Law, Sex, ..., pp. 213.
[62] Il concilio Laterano del 1123 invalidò tutti i matrimoni ecclesiastici.
[63] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., pp. 270.
[64] Ibid., appendice 2: Testi e traduzioni, pp. 491-493 traduce la poesia Nos uxorati (XII-XIII sec.) che un prete sposato rivolge al clero omosessuale. Cfr., Wright, T., a cura di, The Anglo-Latin ..., London 1872, 2, 209.
[65] Da un manoscritto di Zurigo di provenienza incerta, pubblicato in J. Werner, Beiträge zur kunde der lateinischen Literatur des Mittelalters, Aarau 1905, p. 26.
5. Traduzione del Liber Gomorrhianus
I parte: par. I-XVII
II parte: par. XVIII-XXVII
II parte: par. XVIII-XXVII
La traduzione si basa sul testo latino edito dal Reindel. I titoli dei vari capitoli e la loro intestazione ho seguito l'edizione di Reindel che li riporta nell'apparato critico.
I
1]
Pietro, il più umile servo fra i monaci, al Beatissimo Papa Leone l'omaggio del dovuto rispetto.
Poiché sappiamo, dalla bocca stessa della Verità, che la Sede Apostolica è la madre di tutte le Chiese, è giusto che, se in qualche luogo è emerso qualche dubbio riguardante la cura delle anime, si ricorra ad essa come ad una maestra e, come, in un certo senso, alla fonte della sapienza celeste. Così da quell'unica sorgente della disciplina ecclesiastica uscirà la luce che, abbattute le tenebre del dubbio, illuminerà tutto il corpo della Chiesa del limpido splendore della Verità.
Invece, nelle nostre regioni, cresce un vizio assai scellerato e obbrobrioso. Se la mano della severa punizione non lo affronterà al più presto, certamente la spada del furore divino infierirà terribilmente minacciando la sventura di molti. Ah! Mi vergogno a dirlo! Mi vergogno ad annunciare una cosa tanto vergognosa alle sante orecchie, ma se il medico inorridisce per il fetore delle piaghe, chi userà il cauterio? Se colui che sta medicando, si nausea, chi guarirà le anime malate? La sozzura sodomitica[2] si insinua come un cancro nell'ordine ecclesiastico[3], anzi, come una bestia assetata di sangue infierisce nell'ovile di Cristo con libera audacia, tanto che sarebbe molto meglio essere stati schiacciati sotto il giogo della milizia secolare piuttosto che essere assoggettati, tanto liberamente, alla ferrea legge della tirannide diabolica sotto la copertura della religione[4]. Come dice la Verità: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino e fosse gettato negli abissi del mare»[5]. E se la potenza della sede apostolica non interviene al più presto, senza alcun dubbio la sfrenata dissolutezza, benché desideri essere repressa, non sarà capace di fermare l'impeto del suo corso.
Poiché sappiamo, dalla bocca stessa della Verità, che la Sede Apostolica è la madre di tutte le Chiese, è giusto che, se in qualche luogo è emerso qualche dubbio riguardante la cura delle anime, si ricorra ad essa come ad una maestra e, come, in un certo senso, alla fonte della sapienza celeste. Così da quell'unica sorgente della disciplina ecclesiastica uscirà la luce che, abbattute le tenebre del dubbio, illuminerà tutto il corpo della Chiesa del limpido splendore della Verità.
Invece, nelle nostre regioni, cresce un vizio assai scellerato e obbrobrioso. Se la mano della severa punizione non lo affronterà al più presto, certamente la spada del furore divino infierirà terribilmente minacciando la sventura di molti. Ah! Mi vergogno a dirlo! Mi vergogno ad annunciare una cosa tanto vergognosa alle sante orecchie, ma se il medico inorridisce per il fetore delle piaghe, chi userà il cauterio? Se colui che sta medicando, si nausea, chi guarirà le anime malate? La sozzura sodomitica[2] si insinua come un cancro nell'ordine ecclesiastico[3], anzi, come una bestia assetata di sangue infierisce nell'ovile di Cristo con libera audacia, tanto che sarebbe molto meglio essere stati schiacciati sotto il giogo della milizia secolare piuttosto che essere assoggettati, tanto liberamente, alla ferrea legge della tirannide diabolica sotto la copertura della religione[4]. Come dice la Verità: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino e fosse gettato negli abissi del mare»[5]. E se la potenza della sede apostolica non interviene al più presto, senza alcun dubbio la sfrenata dissolutezza, benché desideri essere repressa, non sarà capace di fermare l'impeto del suo corso.
II
Dei diversi comportamenti sodomitici
Dei diversi comportamenti sodomitici
Quattro tipi di questo comportamento vergognoso possono essere distinti nello sforzo di svelarvi tutto il problema in modo ordinato[6].
Alcuni si macchiano da soli, altri si contaminano a vicenda toccandosi con le mani i membri virili, altri fornicano fra le cosce e, infine, altri [fornicano] di dietro. Fra questi c'è una progressione graduale tale che l'ultimo è ritenuto più grave rispetto ai precedenti. Perciò viene imposta, a quelli che peccano con altri, una penitenza maggiore rispetto a quella prevista per chi si macchia da solo con il contatto del seme emesso, e quelli che si contaminano da dietro sono giudicati più severamente di quelli che si uniscono fra le cosce[7]. Quindi, l'abile macchinazione del diavolo ha escogitato questi gradi di dissolutezza in modo che, quanto più in alto l'anima infelice prosegue fra questi, tanto più in basso è gettata nella profonda fossa dell'inferno.
Alcuni si macchiano da soli, altri si contaminano a vicenda toccandosi con le mani i membri virili, altri fornicano fra le cosce e, infine, altri [fornicano] di dietro. Fra questi c'è una progressione graduale tale che l'ultimo è ritenuto più grave rispetto ai precedenti. Perciò viene imposta, a quelli che peccano con altri, una penitenza maggiore rispetto a quella prevista per chi si macchia da solo con il contatto del seme emesso, e quelli che si contaminano da dietro sono giudicati più severamente di quelli che si uniscono fra le cosce[7]. Quindi, l'abile macchinazione del diavolo ha escogitato questi gradi di dissolutezza in modo che, quanto più in alto l'anima infelice prosegue fra questi, tanto più in basso è gettata nella profonda fossa dell'inferno.
III
Del perché l'eccessiva pietà dei superiori non allontana i peccatori dall'ordine
Del perché l'eccessiva pietà dei superiori non allontana i peccatori dall'ordine
Senza dubbio, i colpevoli di questa rovina spesso rinsaviscono grazie alla generosità della misericordia divina, si pentono completamente[8], sopportano devotamente il peso della penitenza, per quanto gravoso, e davvero rabbrividiscono al pensiero di perdere il grado ecclesiastico. In verità, certi rettori delle Chiese sono, riguardo a questo vizio, più comprensivi forse di quanto giovi[9]. In modo assoluto decretano che nessuno, a causa di quei tre gradi che prima sono stati enumerati, debba essere bandito dal suo ordine. Invece, ammettono la degradazione solamente per quelli che, senza dubbio, abbiano peccato di dietro[10]. Vale a dire che sia chi emette il seme mediante il proprio sforzo genitale, sia chi macchia l'altro a causa dello sfregamento delle mani e sia chi si sdraia secondo l'uso del sesso diverso fra le cosce, purché non abbia peccato di dietro, farà una certa penitenza, dopo che sia stata valutata la gravità del peccato, e senza dubbio non recederà dal suo ordine[11]. Così, può succedere di vedere colui di cui si sa per certo che ha peccato con otto o anche dieci uomini, rimanere nel suo ordine. Questa empia benevolenza, senza dubbio, non guarisce la ferita, ma la ingrandisce fornendole fomite, non provoca amarezza per l'atto illecito compiuto, ma anzi offre la libertà di compierlo. Certamente, un ecclesiastico carnale di qualsiasi ordine, teme di più di essere disprezzato al cospetto degli uomini che di essere condannato nell'esame del Giudice Supremo. Per questo motivo preferisce una penitenza, per quanto severa e per quanto violenta, piuttosto che correre il rischio di essere degradato. E mentre, grazie ad un errato discernimento, non esita ad abbandonare il suo onore, è incitato a pregustare le cose sconosciute e in queste, che ha pregustato impunemente, è spinto a rimanere per lungo tempo. E, così come ho detto, poiché non si colpisce dove più forte è il dolore, colui che una volta cadde nel pantano della fangosa oscenità continua a giacervi mollemente.
IV
Del perché quelli che sono dediti ad atti immondi non devono essere accettati nell'ordine, né vi devono rimanere se già siano stati promossi
Del perché quelli che sono dediti ad atti immondi non devono essere accettati nell'ordine, né vi devono rimanere se già siano stati promossi
Ci sembra completamente assurdo che quelli che si insozzano abitualmente con questa malattia purulenta osino entrare nell'ordine o rimanere nel loro grado quando siano già stati promossi, perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri. Comunque, non affermo questo come pretesto per proporre una bozza di sentenza definitiva alla presenza della Vostra autorità, ma semplicemente per spiegare la mia opinione a riguardo. Per l'appunto questa scelleratezza è considerata, e non immeritatamente, la peggiore fra tutti i vizi. Infatti, Dio onnipotente, come si legge, lo ha sempre odiato e, quando ancora non l'aveva schiacciato con un precetto legale insieme agli altri vizi, già lo condannava ad una severa punizione. Infatti, non c'è bisogno di ricordare che egli distrusse, mandando dal cielo zolfo e fuoco, Sodoma e Gomorra[12], due città senza dubbio eccellenti, e tutte le regioni confinanti; colpì con una morte immatura Onan, figlio di Giuda, a causa di questo atto scellerato e la Scrittura ne è testimone quando dice: «Onan, sapendo che la prole non sarebbe stata considerata sua, quando si univa alla moglie di suo fratello, disperdeva per terra il seme per non dare una posterità al fratello, così il Signore lo colpì [con la morte] poiché aveva fatto una cosa abominevole»[13]. Anche la legge dice: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un'abominazione; siano messi a morte e il loro sangue ricada su di loro»[14].
Inoltre, beato Papa Gregorio dichiara che chi si è macchiato di quel crimine che l'antica legge ordina di punire con la morte, non deve essere ammesso nell'ordine ecclesiastico. Nelle sue lettere egli scrive al vescovo Passivo dicendo: «Sua eccellenza sa bene che per lungo tempo l'Abruzzo è stato senza cura pastorale, quando noi cercavamo chi dovesse essere ordinato e non riuscivamo a trovarlo. Ma poiché Importuno[15] mi è stato molto lodato per i suoi costumi, per lo studio dei salmi, per l'amore della preghiera e poiché di lui si dice che conduca vita religiosa, noi desideriamo che sua eccellenza lo faccia venire al suo cospetto e che lo inviti a ricordare fino a che punto la sua anima sia cresciuta nelle buone azioni. E se a lui non si obiettano quei crimini che sono puniti con la morte dalla legge divina, allora da voi può essere ordinato o come monaco o come suddiacono e, dopo molto tempo, se piace a Dio, può essere promosso alla cura pastorale»[16].
Ecco, qui si riassume apertamente perché ogni uomo che pecca con un altro uomo come con una donna, cioè fra le cosce[17], [commettendo] senza alcun dubbio un crimine, come abbiamo spiegato prima, debba essere punito, secondo l'antica legge, con la morte benché sia meritevole per i suoi onesti costumi, ferva nello studio dei salmi, brilli nell'amore della preghiera e conduca davvero una vita religiosa testimoniata dalla sua fama. Certamente, l'accusato può ricevere l'indulgenza plenaria ma in nessun modo gli è permesso di aspirare all'ordine ecclesiastico. Infatti, di quel venerabile uomo che è Importuno, che dapprima è esaltato con tanto zelo, è ornato di ghirlande per il suo comportamento tanto religioso e onesto, è elogiato per le sue virtù, di lui, in seguito, si dice: «E se a lui non si obiettano quei crimini che sono puniti con la morte dalla legge divina, allora può essere ordinato». Sicuramente è chiaro che chi ha commesso un crimine degno di essere punito con la morte, non migliora entrando nell'ordine ecclesiastico, pur praticando una vita religiosa. Né colui che senza dubbio è caduto nel baratro del peccato mortale, può innalzarsi al culmine dell'onore. Perciò, è più chiaro della luce che, chiunque abbia fornicato fra le cosce maschili, commettendo un peccato mortale, entra a far parte dell'ordine ecclesiastico del tutto contro l'antica legge e contro le regole dell'autorità divina.
Inoltre, beato Papa Gregorio dichiara che chi si è macchiato di quel crimine che l'antica legge ordina di punire con la morte, non deve essere ammesso nell'ordine ecclesiastico. Nelle sue lettere egli scrive al vescovo Passivo dicendo: «Sua eccellenza sa bene che per lungo tempo l'Abruzzo è stato senza cura pastorale, quando noi cercavamo chi dovesse essere ordinato e non riuscivamo a trovarlo. Ma poiché Importuno[15] mi è stato molto lodato per i suoi costumi, per lo studio dei salmi, per l'amore della preghiera e poiché di lui si dice che conduca vita religiosa, noi desideriamo che sua eccellenza lo faccia venire al suo cospetto e che lo inviti a ricordare fino a che punto la sua anima sia cresciuta nelle buone azioni. E se a lui non si obiettano quei crimini che sono puniti con la morte dalla legge divina, allora da voi può essere ordinato o come monaco o come suddiacono e, dopo molto tempo, se piace a Dio, può essere promosso alla cura pastorale»[16].
Ecco, qui si riassume apertamente perché ogni uomo che pecca con un altro uomo come con una donna, cioè fra le cosce[17], [commettendo] senza alcun dubbio un crimine, come abbiamo spiegato prima, debba essere punito, secondo l'antica legge, con la morte benché sia meritevole per i suoi onesti costumi, ferva nello studio dei salmi, brilli nell'amore della preghiera e conduca davvero una vita religiosa testimoniata dalla sua fama. Certamente, l'accusato può ricevere l'indulgenza plenaria ma in nessun modo gli è permesso di aspirare all'ordine ecclesiastico. Infatti, di quel venerabile uomo che è Importuno, che dapprima è esaltato con tanto zelo, è ornato di ghirlande per il suo comportamento tanto religioso e onesto, è elogiato per le sue virtù, di lui, in seguito, si dice: «E se a lui non si obiettano quei crimini che sono puniti con la morte dalla legge divina, allora può essere ordinato». Sicuramente è chiaro che chi ha commesso un crimine degno di essere punito con la morte, non migliora entrando nell'ordine ecclesiastico, pur praticando una vita religiosa. Né colui che senza dubbio è caduto nel baratro del peccato mortale, può innalzarsi al culmine dell'onore. Perciò, è più chiaro della luce che, chiunque abbia fornicato fra le cosce maschili, commettendo un peccato mortale, entra a far parte dell'ordine ecclesiastico del tutto contro l'antica legge e contro le regole dell'autorità divina.
V
Se è lecito che tali peccatori compiano questo ufficio quando la necessità ecclesiastica lo richieda
Se è lecito che tali peccatori compiano questo ufficio quando la necessità ecclesiastica lo richieda
Ma, forse, c'è chi pensa che, quando la necessità sovrasta e manca una persona che compia il sacro ufficio nella Chiesa, la sentenza che prima abbiamo ricavato dalla giustizia divina, venga opportunamente ammorbidita per far fronte all'esigenza del momento. A questo rispondo brevemente. Non si era presentata una necessità anche quando la sede pontificia mancava della guida? Per il vantaggio di uno solo, dovremmo cancellare una censura che poi nella destituzione di un solo popolo rimane inalterata? E ciò che non si disfa per il bene della moltitudine, si viola per l'interesse di una sola persona? Anche l'insigne predicatore entra nel merito e dichiara espressamente ciò che pensa riguardo a questo vizio. Nella lettera agli Efesini dice: «Infatti, sappiatelo bene, nessun fornicatore o depravato o avaro, ha parte nel regno di Cristo e di Dio»[18]. Quindi se l'immondo non ha alcuna eredità in cielo, con quale presunzione, con quale superbia temeraria ottiene, nonostante tutto, un posto nella Chiesa, che è, non meno, il regno di Dio?[19] Colui che cadendo nella scelleratezza trascurò la legge divina, temerà forse di disprezzarla ascendendo alla carica della dignità ecclesiastica? Costui non si trattiene in niente perché non ha paura di disprezzare Dio.
Ma senza dubbio, questa legge è imposta soprattutto a quelli che l'hanno violata; ne è testimone Paolo che, scrivendo a Timoteo, dice: «la legge non è istituita per chi è giusto, ma per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli omicidi, per i fornicatori, per i concubini dei maschi, per i ladri di persone, per i mentitori, per gli spergiuri e per qualsiasi altro vizio che si opponga alla sana dottrina»[20]. Dunque questa legge è imposta ai concubini dei maschi, come si è detto, affinché non osino contaminare i sacri ordini. Ma io chiedo, come può questa legge essere osservata se proprio da quelli che l'hanno fatta, è disprezzata? Se una persona è considerata utile, è giusto che quanto più saggiamente coltiva i suoi talenti naturali, tanto più prudentemente osservi i comandi della legge autentica. Infatti, ciascuno quanto più è saggio, tanto peggio sbaglia; inevitabilmente si merita la pena colui che, se avesse voluto, avrebbe potuto saggiamente evitare il peccato. Infatti, come dice il beato Giacomo: «Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato»[21]. E la Verità dice: «Da chi ha ricevuto di più si esige di più»[22]. Infatti, se la disciplina ecclesiastica viene trasgredita dall'uomo erudito, è cosa mirabile che sia osservata dall'ignorante. Inoltre, se un qualsiasi uomo colto viene ammesso impropriamente nell'ordine ecclesiastico, costui sembra spianare ai suoi seguaci e, per così dire, ai più semplici il sentiero dell'errore, che egli ha già iniziato, e sembra percorrerlo col piede gonfio di superbia. Egli non solo deve essere giudicato perché ha peccato, ma perché ha invitato con il suo esempio di presunzione, anche gli altri ad emularlo nel peccare.
Ma senza dubbio, questa legge è imposta soprattutto a quelli che l'hanno violata; ne è testimone Paolo che, scrivendo a Timoteo, dice: «la legge non è istituita per chi è giusto, ma per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli omicidi, per i fornicatori, per i concubini dei maschi, per i ladri di persone, per i mentitori, per gli spergiuri e per qualsiasi altro vizio che si opponga alla sana dottrina»[20]. Dunque questa legge è imposta ai concubini dei maschi, come si è detto, affinché non osino contaminare i sacri ordini. Ma io chiedo, come può questa legge essere osservata se proprio da quelli che l'hanno fatta, è disprezzata? Se una persona è considerata utile, è giusto che quanto più saggiamente coltiva i suoi talenti naturali, tanto più prudentemente osservi i comandi della legge autentica. Infatti, ciascuno quanto più è saggio, tanto peggio sbaglia; inevitabilmente si merita la pena colui che, se avesse voluto, avrebbe potuto saggiamente evitare il peccato. Infatti, come dice il beato Giacomo: «Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato»[21]. E la Verità dice: «Da chi ha ricevuto di più si esige di più»[22]. Infatti, se la disciplina ecclesiastica viene trasgredita dall'uomo erudito, è cosa mirabile che sia osservata dall'ignorante. Inoltre, se un qualsiasi uomo colto viene ammesso impropriamente nell'ordine ecclesiastico, costui sembra spianare ai suoi seguaci e, per così dire, ai più semplici il sentiero dell'errore, che egli ha già iniziato, e sembra percorrerlo col piede gonfio di superbia. Egli non solo deve essere giudicato perché ha peccato, ma perché ha invitato con il suo esempio di presunzione, anche gli altri ad emularlo nel peccare.
VI
Di quelli che sono caduti in balia di un sentimento depravato e che, dopo questo vizio, desiderano entrare nell'ordine sacro
Chi fugge con l'orecchio sordo, anzi chi non trema dal profondo quando l'Apostolo, come una tromba tuonante, contro queste cose dice: «Dio li ha lasciati in balia dei desideri dei loro cuori, fino all'immondezza che è consistita nel disonorare il loro corpo fra di loro»[23]. E poco dopo: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami. Infatti le loro donne scambiarono il rapporto sessuale naturale con quello contro natura. Allo stesso modo gli uomini, lasciato il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni verso gli altri, compiendo turpitudini uomini con uomini, ricevendo in se stessi la debita ricompensa della loro aberrazione. E poiché non hanno stimato saggio possedere la vera conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di una intelligenza depravata, sicché commettono quelle cose che non sono convenienti»[24]. Perché dopo un così grave peccato ambiscono all'alto grado ecclesiastico? Che cosa si può supporre, che cosa si può credere se non che Dio li ha abbandonati in balia dei desideri? Né, valutati i loro peccati, permette che vedano quelle cose che sono loro necessarie. Poiché, infatti, per loro il sole è tramontato, cioè è salito sopra l'occidente[25], i loro occhi interiori sono diventati ciechi. Per questo motivo, né riescono a considerare che sono gravi quei mali che si commettono nella lordura, né che sia ancora peggio desiderare delle cose sregolate contro la volontà di Dio. Riguardo a questa abitudine comune, si ricava, dalla giustizia divina, che quelli che si macchiano con questa condotta sfrenata e perversa, degna di un castigo violento, cadono nelle tenebre della cecità. Come leggiamo negli autori antichi riguardo a questa sconcezza: «Si precipitarono con molta forza contro il giusto Loth e già erano vicini a sfondare la porta. Ma ecco dice la Scrittura gli uomini allungarono le braccia e trascinarono in casa Loth e richiusero la porta e colpirono con la cecità quelli che erano fuori, dal più giovane al più vecchio, così che questi non poterono vedere la porta»[26]. Inoltre, risulta appropriato che si veda la persona del Padre e del Figlio in quei due angeli che, come si legge, erano venuti dal Beato Loth. Questo è evidente quando lo stesso Loth, parlando a loro, dice: «Ti prego, mio Signore, perché il servo tuo ha trovato grazia ai tuoi occhi. Tu hai fatto grande la tua misericordia verso di me salvandomi la vita»[27]. Certamente, Loth parla a due persone come se si rivolgesse ad una sola perché si venera una sostanza in due persone.
Perciò i Sodomiti cercano di assalire violentemente gli angeli, come gli uomini immondi tentano di avvicinarsi a Dio attraverso le cariche dell'ordine sacro. Ma questi, senza dubbio, vengono puniti con la cecità cadendo nelle tenebre interiori, secondo la giusta sentenza di Dio. Così non riescono a trovare la porta, perché peccando si sono allontanati da Dio e ignorano da quale parte si ritorni a lui. È chiaro che bramano di raggiungere Dio non attraverso l'umiltà, bensì mediante l'arroganza e la tortuosità dell'orgoglio, perché non riconoscono l'ingresso aperto da dove si entra. Ma anche perché Cristo è la porta, come egli stesso dice: «Io sono la porta»[28]. Quelli che abbandonano il Cristo a causa dei peccati, siccome non possono entrare nella casa dei cittadini celesti, non trovano la porta.
Perciò sono stati abbandonati alla ignominiosa passione, perché non valutano mediante un'accurata riflessione, con la bilancia della propria mente, la gravità del loro peccato, pesante come una massa di piombo, ma considerano la leggerezza delle futili pene. Quindi accade ciò che si dice in questo passo: «Colpirono quelli che erano fuori con la cecità»[29] punizione che l'Apostolo annuncia chiaramente quando dice: «Dio li ha abbandonati ad un'intelligenza depravata»[30]. A questo viene aggiunto: «cosicché non poterono trovare la porta»[31] e anche questo l'Apostolo espone chiaramente: «cosicché commettono quelle cose che non sono convenienti»[32]. Il che equivale a dire: perciò cercano di entrare, da dove non devono. Infatti, chi non è degno dell'ordine, cerca di entrare anche con la violenza nell'ufficio del sacro altare. Chi altro, lasciato sulla soglia della porta, si sforza di passare attraverso la barriera di una parete insormontabile? E poiché il libero ingresso non è accessibile ai loro piedi, questi, mentre giurano a se stessi di poter raggiungere il sacrario, ingannati dalla loro presunzione, sono costretti a rimanere più a lungo nell'anticamera esteriore. Senza dubbio, essi possono battere la testa contro i macigni della Sacra Scrittura, ma in nessun modo avranno il permesso di entrare attraverso la porta dell'autorità divina; mentre cercano di entrare dove non è loro permesso, non fanno altro che palpare invano la parete protetta. A questi si riferisce giustamente ciò che viene detto per bocca del profeta: «E a mezzogiorno brancolano come di notte»[33]. Quelli che non possono direttamente oltrepassare la soglia della porta, girano in cerchio, errando impazziti. Di loro il salmista dice: «Dio mio, falli girare come una ruota»[34]. E ancora: «Gli empi vagano in cerchio»[35]. Su questi anche Paolo, dove dice quelle parole famose ricordate sopra, poco dopo aggiunge: «Quelli che commettono queste cose sono degni di morte e non solo quelli che le fanno, ma anche quelli che approvano chi le fa»[36].
Chiaramente, chi non viene svegliato da questo terribile tuono dell'invettiva apostolica, senza dubbio deve essere considerato morto, non addormentato. E se l'Apostolo eleva con tanta passione la sua severa sentenza di biasimo, non contro i Giudei, comunque fedeli, ma contro i Gentili e quelli che ignorano Dio, mi chiedo che cosa avrebbe detto se si fosse accorto che questa ferita marciva proprio nel corpo della santa Chiesa? Soprattutto, quale dolore, quale pio ardore di compassione avrebbe acceso quel petto se avesse saputo che questa peste mortale infuriava anche nell'ordine sacro! Ascoltino gli inoperosi ecclesiastici e i superiori dei sacerdoti, ascoltino, e se il loro comportamento glielo permette, siano tranquilli, gli altri abbiano invece molta paura di essere partecipi del reato. [Vale a dire] certamente quelli che chiudono gli occhi davanti ai peccati da correggere dei subordinati e che, con il loro sconsiderato silenzio, danno il permesso ai subalterni di peccare. Ascoltino, aggiungo, e riflettano saggiamente poiché sono degni di morte non solo quelli che fanno queste cose, ma anche quelli che approvano chi le fa[37].
Perciò i Sodomiti cercano di assalire violentemente gli angeli, come gli uomini immondi tentano di avvicinarsi a Dio attraverso le cariche dell'ordine sacro. Ma questi, senza dubbio, vengono puniti con la cecità cadendo nelle tenebre interiori, secondo la giusta sentenza di Dio. Così non riescono a trovare la porta, perché peccando si sono allontanati da Dio e ignorano da quale parte si ritorni a lui. È chiaro che bramano di raggiungere Dio non attraverso l'umiltà, bensì mediante l'arroganza e la tortuosità dell'orgoglio, perché non riconoscono l'ingresso aperto da dove si entra. Ma anche perché Cristo è la porta, come egli stesso dice: «Io sono la porta»[28]. Quelli che abbandonano il Cristo a causa dei peccati, siccome non possono entrare nella casa dei cittadini celesti, non trovano la porta.
Perciò sono stati abbandonati alla ignominiosa passione, perché non valutano mediante un'accurata riflessione, con la bilancia della propria mente, la gravità del loro peccato, pesante come una massa di piombo, ma considerano la leggerezza delle futili pene. Quindi accade ciò che si dice in questo passo: «Colpirono quelli che erano fuori con la cecità»[29] punizione che l'Apostolo annuncia chiaramente quando dice: «Dio li ha abbandonati ad un'intelligenza depravata»[30]. A questo viene aggiunto: «cosicché non poterono trovare la porta»[31] e anche questo l'Apostolo espone chiaramente: «cosicché commettono quelle cose che non sono convenienti»[32]. Il che equivale a dire: perciò cercano di entrare, da dove non devono. Infatti, chi non è degno dell'ordine, cerca di entrare anche con la violenza nell'ufficio del sacro altare. Chi altro, lasciato sulla soglia della porta, si sforza di passare attraverso la barriera di una parete insormontabile? E poiché il libero ingresso non è accessibile ai loro piedi, questi, mentre giurano a se stessi di poter raggiungere il sacrario, ingannati dalla loro presunzione, sono costretti a rimanere più a lungo nell'anticamera esteriore. Senza dubbio, essi possono battere la testa contro i macigni della Sacra Scrittura, ma in nessun modo avranno il permesso di entrare attraverso la porta dell'autorità divina; mentre cercano di entrare dove non è loro permesso, non fanno altro che palpare invano la parete protetta. A questi si riferisce giustamente ciò che viene detto per bocca del profeta: «E a mezzogiorno brancolano come di notte»[33]. Quelli che non possono direttamente oltrepassare la soglia della porta, girano in cerchio, errando impazziti. Di loro il salmista dice: «Dio mio, falli girare come una ruota»[34]. E ancora: «Gli empi vagano in cerchio»[35]. Su questi anche Paolo, dove dice quelle parole famose ricordate sopra, poco dopo aggiunge: «Quelli che commettono queste cose sono degni di morte e non solo quelli che le fanno, ma anche quelli che approvano chi le fa»[36].
Chiaramente, chi non viene svegliato da questo terribile tuono dell'invettiva apostolica, senza dubbio deve essere considerato morto, non addormentato. E se l'Apostolo eleva con tanta passione la sua severa sentenza di biasimo, non contro i Giudei, comunque fedeli, ma contro i Gentili e quelli che ignorano Dio, mi chiedo che cosa avrebbe detto se si fosse accorto che questa ferita marciva proprio nel corpo della santa Chiesa? Soprattutto, quale dolore, quale pio ardore di compassione avrebbe acceso quel petto se avesse saputo che questa peste mortale infuriava anche nell'ordine sacro! Ascoltino gli inoperosi ecclesiastici e i superiori dei sacerdoti, ascoltino, e se il loro comportamento glielo permette, siano tranquilli, gli altri abbiano invece molta paura di essere partecipi del reato. [Vale a dire] certamente quelli che chiudono gli occhi davanti ai peccati da correggere dei subordinati e che, con il loro sconsiderato silenzio, danno il permesso ai subalterni di peccare. Ascoltino, aggiungo, e riflettano saggiamente poiché sono degni di morte non solo quelli che fanno queste cose, ma anche quelli che approvano chi le fa[37].
VII
Dei rettori delle chiese che si sono contaminati con i loro figli spirituali
Dei rettori delle chiese che si sono contaminati con i loro figli spirituali
O inaudita scelleratezza! O ingiuria tanto grave da meritare il pianto di tutta una fontana di lacrime! Se quelli che permettono agli altri di commettere questi peccati meritano la morte, quale supplizio si potrebbe escogitare degno di quelli che compiono con i loro figli spirituali queste nefandezze, punibili con la dannazione eterna? Quale frutto si può trovare nel gregge se il pastore è caduto tanto profondamente nel ventre del diavolo? Chi rimane ormai sotto la guida di uno che è, in modo tanto ostile, estraneo a Dio? Che fa di un penitente l'amante, di un maschio la moglie? E che sottomette quel figlio, che aveva generato spiritualmente da Dio, rendendolo schiavo della ferrea legge diabolica mediante l'impurità della sua carne? Per chi viola la donna che lui stesso sollevò dal fonte battesimale, non è forse previsto dai sacri canoni che, senza alcuna perplessità, costui venga privato della comunione e faccia pubblica penitenza?[38] Infatti sta scritto: è più importante la generazione spirituale di quella carnale. Ma chi accoglie nell'ordine ecclesiastico uno che viene dal secolo, quasi allo stesso modo di chi abbia battezzato o di chi abbia sollevato uno dal fonte battesimale, ha generato un figlio spirituale a Dio. Poiché l'istituzione dell'ordine canonico è una rinuncia al secolo, essa è, in un certo senso, un secondo battesimo[39]. Di conseguenza, la stessa punizione venga inflitta sia a chi ha rovinato la figlia carnale, sia a chi ha contaminato il figlio spirituale mediante un'unione sacrilega e anche chi ha macchiato quel chierico che lui stesso ha ordinato[40], a meno che, in questo caso, non si distingua la qualità del peccato, perché entrambi sono considerati incestuosi, tuttavia quello che ha peccato con una donna ha seguito la natura, quello che ha compiuto l'oscenità nel chierico, ha commesso un sacrilegio nel figlio, è caduto nel crimine dell'incesto, ha violato nel maschio le leggi di natura. Inoltre, a me, sembra più tollerabile essere lussuriosi con un animale piuttosto che con un uomo. Senza dubbio, chiunque pecchi da solo viene giudicato più leggermente di colui che trascina con sé nella morte anche l'altro. Si crea davvero una situazione miserabile quando il peccato di uno pesa tanto sull'altro da far sì che, mentre il primo si rovina, il secondo necessariamente lo segue nella morte.
VIIIDi quelli che confessano i loro peccati agli stessi con cui hanno peccato
Non rimangano nascoste le trame della macchinazione diabolica, bensì, sia rivelato, quantunque io impallidisca, ciò che si trama, in segreto, nell'officina del demonio. Non sopporterò che rimanga nascosto il comportamento di questi che, senza dubbio sono completamente avvelenati da questo crimine. Quando ritornano in sé, si confessano fra di loro affinché di questa scelleratezza non giunga notizia ad altri. Mentre essi fanno arrossire il volto degli uomini, gli autori di questo reato diventano giudici di se stessi. Ciascuno gode nell'elargire quella indiscreta indulgenza che, per mezzo dello scambio con l'altro, brama di veder applicata a se stesso. Così accade che, pur essendo in penitenza per peccati gravissimi, i loro visi non impallidiscono per il digiuno e i loro corpi non si consumano nella magrezza; mentre il loro ventre non si restringe per la scarsa quantità di cibo ingerito, l'animo turpemente si infiamma nell'ardore della consueta libidine. Tutto questo fa sì che quelli che non avevano ancora pianto per i peccati commessi, nel frattempo ne hanno compiuti di peggiori per cui piangere.
Secondo un precetto della legge, chi ha la lebbra lo deve dire ai sacerdoti, ora, invece, non viene detto ai sacerdoti ma piuttosto ad un altro lebbroso, cosicché l'immondo confessa all'immondo la comune corruzione. Ma poiché la confessione è anche una manifestazione, che cosa, mi domando, manifesta chi racconta ciò che già è conosciuto da chi lo ascolta? In base a che cosa quella viene chiamata confessione se il confidente non rivela nulla che non sia già noto al confessore? In base a quale legge, in base a quale diritto, chi è stretto dal legame del peccato commesso insieme, può assolvere l'altro? Infatti, inutilmente si adopera ad assolvere un altro chi, a sua volta, è intrappolato nelle stesse catene. E chi vuole far da guida al cieco, è necessario che veda per evitare di diventare, per chi lo segue, il responsabile della sua rovina, come dice la voce della Verità: «Se un cieco fa da guida ad un cieco, tutti e due cadranno nella fossa»[41], e ancora: «Perché osservi la pagliuzza che sta nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che sta nel tuo?[42] Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello»[43]
In questi passi evangelici è annunciato molto chiaramente che chi è schiacciato nelle tenebre del suo peccato, invano tenta di richiamare l'altro alla luce della penitenza. E, se quello non teme di perire nel condurre l'altro fuori strada, sopravvalutando le proprie forze, nello stesso tempo, chi lo segue non può sfuggire alla fossa della rovina.
Secondo un precetto della legge, chi ha la lebbra lo deve dire ai sacerdoti, ora, invece, non viene detto ai sacerdoti ma piuttosto ad un altro lebbroso, cosicché l'immondo confessa all'immondo la comune corruzione. Ma poiché la confessione è anche una manifestazione, che cosa, mi domando, manifesta chi racconta ciò che già è conosciuto da chi lo ascolta? In base a che cosa quella viene chiamata confessione se il confidente non rivela nulla che non sia già noto al confessore? In base a quale legge, in base a quale diritto, chi è stretto dal legame del peccato commesso insieme, può assolvere l'altro? Infatti, inutilmente si adopera ad assolvere un altro chi, a sua volta, è intrappolato nelle stesse catene. E chi vuole far da guida al cieco, è necessario che veda per evitare di diventare, per chi lo segue, il responsabile della sua rovina, come dice la voce della Verità: «Se un cieco fa da guida ad un cieco, tutti e due cadranno nella fossa»[41], e ancora: «Perché osservi la pagliuzza che sta nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che sta nel tuo?[42] Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello»[43]
In questi passi evangelici è annunciato molto chiaramente che chi è schiacciato nelle tenebre del suo peccato, invano tenta di richiamare l'altro alla luce della penitenza. E, se quello non teme di perire nel condurre l'altro fuori strada, sopravvalutando le proprie forze, nello stesso tempo, chi lo segue non può sfuggire alla fossa della rovina.
IX
Del perché il violatore della monaca, così come il profanatore del monaco, debba essere deposto secondo la legge
Ormai mi incontro con te faccia a faccia, o sodomita! Ti rifiuti forse di confessare ai padri spirituali i peccati che hai commesso perché temi di decadere dall'ordine ecclesiastico? Non sarebbe stato meglio che tu sopportassi coraggiosamente la vergogna umana davanti agli uomini piuttosto che subire la punizione eterna del Giudice Supremo? Tu forse mi ribatterai: Se un uomo ha peccato con un altro uomo solamente fra le cosce, deve fare senza dubbio la penitenza, ma considerando la pia benevolenza, non deve essere rimosso irrevocabilmente dall'ordine!. Io ti chiedo: se un monaco ha peccato con una ragazza consacrata a Dio, costui, secondo il tuo giudizio, deve rimanere nel suo grado? Ma tu senza dubbio, ritieni che un uomo così sia da deporre. Ne segue quindi che, ciò che tu sostieni, e giustamente, per la monaca, lo devi ammettere anche per il monaco. Per questo motivo, ciò che tu sembri dichiarare sui monaci, lo devi stabilire anche per i chierici. Tuttavia, mantenendo, come si è detto, questa distinzione poiché questo peccato è considerato tanto peggiore in quanto ritenuto contro natura a causa dell'identità dei sessi, e poiché nella legge sempre si prende in considerazione la volontà del peccatore , chi ha contaminato le cosce maschili farebbe con un maschio tutto ciò che si fa con le donne, se la natura lo permettesse, a causa dell'insania provocata dalla sfrenata libidine. Ha fatto ciò che ha potuto, giungendo fino a queste cose che la natura ha negato. E, anche se controvoglia, ha fissato la meta del crimine lì dove la necessità di natura ha posto il termine insuperabile della possibilità.
Perciò, siccome la stessa legge vale per entrambi i sessi dei monaci, concludiamo che è necessario che come il violatore della monaca è deposto per legge, così anche il profanatore del monaco, secondo le stesse regole, venga allontanato dal suo ufficio.
Perciò, siccome la stessa legge vale per entrambi i sessi dei monaci, concludiamo che è necessario che come il violatore della monaca è deposto per legge, così anche il profanatore del monaco, secondo le stesse regole, venga allontanato dal suo ufficio.
X
Del perché chi ha peccato con la figlia carnale o battesimale sia colpevole della stessa colpa di chi si è contaminato con il figlio di penitenza
Del perché chi ha peccato con la figlia carnale o battesimale sia colpevole della stessa colpa di chi si è contaminato con il figlio di penitenza
La disputa si rivolga ancora contro i sacri, cioè esecrabili, confessori. Se un prete, che è un canonico, ha peccato con una donna, a cui ha assegnato, almeno una volta, la penitenza non c'è dubbio che debba essere degradato dalla censura del giudizio sinodale. Se invece ha peccato con un presbitero o con un chierico di un ordine simile al suo, per il quale sicuramente o è stato giudice nell'assegnargli la penitenza o da cui è stato giudicato nel riceverla, non ha forse disonorato il suo ordine, come suggerisce la giustizia? Infatti, secondo la consuetudine popolare, si può dire figlio di penitenza come figlio di battesimo. Infatti, anche dell'evangelista Marco si legge: «Poiché è figlio di Pietro nel battesimo»[44], e l'egregio predicatore dice: «Cristo infatti non mi mise a battezzare ma ad evangelizzare»[45] poi aggiunge «Qual è infatti la mia gloria davanti al Signore? Non siete forse voi?[46] In Gesù Cristo, infatti, attraverso il vangelo io vi ho generati»[47]. Al contrario, ai Galati dice: «Figlioli miei che faccio nascere dinuovo, affinché Cristo si formi in voi»[48]. Se perciò quello ha generato, quello ha fatto nascere nuovamente, quello non è stato mandato per battezzare ma per evangelizzare, e quindi per stimolare alla penitenza, giustamente si può chiamare figlio chi riceve la penitenza e padre chi la impone. Quindi, se le cose dette prima, vengono osservate con precisione, è più chiaro della luce che è colpevole dello stesso crimine sia chi ha peccato con la figlia battesimale, sia chi ha compiuto oscenità con il figlio di penitenza. E come chi ha peccato con quella che generò carnalmente o che sollevò dal fonte sacro, o a cui ha comminato la penitenza, così anche chi con il figlio di penitenza è scivolato nella sozzura, è giusto che assolutamente venga allontanato dall'ordine per mano di chi lo amministra.
XI
Dei canoni apocrifi che ingannano chiunque confidi in essi
Dei canoni apocrifi che ingannano chiunque confidi in essi
Siccome ai sacri canoni sono mescolate alcune cose ingannevoli nelle quali gli uomini smarriti confidano con vana presunzione, ne inseriamo qui alcune per mostrare quanto siano false e del tutto apocrife, e non solo queste ma anche tutte quelle scritte in modo simile, ovunque vengano ritrovate. Fra le altre cose dicono:
1) un prete, senza voto monacale, che pecca con una fanciulla o con una prostituta, faccia penitenza mangiando sempre pane secco per due anni e per tre Quaresime, il lunedì, il mercoledì, il venerdì e il sabato[49].
2) se pecca con una servitrice o con un servitore di Dio si aumenti il digiuno fino a cinque anni, se la cosa è abituale[50].
3) la stessa penitenza vale per i diaconi, se non sono monaci, per due anni, come anche per i monaci che sono senza grado[51]
Poco dopo viene aggiunto:
4) il chierico, senza voto monacale, che ha peccato con una fanciulla faccia penitenza per mezzo anno; lo stesso vale per il canonico; se hanno peccato frequentemente, per due anni[52]
5) ugualmente se si è peccato come i Sodomiti, alcuni assegnano dieci anni di penitenza; chi lo fa abitualmente, deve essere punito ancora di più; se ha un grado ecclesiastico, deve essere degradato e fare penitenza come un laico[53].
6) un uomo che ha commesso una fornicazione femorale, si penta per un anno, se lo ha rifatto, per due anni[54].
7) se ha commesso una fornicazione anale, si penta per tre anni; se è un ragazzo, per due anni[55].
8) se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni[56]
9) un vescovo che pecca con un animale faccia penitenza per dieci anni e abbandoni il grado; un prete per cinque anni, un diacono per tre anni, un chierico per due anni[57]
Molte altre cose false e sacrileghe si trovano inserite fra i canoni sacri dall'astuzia del diavolo, cose che è preferibile per noi cancellare piuttosto che scrivere, sputarci sopra piuttosto che imprimere sulla carta beffe tanto inconsistenti. Ecco, in questi vaneggiamenti, confidano gli uomini carnali, danno fede a queste fiabe che sono come dei sogni e si ingannano con la sicurezza della vana speranza. Ma vediamo se queste fiabe corrispondono all'autorità canonica, se sono da prendere in considerazione o da scartare. Io le renderò note, non tanto per le parole che dicono quanto per le situazioni che attestano.
1) un prete, senza voto monacale, che pecca con una fanciulla o con una prostituta, faccia penitenza mangiando sempre pane secco per due anni e per tre Quaresime, il lunedì, il mercoledì, il venerdì e il sabato[49].
2) se pecca con una servitrice o con un servitore di Dio si aumenti il digiuno fino a cinque anni, se la cosa è abituale[50].
3) la stessa penitenza vale per i diaconi, se non sono monaci, per due anni, come anche per i monaci che sono senza grado[51]
Poco dopo viene aggiunto:
4) il chierico, senza voto monacale, che ha peccato con una fanciulla faccia penitenza per mezzo anno; lo stesso vale per il canonico; se hanno peccato frequentemente, per due anni[52]
5) ugualmente se si è peccato come i Sodomiti, alcuni assegnano dieci anni di penitenza; chi lo fa abitualmente, deve essere punito ancora di più; se ha un grado ecclesiastico, deve essere degradato e fare penitenza come un laico[53].
6) un uomo che ha commesso una fornicazione femorale, si penta per un anno, se lo ha rifatto, per due anni[54].
7) se ha commesso una fornicazione anale, si penta per tre anni; se è un ragazzo, per due anni[55].
8) se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni[56]
9) un vescovo che pecca con un animale faccia penitenza per dieci anni e abbandoni il grado; un prete per cinque anni, un diacono per tre anni, un chierico per due anni[57]
Molte altre cose false e sacrileghe si trovano inserite fra i canoni sacri dall'astuzia del diavolo, cose che è preferibile per noi cancellare piuttosto che scrivere, sputarci sopra piuttosto che imprimere sulla carta beffe tanto inconsistenti. Ecco, in questi vaneggiamenti, confidano gli uomini carnali, danno fede a queste fiabe che sono come dei sogni e si ingannano con la sicurezza della vana speranza. Ma vediamo se queste fiabe corrispondono all'autorità canonica, se sono da prendere in considerazione o da scartare. Io le renderò note, non tanto per le parole che dicono quanto per le situazioni che attestano.
XII
Probabile confutazione dei canoni suddetti
Probabile confutazione dei canoni suddetti
Tornando all'inizio di questo capitolo capzioso, leggiamo: se un prete, che non ha fatto voto di monaco, pecca con una fanciulla o con una prostituta, si penta per due anni. Ma chi è tanto stupido, tanto pazzo da credere alla penitenza di due anni per il prete colto nel peccato? Chiunque, infatti, abbia una minima conoscenza dell'autorità canonica o una buona conoscenza, evitiamo di dare i giudizi più severi, riconosce chiaramente che per il prete caduto nel peccato, la penitenza deve essere almeno di dieci anni. Inoltre, la penitenza di due anni per la fornicazione non deve essere applicata ai sacerdoti ma neanche ai laici, i quali da questa rovina passano velocemente al compimento della penitenza; per loro la pena è di tre anni. In seguito si aggiunge: (2) «Se avrà peccato con una servitrice o un servitore di Dio, si aumenti il digiuno - fino a cinque anni, se la cosa è abituale», (3)«la stessa penitenza vale per i diaconi, se non sono monaci, per due anni, come anche per i monaci che sono senza grado». Io guardo alacremente e rivolgo con piacere l'attenzione all'inizio di questa sentenza, senza dubbio si dice questo: «se con una servitrice o un servitore di Dio». Ecco, o buon sodomita, in questo tuo scritto, che ti piace in modo particolare, che abbracci avidamente, che metti avanti a te a guisa di scudo difensivo, tu dichiari apertamente che non c'è alcuna differenza se si pecca con una servitrice o un servitore di Dio. A parità di peccato deve essere assegnata una penitenza uguale. Ormai non c'è più niente per cui tu possa combattere con me, niente per cui tu possa dissentire con le mie incriminazioni, secondo la legge.
Ma chi è così tanto fuor di senno, chi è sprofondato così tanto nelle tenebre da stabilire la penitenza di cinque anni per un prete che ha peccato con un'ancella di Dio, cioè con una religiosa, e di due anni per un diacono o per un monaco? Questo non è forse un cappio insidiatore per coloro che sono perduti? Non è un laccio per le anime erranti? Inoltre, come si può non disapprovare che (4) «il chierico, senza voto monacale, che ha peccato con una fanciulla deve fare penitenza per mezzo anno»? E chi è tanto esperto nella conoscenza della Sacra Scrittura e tanto ferrato nell'acume della sottigliezza dialettica, da non pensare di condannare questa legge con un'altra legge e, lodevolmente, il giudicabile pregiudizio di un'autorità detestabile? In base a che cosa si commina al laico una pena di tre anni e al chierico di mezz'anno? Quindi, sono fortunati i chierici peccatori se vengono giudicati dall'arbitrio dei sodomiti: certamente la stessa misura con cui giudicano gli altri desiderano che sia usata per loro.
A sufficienza, questo autore di errori è stato avido nell'acquistare anime per il diavolo, lui che, mentre si ingegnava a rovinare i monaci, estendeva i dogmi della sua perversione all'ordine dei chierici. Inoltre, questo omicida di anime, quando non ha potuto riempire completamente lo stomaco della sua malizia solo con la morte dei chierici, ha bramato di saziarsi anche nell'altro ordine.
Poi, segue questo: (5)«se si è peccato come i Sodomiti, alcuni assegnano dieci anni di penitenza; chi lo fa abitualmente, deve essere punito ancora di più; se ha un grado ecclesiastico, deve essere degradato e fare penitenza come un laico», (7)«se ha commesso una fornicazione anale, si penta per tre anni; se è un ragazzo, per due anni». (8)«se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni». Quando peccare come un Sodomita non significa nient'altro, voi stessi lo raccontate, che commettere fornicazione anale. Che cos'è che i vostri canoni, quasi in una sola riga, escogitano di così tanto multiforme e vario da imporre, ai peccatori sodomiti, il peso di un decennio e a coloro che commettono fornicazione anale, che è la stessa cosa, limitano invece la penitenza a tre anni? Queste cose non si potrebbero forse paragonare giustamente a dei mostri, non prodotti dalla natura ma dall'industria umana, fra i quali certi iniziano con la testa di cavallo e finiscono con zampe caprine? Perciò a quali canoni, a quali decreti dei Padri queste cose si beffano di corrispondere e che sono tanto dissonanti e sono echi di un sopracciglio cornuto? Se ciascuna lacera se stessa, con quali autorità si rafforzano? «Ogni regno diviso contro se stesso - dice il Salvatore - va in rovina e una casa crolla sull'altra. Se dunque Satana è in lotta contro se stesso, come potrà durare il regno?»[58]. Infatti, sembrano tendere soltanto verso un giudizio di impedimento, crudele, quasi per esibire misericordia. E come nel mostro della Chimera, da un lato la sua parte leonina tuona terribili minacce, dall'altro lato la vile capretta bela umilmente, così suscitano, per questa varietà di forme, il riso piuttosto che stimolare i lamenti della penitenza.
Anche le formule che seguono sono sbagliate come queste: (8)«se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni» (9)«un vescovo che pecca con un animale faccia penitenza per dieci anni e abbandoni il grado; un prete per cinque anni, un diacono per tre anni, un chierico per due anni». Ma se, in modo assoluto, prima dice: «Se ha fornicato con un animale o con un mulo deve essere punito con una pena di dieci anni», dopo come può aggiungere che si deve imporre, per l'accoppiamento bestiale, la penitenza di cinque anni per il prete, di tre per il diacono e di due per il chierico? Se ne ricava quindi, che chiunque, anche un qualsiasi laico è costretto a pentirsi per 10 anni, mentre al prete è imposto un quinquennio di penitenza, cioè gli viene detratta metà della pena. Io chiedo: questi frivoli sogni, a quali pagine dei sacri canoni corrispondono, visto che ne sono chiaramente una variante? Chi non giudica, chi non vede chiaramente che queste cose e altre simili, miste ai sacri canoni con l'inganno, sono immagini diaboliche e inventate da macchinazioni astute per aggirare le anime dei semplici? Come, infatti, al miele, o a qualsiasi cibo saporito, viene aggiunto con la truffa, del veleno, perché, mentre la bontà inviti a divorare gli alimenti, il veleno nascosto si riversi facilmente nelle interiora dell'uomo, così questi commenti subdoli e falsi sono inseriti nei discorsi sacri per eludere il sospetto di falsità. Essi sono spalmati con una specie di miele e sembrano insaporiti della dolcezza della falsa pietà. Ma stai in guardia da queste falsità, chiunque tu sia, affinché non ti accarezzi il carme delle sirene[59] con la sua soavità portatrice di morte, affinché la nave della tua mente non sprofondi nella voragine di Scilla[60]
Non ti far spaventare dal mare dei santi concili, presentato forse con troppa austerità, non ti far attrarre dalle sirti[61] guadabili dei canoni apocrifi con la promessa della mitezza dei flutti. Spesso infatti, la nave, cercando di sfuggire ai flutti tempestosi, si è avvicinata alla sabbia della riva ed è naufragata, mentre, solcando la profondità del mare, ne è uscita incolume senza perdere il carico.
Ma chi è così tanto fuor di senno, chi è sprofondato così tanto nelle tenebre da stabilire la penitenza di cinque anni per un prete che ha peccato con un'ancella di Dio, cioè con una religiosa, e di due anni per un diacono o per un monaco? Questo non è forse un cappio insidiatore per coloro che sono perduti? Non è un laccio per le anime erranti? Inoltre, come si può non disapprovare che (4) «il chierico, senza voto monacale, che ha peccato con una fanciulla deve fare penitenza per mezzo anno»? E chi è tanto esperto nella conoscenza della Sacra Scrittura e tanto ferrato nell'acume della sottigliezza dialettica, da non pensare di condannare questa legge con un'altra legge e, lodevolmente, il giudicabile pregiudizio di un'autorità detestabile? In base a che cosa si commina al laico una pena di tre anni e al chierico di mezz'anno? Quindi, sono fortunati i chierici peccatori se vengono giudicati dall'arbitrio dei sodomiti: certamente la stessa misura con cui giudicano gli altri desiderano che sia usata per loro.
A sufficienza, questo autore di errori è stato avido nell'acquistare anime per il diavolo, lui che, mentre si ingegnava a rovinare i monaci, estendeva i dogmi della sua perversione all'ordine dei chierici. Inoltre, questo omicida di anime, quando non ha potuto riempire completamente lo stomaco della sua malizia solo con la morte dei chierici, ha bramato di saziarsi anche nell'altro ordine.
Poi, segue questo: (5)«se si è peccato come i Sodomiti, alcuni assegnano dieci anni di penitenza; chi lo fa abitualmente, deve essere punito ancora di più; se ha un grado ecclesiastico, deve essere degradato e fare penitenza come un laico», (7)«se ha commesso una fornicazione anale, si penta per tre anni; se è un ragazzo, per due anni». (8)«se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni». Quando peccare come un Sodomita non significa nient'altro, voi stessi lo raccontate, che commettere fornicazione anale. Che cos'è che i vostri canoni, quasi in una sola riga, escogitano di così tanto multiforme e vario da imporre, ai peccatori sodomiti, il peso di un decennio e a coloro che commettono fornicazione anale, che è la stessa cosa, limitano invece la penitenza a tre anni? Queste cose non si potrebbero forse paragonare giustamente a dei mostri, non prodotti dalla natura ma dall'industria umana, fra i quali certi iniziano con la testa di cavallo e finiscono con zampe caprine? Perciò a quali canoni, a quali decreti dei Padri queste cose si beffano di corrispondere e che sono tanto dissonanti e sono echi di un sopracciglio cornuto? Se ciascuna lacera se stessa, con quali autorità si rafforzano? «Ogni regno diviso contro se stesso - dice il Salvatore - va in rovina e una casa crolla sull'altra. Se dunque Satana è in lotta contro se stesso, come potrà durare il regno?»[58]. Infatti, sembrano tendere soltanto verso un giudizio di impedimento, crudele, quasi per esibire misericordia. E come nel mostro della Chimera, da un lato la sua parte leonina tuona terribili minacce, dall'altro lato la vile capretta bela umilmente, così suscitano, per questa varietà di forme, il riso piuttosto che stimolare i lamenti della penitenza.
Anche le formule che seguono sono sbagliate come queste: (8)«se ha fornicato con un animale o con un mulo, si penta per dieci anni» (9)«un vescovo che pecca con un animale faccia penitenza per dieci anni e abbandoni il grado; un prete per cinque anni, un diacono per tre anni, un chierico per due anni». Ma se, in modo assoluto, prima dice: «Se ha fornicato con un animale o con un mulo deve essere punito con una pena di dieci anni», dopo come può aggiungere che si deve imporre, per l'accoppiamento bestiale, la penitenza di cinque anni per il prete, di tre per il diacono e di due per il chierico? Se ne ricava quindi, che chiunque, anche un qualsiasi laico è costretto a pentirsi per 10 anni, mentre al prete è imposto un quinquennio di penitenza, cioè gli viene detratta metà della pena. Io chiedo: questi frivoli sogni, a quali pagine dei sacri canoni corrispondono, visto che ne sono chiaramente una variante? Chi non giudica, chi non vede chiaramente che queste cose e altre simili, miste ai sacri canoni con l'inganno, sono immagini diaboliche e inventate da macchinazioni astute per aggirare le anime dei semplici? Come, infatti, al miele, o a qualsiasi cibo saporito, viene aggiunto con la truffa, del veleno, perché, mentre la bontà inviti a divorare gli alimenti, il veleno nascosto si riversi facilmente nelle interiora dell'uomo, così questi commenti subdoli e falsi sono inseriti nei discorsi sacri per eludere il sospetto di falsità. Essi sono spalmati con una specie di miele e sembrano insaporiti della dolcezza della falsa pietà. Ma stai in guardia da queste falsità, chiunque tu sia, affinché non ti accarezzi il carme delle sirene[59] con la sua soavità portatrice di morte, affinché la nave della tua mente non sprofondi nella voragine di Scilla[60]
Non ti far spaventare dal mare dei santi concili, presentato forse con troppa austerità, non ti far attrarre dalle sirti[61] guadabili dei canoni apocrifi con la promessa della mitezza dei flutti. Spesso infatti, la nave, cercando di sfuggire ai flutti tempestosi, si è avvicinata alla sabbia della riva ed è naufragata, mentre, solcando la profondità del mare, ne è uscita incolume senza perdere il carico.
XIII
Di quelle beffe che, secondo la legge, sono escluse dai canoni perché sembrano non avere un autore certo[62]
Di quelle beffe che, secondo la legge, sono escluse dai canoni perché sembrano non avere un autore certo[62]
Ma, ciononostante, chi ha scritto questi canoni? Chi pensò di seminare nel bosco purpureo della chiesa i triboli di marruca, tanto spinosi e tanto aculeati? Certamente, è chiaro che tutti i canoni autentici o sono contenuti nei venerandi concili sinodali, o sono promulgati dai santi pontefici della sede apostolica. A nessun uomo è consentito stabilire da solo i canoni, questo privilegio compete soltanto a colui che viene scelto per presiedere il solio papale. Questi commenti, invece, di cui parliamo noi, sono rampolli illegittimi dei canoni, sono esclusi dai sacri concili e sono del tutto estranei ai decreti dei Padri. Quindi, siccome non sono in alcun modo presenti fra i canoni,[63]non sembrano né stabiliti dai decretali dei Padri, né nascere dai sacri concili. Qualsiasi cosa, infatti, non annoverata fra le diverse specie, è da giudicare senza dubbio estranea. Perciò, se si cerca il nome dell'autore, non lo si può dire per certo perché non si ritrova sempre nei vari codici. In un posto c'è scritto «dice Teodoro», in un altro «dice il Penitenziale Romano», in un altro ancora «i Canoni degli Apostoli». Qui sono intitolati in un modo, lì in un altro, e siccome non sono degni di avere un solo autore, perdono senza dubbio, ogni autorità[64]. Infatti, vacillano sotto autorità tutte incerte e niente suggerisce quale sia la vera autorità. Ed è necessario che quei canoni apocrifi che generano dubbi ai lettori, siano allontanati dalla luce delle Sacre Scritture, le quali sono libere da ogni perplessità. Ora, perciò, aggiungiamo a queste stravaganze sceniche, in cui credevano gli uomini dediti alle passioni carnali e che sono eliminate dal numero dei canoni e confutate con argomentazioni trasparenti, quei canoni di cui diffidiamo per fede, per assenza di autorità, insomma per ambiguità. Si attinge proprio dal concilio di Ancira.
XIV
Di quelli che hanno peccato irrazionalmente, vale a dire che si sono uniti con le bestie e si sono contaminati con i maschi
Di quelli che hanno peccato irrazionalmente, vale a dire che si sono uniti con le bestie e si sono contaminati con i maschi
Quelli che sono vissuti o vivono irrazionalmente: quanti prima del ventesimo anno hanno commesso tale peccato, dopo quindici anni di penitenza, meritano di entrare nella comunità delle preghiere, solo dopo cinque anni di permanenza in questa comunità ottengono il sacramento della penitenza. Inoltre, durante il tempo della penitenza si dovrà discutere della qualità della loro vita e così otterranno misericordia. Se essi continuano insaziabilmente a commettere questi peccati, impiegano un tempo più lungo per fare penitenza. Quanti invece sono caduti in questo peccato e hanno superato l'età dei venti anni e sono sposati, dopo venticinque anni di penitenza, sono accolti nella comunità delle preghiere e vi rimangono per cinque anni; soltanto allora ricevono l'eucarestia. Infine, se quelli che hanno peccato sono sposati e superano i cinquant'anni di età, ricevono la grazia dell'eucarestia alla fine della loro vita[65]
Come si vede, nel titolo stesso di questa venerabile autorità leggiamo chiaramente che non solo coloro che hanno fornicato di dietro[66], ma anche quelli che in qualsiasi modo si sono contaminati con dei maschi sono del tutto confrontabili a quelli che si accoppiano con le bestie. Per questo, infatti, facciamo attenzione alle espressioni interposte e, cautamente, con la bilancia del sommo discernimento indaghiamo le cose che sono state affermate dove si dice: «Quelli che si sono uniti con le bestie o che si sono contaminati con i maschi». Se infatti con l'espressione che si sono contaminati con i maschi avesse voluto significare quelli che fornicano di dietro, non sarebbe stato affatto necessario che usasse due termini, poiché con uno solo, vale a dire si uniscono (miscentur), avrebbe potuto esprimere il suo pensiero. Sarebbe bastato dire, se con una sola parola avesse voluto condensare tutta l'affermazione, coloro che si uniscono con le bestie o con i maschi. Unirsi infatti indica allo stesso modo sia chi viola le bestie sia chi viola i maschi. Ma poiché dice che alcuni si uniscono con le bestie, altri non si uniscono ma si contaminano con i maschi, è evidente, senza dubbio, che alla fine la sentenza si riferisce non a quelli che violano i maschi, ma a quelli che li contaminano. Inoltre, è degno di nota l'editto di questa costituzione, fatto precipuamente per i laici, come si può ben vedere in ciò che nelle righe seguenti si aggiunge: «quanti invece, hanno superato i venti anni e sono sposati, sono caduti in questo peccato, facendo venticinque anni di penitenza, vengono accolti nella comunità delle preghiere e vi rimangono per cinque anni; allora soltanto ricevono il dono dell'eucarestia».
Se perciò, un qualunque laico, reo di questo peccato, dopo aver fatto i venticinque anni di penitenza, entra certamente nella comunità delle preghiere, non viene però ancora ammesso a ricevere l'eucarestia, per quale ragione, un religioso sarà giudicato idoneo non solo a dare ma anche a ricevere e a consacrarsi ai santi misteri? Se a mala pena, a quello è permesso di entrare a pregare in Chiesa con altri, per quale ragione, si concede a costui di avvicinarsi all'altare e intercedere per altri? Se quello non ha trascorso prima un lungo periodo di penitenza, non merita neanche di ascoltare la messa, per quale ragione costui è degno di celebrare la solennità della messa? Se quello che ha peccato di meno, quando, ad esempio, percorreva il sentiero secolare, non è degno di ricevere con la bocca il premio dell'Eucarestia, per quale motivo, costui sarà meritevole di toccare il tanto venerabile mistero con le sue mani macchiate? Vediamo che cosa, lo stesso concilio di Ancira, ha stabilito riguardo a questo peccato.
Come si vede, nel titolo stesso di questa venerabile autorità leggiamo chiaramente che non solo coloro che hanno fornicato di dietro[66], ma anche quelli che in qualsiasi modo si sono contaminati con dei maschi sono del tutto confrontabili a quelli che si accoppiano con le bestie. Per questo, infatti, facciamo attenzione alle espressioni interposte e, cautamente, con la bilancia del sommo discernimento indaghiamo le cose che sono state affermate dove si dice: «Quelli che si sono uniti con le bestie o che si sono contaminati con i maschi». Se infatti con l'espressione che si sono contaminati con i maschi avesse voluto significare quelli che fornicano di dietro, non sarebbe stato affatto necessario che usasse due termini, poiché con uno solo, vale a dire si uniscono (miscentur), avrebbe potuto esprimere il suo pensiero. Sarebbe bastato dire, se con una sola parola avesse voluto condensare tutta l'affermazione, coloro che si uniscono con le bestie o con i maschi. Unirsi infatti indica allo stesso modo sia chi viola le bestie sia chi viola i maschi. Ma poiché dice che alcuni si uniscono con le bestie, altri non si uniscono ma si contaminano con i maschi, è evidente, senza dubbio, che alla fine la sentenza si riferisce non a quelli che violano i maschi, ma a quelli che li contaminano. Inoltre, è degno di nota l'editto di questa costituzione, fatto precipuamente per i laici, come si può ben vedere in ciò che nelle righe seguenti si aggiunge: «quanti invece, hanno superato i venti anni e sono sposati, sono caduti in questo peccato, facendo venticinque anni di penitenza, vengono accolti nella comunità delle preghiere e vi rimangono per cinque anni; allora soltanto ricevono il dono dell'eucarestia».
Se perciò, un qualunque laico, reo di questo peccato, dopo aver fatto i venticinque anni di penitenza, entra certamente nella comunità delle preghiere, non viene però ancora ammesso a ricevere l'eucarestia, per quale ragione, un religioso sarà giudicato idoneo non solo a dare ma anche a ricevere e a consacrarsi ai santi misteri? Se a mala pena, a quello è permesso di entrare a pregare in Chiesa con altri, per quale ragione, si concede a costui di avvicinarsi all'altare e intercedere per altri? Se quello non ha trascorso prima un lungo periodo di penitenza, non merita neanche di ascoltare la messa, per quale ragione costui è degno di celebrare la solennità della messa? Se quello che ha peccato di meno, quando, ad esempio, percorreva il sentiero secolare, non è degno di ricevere con la bocca il premio dell'Eucarestia, per quale motivo, costui sarà meritevole di toccare il tanto venerabile mistero con le sue mani macchiate? Vediamo che cosa, lo stesso concilio di Ancira, ha stabilito riguardo a questo peccato.
XV
Di quelli che un tempo si sono contaminati con gli animali o con i maschi, o che tuttora languiscono in questo vizio
Di quelli che un tempo si sono contaminati con gli animali o con i maschi, o che tuttora languiscono in questo vizio
«A quelli che vissero irrazionalmente e contaminarono altri con la lebbra dell'ingiusto crimine, il santo sinodo comandò di pregare fra quelli che sono invasati da uno spirito immondo»[67].
Chiaramente, mentre non dice «coloro che corruppero altri con la lebbra dell'ingiusto crimine, ma dice contaminarono, cosa che concorda anche con lo stesso titolo di prima, dove non ha esordito parlando di quelli che si corruppero, ma di quelli che si contaminarono. È evidente, senza dubbio, che in qualunque modo un uomo si contamini con un altro uomo, gli viene ordinato di pregare non fra i Cattolici Cristiani, ma fra gli indemoniati. Se i sodomiti da soli non sanno pensare che cosa siano, come potrebbero essere istruiti da quelli con i quali devono trascorrere tutto il tempo della preghiera comune?
Ed è certamente giusto che chi raccomanda, contro la legge della natura e contro la ragione umana, la propria carne ai demoni con dei patti commerciali, ricevano in sorte di dividere con gli indemoniati un comune angolo di preghiera. Infatti, poiché la natura umana, con tutta se stessa si oppone a questi mali e all'incompatibilità dei sessi, sussiste chiaramente che in nessun modo possono presumere cose tanto contrarie e tanto lontane se non quegli spiriti iniqui che possiedono completamente quei «vasi dell'ira approntati per la perdizione»[68]. Ma quando cominciano a possederli, allora per ogni vaso che riempiono, invasi nel petto, infondono il virus orribile della loro malvagità. Così, già desiderano quelle cose che il moto naturale della carne non abbatte, ma che la sola caduta diabolica fornisce. Infatti, quando un uomo si unisce con un altro uomo per commettere il peccato, non è quello un impeto naturale della carne ma solamente lo stimolo della diabolica istigazione. Perciò, i santi Padri sancirono accuratamente che i sodomiti pregassero insieme ai pazzi, perché non dubitavano che fossero invasati del stesso spirito diabolico. Per quale motivo, quindi, grazie alla dignità dell'ufficio sacerdotale, continua a fare da mediatore fra Dio e il popolo, colui che si è allontanato dalla congregazione di tutto il popolo e che quindi non potrebbe pregare se non fra gli indemoniati? Ma poiché ci siamo curati di fornire due testimonianze tratte da un solo sacro concilio, inseriamo anche ciò che il grande Basilio pensa di questo vizio di cui stiamo parlando, perché «ogni questione venga decisa sulla parola di due o tre testimoni»[69]. Egli dice:
Chiaramente, mentre non dice «coloro che corruppero altri con la lebbra dell'ingiusto crimine, ma dice contaminarono, cosa che concorda anche con lo stesso titolo di prima, dove non ha esordito parlando di quelli che si corruppero, ma di quelli che si contaminarono. È evidente, senza dubbio, che in qualunque modo un uomo si contamini con un altro uomo, gli viene ordinato di pregare non fra i Cattolici Cristiani, ma fra gli indemoniati. Se i sodomiti da soli non sanno pensare che cosa siano, come potrebbero essere istruiti da quelli con i quali devono trascorrere tutto il tempo della preghiera comune?
Ed è certamente giusto che chi raccomanda, contro la legge della natura e contro la ragione umana, la propria carne ai demoni con dei patti commerciali, ricevano in sorte di dividere con gli indemoniati un comune angolo di preghiera. Infatti, poiché la natura umana, con tutta se stessa si oppone a questi mali e all'incompatibilità dei sessi, sussiste chiaramente che in nessun modo possono presumere cose tanto contrarie e tanto lontane se non quegli spiriti iniqui che possiedono completamente quei «vasi dell'ira approntati per la perdizione»[68]. Ma quando cominciano a possederli, allora per ogni vaso che riempiono, invasi nel petto, infondono il virus orribile della loro malvagità. Così, già desiderano quelle cose che il moto naturale della carne non abbatte, ma che la sola caduta diabolica fornisce. Infatti, quando un uomo si unisce con un altro uomo per commettere il peccato, non è quello un impeto naturale della carne ma solamente lo stimolo della diabolica istigazione. Perciò, i santi Padri sancirono accuratamente che i sodomiti pregassero insieme ai pazzi, perché non dubitavano che fossero invasati del stesso spirito diabolico. Per quale motivo, quindi, grazie alla dignità dell'ufficio sacerdotale, continua a fare da mediatore fra Dio e il popolo, colui che si è allontanato dalla congregazione di tutto il popolo e che quindi non potrebbe pregare se non fra gli indemoniati? Ma poiché ci siamo curati di fornire due testimonianze tratte da un solo sacro concilio, inseriamo anche ciò che il grande Basilio pensa di questo vizio di cui stiamo parlando, perché «ogni questione venga decisa sulla parola di due o tre testimoni»[69]. Egli dice:
XVI
Dei chierici o dei monaci che importunano i maschi
Dei chierici o dei monaci che importunano i maschi
«Un chierico o un monaco che molesta gli adolescenti o i giovani, o chi è stato sorpreso a baciare o in un altro turpe atteggiamento, venga sferzato pubblicamente e perda la sua tonsura. Dopo essere stato rasato, venga ricoperto di sputi e stretto con catene di ferro, venga lasciato marcire nell'angustia del carcere per sei mesi. Al vespro, per tre giorni la settimana mangi pane d'orzo. Dopo, per altri sei mesi, sotto la custodia di un padre spirituale, vivendo segregato in un piccolo cortile, venga occupato con lavori manuali e con la preghiera. Sia sottoposto a digiuni e a preghiere, e cammini sempre sotto la custodia di due fratelli spirituali, senza alcuna frase perversa, o venga unito in concilio con i più giovani»[70].
Questo sodomita valuti a fondo se abbia amministrato bene i suoi uffici ecclesiastici, poiché la sacra autorità giudica questi oltraggi tanto ignominiosi e tanto turpi. Né si lasci tentare affinché non abbia a corrompere nessuno di dietro, né ad unirsi con nessuno fra le cosce[71], perché, come vede chiaramente scritto, chi viene sorpreso anche solo a dare un bacio o in un altro turpe atteggiamento, sarà sottoposto, e giustamente, a tutti quei turbamenti provocati dal comportamento vergognoso. Se un bacio viene punito col supplizio di una severa punizione, questa fornicazione femorale[72] che cosa merita? Infatti, per punire questo crimine, questo delitto grandissimo, non sarebbe sufficiente essere sferzati pubblicamente, perdere la tonsura, essere rapati turpemente, essere imbrattati della sporcizia della saliva, essere chiusi a lungo nelle angustie del carcere e essere stretti da catene di ferro? Infine gli viene ordinato anche di mangiare pane d'orzo, perché chi è come il cavallo o il mulo[73] non si riprende con il cibo degli uomini ma si nutre con il frumento degli animali[74]
Se poi ci fossimo dimenticati del peso di questo peccato, lo avremmo ritrovato sottolineato chiaramente nella penitenza che viene imposta. Ciascuno infatti è costretto dalla censura canonica a subire una penitenza pubblica e, senza alcun dubbio, chi non è degno degli uffici ecclesiastici è giudicato, come abbiamo visto, dalla limpida sentenza dei Padri. Per questa ragione, il beato papa Siricio, fra le altre cose, scrisse: «Sarebbe bene che anche noi usassimo più cautela nel concedere a qualunque chierico di fare penitenza, così come a nessun laico è permesso, dopo la penitenza e la riconciliazione, di entrare nell'ordine ecclesiastico. Perché quelli che poco tempo fa erano come vasi approntati per i vizi, per quanto vengano mondati dal contagio di ogni peccato, non devono tuttavia possedere nessun potere per amministrare i sacramenti»[75]. Quindi, S. Basilio ha stabilito che il colpevole di questo peccato non subisse soltanto una severa ma anche pubblica penitenza, e con molta chiarezza Siricio proibisce al penitente di ricevere l'ordinazione clericale. Di conseguenza, chi si è macchiato con un maschio con quella vergognosa libidine, non merita di servire gli uffici ecclesiastici, né sono degni di toccare il mistero divino quelli che, come si è detto, sono stati di recente contenitori di vizi.
Questo sodomita valuti a fondo se abbia amministrato bene i suoi uffici ecclesiastici, poiché la sacra autorità giudica questi oltraggi tanto ignominiosi e tanto turpi. Né si lasci tentare affinché non abbia a corrompere nessuno di dietro, né ad unirsi con nessuno fra le cosce[71], perché, come vede chiaramente scritto, chi viene sorpreso anche solo a dare un bacio o in un altro turpe atteggiamento, sarà sottoposto, e giustamente, a tutti quei turbamenti provocati dal comportamento vergognoso. Se un bacio viene punito col supplizio di una severa punizione, questa fornicazione femorale[72] che cosa merita? Infatti, per punire questo crimine, questo delitto grandissimo, non sarebbe sufficiente essere sferzati pubblicamente, perdere la tonsura, essere rapati turpemente, essere imbrattati della sporcizia della saliva, essere chiusi a lungo nelle angustie del carcere e essere stretti da catene di ferro? Infine gli viene ordinato anche di mangiare pane d'orzo, perché chi è come il cavallo o il mulo[73] non si riprende con il cibo degli uomini ma si nutre con il frumento degli animali[74]
Se poi ci fossimo dimenticati del peso di questo peccato, lo avremmo ritrovato sottolineato chiaramente nella penitenza che viene imposta. Ciascuno infatti è costretto dalla censura canonica a subire una penitenza pubblica e, senza alcun dubbio, chi non è degno degli uffici ecclesiastici è giudicato, come abbiamo visto, dalla limpida sentenza dei Padri. Per questa ragione, il beato papa Siricio, fra le altre cose, scrisse: «Sarebbe bene che anche noi usassimo più cautela nel concedere a qualunque chierico di fare penitenza, così come a nessun laico è permesso, dopo la penitenza e la riconciliazione, di entrare nell'ordine ecclesiastico. Perché quelli che poco tempo fa erano come vasi approntati per i vizi, per quanto vengano mondati dal contagio di ogni peccato, non devono tuttavia possedere nessun potere per amministrare i sacramenti»[75]. Quindi, S. Basilio ha stabilito che il colpevole di questo peccato non subisse soltanto una severa ma anche pubblica penitenza, e con molta chiarezza Siricio proibisce al penitente di ricevere l'ordinazione clericale. Di conseguenza, chi si è macchiato con un maschio con quella vergognosa libidine, non merita di servire gli uffici ecclesiastici, né sono degni di toccare il mistero divino quelli che, come si è detto, sono stati di recente contenitori di vizi.
XVII
La giusta condanna di questa abominevole infamia
La giusta condanna di questa abominevole infamia
Questo vizio certamente non è affatto paragonabile a nessun altro vizio, poiché supera in gravità tutti gli altri vizi. Infatti, questo vizio è la morte dei corpi, la rovina delle anime. Contamina la carne, spegne la luce della mente. Scaccia lo Spirito Santo dal tempio del petto umano, introduce il diavolo istigatore della lussuria, fa sbagliare, sradica la verità dalla mente che è stata ingannata. Prepara tranelli per chi entra e a chi è caduto nella fossa, la ostruisce perché non esca. Apre l'inferno e chiude la porta del Paradiso. Fa del cittadino della Gerusalemme celeste l'erede della Babilonia infernale. Fa di una stella del cielo la stoppia del fuoco eterno. Lacera il corpo della Chiesa e lo getta nel fuoco della bollente Geenna. Questo vizio cerca di abbattere i muri della patria suprema e si affanna a riparare le mura della rinata Sodoma bruciata. Questo vizio viola la sobrietà, soffoca la pudicizia, massacra la castità, trucida con la spada del terribile contagio la verginità irrecuperabile. Deturpa tutte le cose, macchia tutto, contamina tutto. Nulla di ciò che lo circonda rimane puro, lontano dalla lordura, pulito. «Tutto è puro per i puri, per coloro invece che sono contaminati e infedeli, niente è puro»[76].
Questo vizio allontana dalla comunità ecclesiastica e relega a pregare con i pazzi e con quelli che lavorano per il demonio; separa l'anima da Dio per unirla ai demoni. Questa nocivissima regina dei Sodomiti crea seguaci delle sue leggi tiranniche, luridi per gli uomini e odiosi per Dio. Ordina di intrecciare guerre scellerate contro Dio e al militante di portare il peso di un'anima pessima. Allontana dalla comunione degli angeli e imprigiona l'anima infelice sotto il giogo del proprio dominio grazie al suo potere. Spoglia i suoi militari delle armi virtuose e li espone ai dardi dei vizi perché ne siano trafitti. Umilia nella chiesa, condanna nella legge. Deturpa in segreto e disonora in pubblico. Rosicchia la coscienza come un verme, brucia la carne come il fuoco. Brama che il desiderio si sazi e, al contrario, teme che non si faccia vedere, che non esca in pubblico, che non si divulghi fra gli uomini. Colui che prova paura al pensiero di essere lui stesso partecipe di questa rovina, non dovrebbe temere questo vizio? Di certo però non si preoccupa se quello con cui pecca diventa il giudice della scelleratezza nella confessione. Infatti, non solo non esita a confessare che ha peccato, ma lo confessa a quello con cui ha peccato: così succede che, come uno di loro non può morire nel peccato senza che l'altro non stia morendo, così quello che risorge offre l'occasione all'altro per risorgere. Arde la misera carne per il furore della libidine, trema la mente sciocca a causa del rancore del sospetto, nel petto del misero uomo già si solleva il caos infernale. Quanti sono quelli punti dagli aculei dei pensieri immondi, altrettanti sono quelli tormentati dai supplizi delle pene. Sono davvero infelici le anime dopo che questo velenosissimo serpente le ha morse. Toglie subito la facoltà di pensare, cancella la memoria, oscura l'acutezza della mente, fa dimenticare Dio e anche se stesso. Questa peste infatti, annulla il sentimento della fede, infiacchisce la forza della speranza, cancella il vincolo della carità, toglie la giustizia, abbatte il coraggio, rimuove la temperanza, smussa l'acume della prudenza.
Cosa si può dire di più? Dal momento che allontana ogni angolo di virtù dal cuore umano e fa entrare ogni sorta di vizi, come se i catenacci delle porte fossero stati divelti? Sicuramente, la sentenza di Geremia si adatta a quella che, sotto l'aspetto terreno, viene chiamata Gerusalemme: «l'avversario ha steso la sua mano dice su tutti i suoi tesori; ha visto entrare i pagani nel suo santuario, coloro ai quali tu avevi ordinato che non entrassero nella tua assemblea»[77]. Senza dubbio, questa bestia atrocissima divora in un solo boccone con le sue fauci cruente, tiene lontano chiunque, con le sue catene, dalle opere buone, fa cadere precipitosamente giù per i dirupi dell'oscena perversità. Presto, sicuramente, chiunque sia caduto in questo abisso della perdizione estrema sarà mandato via, come un esule, dalla patria suprema. Sarà separato dal corpo di Cristo, verrà allontanato dall'autorità di tutta la Chiesa, sarà condannato dal giudizio di tutti i Santi Padri, sulla terra verrà disprezzato dagli uomini, sarà respinto dall'abitazione dei cittadini celesti. Per lui il cielo diventerà di ferro e la terra di bronzo[78], né da lì può risollevarsi, gravato dal peso del delitto, né può qui nascondere a lungo i suoi mali nella tana dell'ignoranza. Qui non può godere finché vive, né lì sperare finché pecca, perché ora è costretto a sopportare l'obbrobrio dell'umana derisione e dopo il tormento dell'eterna dannazione. È evidente che a quest'anima si riferisce quella voce della lamentazione profetica in cui si dice: «Vedi, Signore, che angoscia è la mia, le mie viscere fremono, il mio cuore è sconvolto in me, perché sono stata ribelle: fuori la spada uccide, in casa è come la morte»[79]
Questo vizio allontana dalla comunità ecclesiastica e relega a pregare con i pazzi e con quelli che lavorano per il demonio; separa l'anima da Dio per unirla ai demoni. Questa nocivissima regina dei Sodomiti crea seguaci delle sue leggi tiranniche, luridi per gli uomini e odiosi per Dio. Ordina di intrecciare guerre scellerate contro Dio e al militante di portare il peso di un'anima pessima. Allontana dalla comunione degli angeli e imprigiona l'anima infelice sotto il giogo del proprio dominio grazie al suo potere. Spoglia i suoi militari delle armi virtuose e li espone ai dardi dei vizi perché ne siano trafitti. Umilia nella chiesa, condanna nella legge. Deturpa in segreto e disonora in pubblico. Rosicchia la coscienza come un verme, brucia la carne come il fuoco. Brama che il desiderio si sazi e, al contrario, teme che non si faccia vedere, che non esca in pubblico, che non si divulghi fra gli uomini. Colui che prova paura al pensiero di essere lui stesso partecipe di questa rovina, non dovrebbe temere questo vizio? Di certo però non si preoccupa se quello con cui pecca diventa il giudice della scelleratezza nella confessione. Infatti, non solo non esita a confessare che ha peccato, ma lo confessa a quello con cui ha peccato: così succede che, come uno di loro non può morire nel peccato senza che l'altro non stia morendo, così quello che risorge offre l'occasione all'altro per risorgere. Arde la misera carne per il furore della libidine, trema la mente sciocca a causa del rancore del sospetto, nel petto del misero uomo già si solleva il caos infernale. Quanti sono quelli punti dagli aculei dei pensieri immondi, altrettanti sono quelli tormentati dai supplizi delle pene. Sono davvero infelici le anime dopo che questo velenosissimo serpente le ha morse. Toglie subito la facoltà di pensare, cancella la memoria, oscura l'acutezza della mente, fa dimenticare Dio e anche se stesso. Questa peste infatti, annulla il sentimento della fede, infiacchisce la forza della speranza, cancella il vincolo della carità, toglie la giustizia, abbatte il coraggio, rimuove la temperanza, smussa l'acume della prudenza.
Cosa si può dire di più? Dal momento che allontana ogni angolo di virtù dal cuore umano e fa entrare ogni sorta di vizi, come se i catenacci delle porte fossero stati divelti? Sicuramente, la sentenza di Geremia si adatta a quella che, sotto l'aspetto terreno, viene chiamata Gerusalemme: «l'avversario ha steso la sua mano dice su tutti i suoi tesori; ha visto entrare i pagani nel suo santuario, coloro ai quali tu avevi ordinato che non entrassero nella tua assemblea»[77]. Senza dubbio, questa bestia atrocissima divora in un solo boccone con le sue fauci cruente, tiene lontano chiunque, con le sue catene, dalle opere buone, fa cadere precipitosamente giù per i dirupi dell'oscena perversità. Presto, sicuramente, chiunque sia caduto in questo abisso della perdizione estrema sarà mandato via, come un esule, dalla patria suprema. Sarà separato dal corpo di Cristo, verrà allontanato dall'autorità di tutta la Chiesa, sarà condannato dal giudizio di tutti i Santi Padri, sulla terra verrà disprezzato dagli uomini, sarà respinto dall'abitazione dei cittadini celesti. Per lui il cielo diventerà di ferro e la terra di bronzo[78], né da lì può risollevarsi, gravato dal peso del delitto, né può qui nascondere a lungo i suoi mali nella tana dell'ignoranza. Qui non può godere finché vive, né lì sperare finché pecca, perché ora è costretto a sopportare l'obbrobrio dell'umana derisione e dopo il tormento dell'eterna dannazione. È evidente che a quest'anima si riferisce quella voce della lamentazione profetica in cui si dice: «Vedi, Signore, che angoscia è la mia, le mie viscere fremono, il mio cuore è sconvolto in me, perché sono stata ribelle: fuori la spada uccide, in casa è come la morte»[79]
[1]Reindel I, 286-330 (PL 145, 159B-190B)
[2]PL 145, 161B riporta vitium contra naturam; cfr. § 5.2.
[3]Per l'immagine del cancro che serpeggia all'interno dell'ordine, v. Reindel III, 479 (PL 144, 219B) usata in riferimento alla simonia e Reindel II, 217 (PL 145, 386A) riferita all'incontinenza del clero (v. § 4)
[4] Nella PL c'è un'aggiunta: «soprattutto quando si trascina gli altri nello scandalo».
[5]Mt 18,6. Damiani riporta ex his pusillis anziché de pusillis istis, qui in me credunt della Vulgata
[6]J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 28, testo n. 15 individua come fonte le Interrogationes confessarii contenute nel Decretum di Burcardo di Worms 17,5 (PL 140, 967D-968B). Per il confronto fra il testo di Burcardo e quello di Damiani si veda il § 5.1. P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 29 suggerisce di confrontare anche il canone 8 del Synodus Luci Victoriae edito da L. Bieler, The Irish ..., p. 69. Bieler però non traduce i dettagli di questo canone che dice: «Chi commette il crimine maschile come i Sodomiti [farà penitenza] per quattro anni; chi lo commette tra le cosce, per tre anni, chi con le mani di un altro o con le sue, per due anni». Si veda anche § 3.3 n. 8.
[7]L'ed. del Reindel I, 287-288 aggiunge delle importanti integrazioni rispetto a quella della PL 145, 161C-D: «alii sibi invicem inter se manibus virilia contrectantes inquinantur» al posto di «alii aliorum manibus»; «alii fornicantur in terga» mentre nella PL si trova «consummato actu contra naturam»; «qui per semetipsos egesta seminis contagione sordescunt» anziché «qui per semetipsos sordescunt».
[8]Lett.: «giungono alla soddisfazione». Nel linguaggio penitenziale satisfactio significa adempimento della penitenza e, a seconda della modalità con cui si fa penitenza, si parla di secreta satisfactio o di publica satisfactio; v. § 3.1.
[9]Il rettore nel diritto canonico è l'ecclesiastico che regge un collegio, una chiesa non parrocchiale o un seminario.
[10]Reindel I, 288: «in terga cecidisse» mentre PL 145, 162A: «ultimo actu cecidisse».
[11]Cfr. Reindel I, 288: «Videlicet [...] recedat» manca nella PL. Questo passo è di particolare interesse perché ribadisce i quattro tipi di comportamento che ha già descritto aggiungendo dei particolari nuovi, ad es. «proprio nisu genitale semen eliciat» e «diversi sexus more concumbat».
[12]Cfr. Gen 19
[13]Gen 38,9-10
[14]Lv 20,13. Damiani riporta operati sunt contro operatus est della Vulgata.
[15]Nell'edizione delle lettere di Gregorio compare «Oportunus», v. Gregorio I, Registrum epistolarum, a cura di P. Ewald e L.M. Hartmann, I-II, MGH Epistolae I e II, Berlin 1891-1899; v. anche a cura di D. Norberg, CCL 140 (1982). Anche Giovanni Diacono scrive «Oportunus».
[16]Johannes Diaconus, Sancti Gregorii ..., III, 12 (PL 75, 137B); cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 28, testo n. 16
[17]Reindel I, 290: «femineo coitu, hoc est inter femora» manca nella PL. Questa aggiunta è molto importante perché specifica che inter femora è l'atto compiuto da davanti («come con una donna») in contrapposizione a in terga o in posteriora o anche a more sodomitico che indica chi pecca da dietro.
[18]Ef 5,5
[19] Cfr. Reindel II, 217 (PL 145, 386A) per un commento su Ef 5,5 simile a questo
[20]1 Tm 1,9-10. Il passo è discusso nel § 1.2
[21]Gc 4,17
[22]Cfr. Lc 12,48
[23] Rm 1,24
[24] Rm 1,26-28
[25]Cfr. Sal 67,5 nella Vulgata
[26] Gen 19,9-11. Girolamo associa Sodoma con la cecità nel Liber de nominibus Hebraicis (PL 23, 828): «Sodona [al. Sodomorum], pecus, silens, vel caecitas, vel similitudo eorum».
[27] Gen 19,18-19
[28] Gv 10,9
[29] Gen 19,11
[30] Rm 1,2
[31] Gen 19,11
[32] Rm 1,28
[33]Gb 5,14
[34] Sal 82,14
[35] Sal 11,9
[36] Rm 1,32
[37] Ibid.
[38] J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 29, testo n. 17 suggerisce che Burcardo di Worms, Decretum 17, 8 (PL 140, 920C) sia la fonte di Damiani per queste osservazioni. La fonte di Burcardo è Regino di Prüm (F.G.A. Wasserschleben, Reginonis ..., II, 200) che a sua volta usa il canone 20 dell'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro (PL 110, 487B). Per la descrizione della penitenza pubblica si rimanda al § 3.1
[39] Cfr. Reindel I, 295: «Sed qui [...] baptismus est» manca nella PL. In sostanza qui si afferma che, essendo l'ingresso nell'ordine un secondo battesimo, chi conferisce l'ordinazione ad un giovane ne diventa il padre, come succede per il sacerdote nei confronti del battezzato, o per il confessore nei confronti del penitente.
[40] Reindel I, 296: «et is quoque [...] polluit» manca nella PL.
[41] Mt 15,1
[42] Lc 6,41
[43] Lc 6,41; cfr. Mt 7,5
[44] 1 Pt 5,13
[45] 1 Cor 1,17
[46] Cfr. 1 Ts 2,19
[47] 1 Cor 4,15
[48] Ga 4,19
[49] Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 29, testo n. 18 individua come fonte Burcardo di Worms, Decretum 17, 39 (PL 140, 926C-927A) che riproduce con poche aggiunte e variazioni il Paenitentialis Egberti V, 3-5, 7, 8, 17-20, 22 (BAK, pp. 236 ss.). Qui Burcardo prevede tre anni di penitenza.
[50] Cfr. Burcardo di Worms, 17,39 (PL 140, 926D): «septem annos»
[51] Cfr. Burcardo di Worms, 17,39 (PL 140, 926C)
[52] Qui Damiani si allontana considerevolmente da Burcardo di Worms, Decretum 17,39 (PL 140, 926D): «faccia penitenza per un anno, se ha peccato frequentemente, due anni; se lo ha fatto con una ragazza consacrata due anni, se frequentemente tre anni»
[53]Cfr. Burcardo di Worms, 17,39 (PL 140, 926D)
[54] Ibid. (PL 140, 927A)
[55] Ibid.
[56]Ibid.
[57] Ibid.
[58] Lc 11,17-18
[59] Per le sirene v. Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive originum libri XX, a cura di W.M. Lindsay, Oxonii 1911, XI 3,30-31.
[60] Per Scilla cfr. Isidoro di Siviglia, Etymologiarum ..., XI 3,32 e XIII 18,4.
[61] Per le Sirti cfr. Isidoro di Siviglia, Etymologiarum ..., XIII 18,6.
[62] Questo capitolo è stato tradotto in O.D. Watkins, A History of Penance: Being a Study of the Authorities, I-II, London 1920, pp. 740-741; è stato tradotto parzialmente in J. McNeill / H. Gamer, Medieval Handbooks ..., p. 411.
[63] I penitenziali in generale sono condannati dai primi due concili del nono secolo: Chalon (813), canone 38 e Parigi (829), canoni 32. Per una traduzione di questi canoni si veda J. McNeill / H. Gamer, Medieval Handbooks ..., pp. 401-403.
[64] Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 29, testo n. 20 dice che Damiani usa solo il testo di Burcardo di Worms, 17,39 (PL 140, 926B-D) che probabilmente aveva con sé, per enumerare le false autorità. Quindi sarebbe da scartare l'ipotesi che avesse sottomano il penitenziale di Teodoro o quello Romano, etc. In questo passo Burcardo cita anche Beda, che Damiani omette forse perché più avanti lo cita come autorità.
[65] Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 29, testo n. 20: la fonte è la Collectio Dionysio-Hadriana che riporta il canone 16 del Concilio di Ancira (PL 67, 154C). D.S. Bailey, Homosexuality and ..., pp. 86-89 discute questi canoni; cfr. anche J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p.178. Per una discussione sui gradi di penitenza citati in questo canone Cfr. O.D. Watkins, A History ..., pp. 285-86. Si veda anche § 2.
[66] Cfr. Reindel I, 305: «in terga fornicantur» mentre la PL dice «consummato actu contra naturam delinquunt».
[67]Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 31, testo n. 22: canone 17 del Concilio di Ancira (PL 67, 154D) riportato dalla Collectio Dionysio-Hadriana. Per la traduzione dei canoni 16 e 17 del concilio di Ancira, v. K. J. Hefele, A History of the Christian from the Original Documents to the Colse of the Council of Nicea, A. D. 325, trad. da W. R. Clark, Edinburgh 1894, pp. 215-17.
[68] Rm 9,22
[69] Dt 19,15; 2 Cor 13,1; Burcardo di Worms, Decretum 7,17 (PL 140, 782C)
[70] Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 31, testo n. 23. Burcardo di Worms, Decretum 17,35 è la fonte del titolo e del testo che trae il passo dalla Regula Fructuosi, cap. 16 (PL 87, 1107A). Per la traduzione, C.W. Barlow, Rule for the Monastery of Compludo, Washington 1969 (The Fathers of the Church 63), p.169
[71] Reindel I, 308: «in terga» e «quia inter femora non coierit» mancano nella PL.
[72] È l'unica volta che usa «femorum fornicatio» anziché «in terga».
[73] Sal 31,9
[74] Cfr. Sal 32,9
[75]Cfr. J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 31, testo n. 24: la fonte è l'Epistola Siricii, c. 14 (PL 67, 237) contenuta nella Collectio Dionysio-Hadriana. Burcardo di Worms, Decretum 19, 49 fornisce il testo completo. Per la traduzione si veda J.T. Shotwell e L.R. Loomis, The See of Peter, New York 1927, Appendice 1, 706.
[76]Tt 1,15
[77] Lam 1,10
[78]Cfr. Lv 26,19
[79]Lam 1,20
6. Cenni di commento
5.1 Cenni sulle fonti: fontes formales e fontes materiales
In generale, nello studio delle fonti del diritto canonico si distingue tra fontes materiales e fontes formales, ovvero fra documenti di prima mano (atti di concili, lettere papali, Bibbia e simili) e redazioni, più o meno rielaborate, dei testi originali (nel nostro caso, le collezioni canoniche).
La fonte materiale primordiale di Damiani, come la chiama A. Fliche, è la Sacra Scrittura. Ad essa l'autore aggiunge i commentari dei Padri della Chiesa, di S. Agostino, di Sant'Ambrogio e di S. Gregorio il Grande che egli cita, senza alcun dubbio, dalle diverse collezioni canoniche composte in Italia nel X e XI secolo[1]
Nel LG Damiani fa un largo uso di citazioni bibliche. In particolare, dall'Antico Testamento cita i passi del Genesi, dove si narra la distruzione di Sodoma e Gomorra, del Levitico, dove vengono elencati i castighi per le colpe sessuali, e di altri libri che non contengono riferimenti all'omosessualità ma che gli servono per corroborare le sue argomentazioni[2]. Dal Nuovo Testamento riprende molti passi delle lettere di S. Paolo, in particolare si sofferma su Rm 1, 26-27 e commenta la perversione di quegli uomini che peccano contro natura e su 1 Tm 1,9-10 in cui si parla dei masculorum concubinatores[3].
Ma oltre alla Sacra Scrittura, come abbiamo detto, Damiani arricchisce i suoi scritti con escerti dei Padri della Chiesa e di altre autorità ecclesiastiche. Nel LG queste fonti materiali sono le Interrogationes confessarii, una lettera di Gregorio Magno, l'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro, il Paenitentialis Egberti, il Concilio di Ancira, la Regula monachorum di S. Fruttuoso e una lettera di papa Siricio[4]. Le fonti formali che le riportano e da cui Damiani le ha tratte sono invece il Decretum di Burcardo di Worms, la Collectio Dionysio-Hadriana e la Vita S. Gregorii Magni di Giovanni Diacono.
La Vita S. Gregorii Magni di Giovanni Diacono è usata nel LG una sola volta per citare una lettera di Gregorio in cui si esemplifica l'esame da fare ad un sacerdote per decidere se sia degno della carica di vescovo[5]. Le altre due collezioni, invece, sono le due fonti formali più usate da Damiani nei suoi scritti. La Dionysio-Hadriana è la raccolta Dionisiana, iniziata nel V secolo e terminata, ad opera di Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, con le aggiunte e i rifacimenti dei tempi di papa Adriano I (772-795)[6]. Damiani cita da questa collezione i canoni del concilio di Ancira, in cui si puniscono quei laici che «vivono irrazionalmente», vale a dire che sono omosessuali, e la lettera di papa Siricio, in cui si stabilisce che nessun sacerdote colpevole di peccati così gravi poteva amministrare i sacramenti.
La fonte più usata da Damiani è il Decretum di Burcardo di Worms, una raccolta canonica in 20 libri composta tra il 1008 e il 1012[7]. In essa sono raccolti i principali testi della legislazione ecclesiastica tratti da raccolte precedenti come la Anselmo dedicata, di origine italiana (sec. IX) e il Liber de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis[8] dell'abate Regino di Prüm (sec. X). Quest'opera spazia su tutti gli argomenti del diritto canonico occidentale e segna il punto di passaggio fra le collezioni dell'Alto Medioevo e il diritto canonico successivo.
All'interno del Decretum, il penitenziale propriamente detto è costituito dal XIX libro, chiamato Corrector o Medicus, in cui Burcardo commina pene corporali e rimedi spirituali per ogni tipo di peccato. Gli altri libri della raccolta, invece, sono divisi per argomento e ciascuno sviluppa un aspetto specifico della materia penitenziale: de incestu, de fornicatione...
Del XIX libro Damiani usa le Interrogationes confessarii in cui Burcardo, con dovizia di particolari, formula ad uso del confessore le domande a cui sottoporre i peccatori durante la confessione. Damiani riassume questo interrogatorio nella sua classificazione dei quattro tipi di peccato omosessuale ma tralascia numerosi e importanti particolari utili anche per la comprensione del testo[9]. A questo riguardo, riteniamo interessante confrontare i passi in questione per evidenziare la differenza di linguaggio fra Burcardo e Damiani.
La fonte materiale primordiale di Damiani, come la chiama A. Fliche, è la Sacra Scrittura. Ad essa l'autore aggiunge i commentari dei Padri della Chiesa, di S. Agostino, di Sant'Ambrogio e di S. Gregorio il Grande che egli cita, senza alcun dubbio, dalle diverse collezioni canoniche composte in Italia nel X e XI secolo[1]
Nel LG Damiani fa un largo uso di citazioni bibliche. In particolare, dall'Antico Testamento cita i passi del Genesi, dove si narra la distruzione di Sodoma e Gomorra, del Levitico, dove vengono elencati i castighi per le colpe sessuali, e di altri libri che non contengono riferimenti all'omosessualità ma che gli servono per corroborare le sue argomentazioni[2]. Dal Nuovo Testamento riprende molti passi delle lettere di S. Paolo, in particolare si sofferma su Rm 1, 26-27 e commenta la perversione di quegli uomini che peccano contro natura e su 1 Tm 1,9-10 in cui si parla dei masculorum concubinatores[3].
Ma oltre alla Sacra Scrittura, come abbiamo detto, Damiani arricchisce i suoi scritti con escerti dei Padri della Chiesa e di altre autorità ecclesiastiche. Nel LG queste fonti materiali sono le Interrogationes confessarii, una lettera di Gregorio Magno, l'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro, il Paenitentialis Egberti, il Concilio di Ancira, la Regula monachorum di S. Fruttuoso e una lettera di papa Siricio[4]. Le fonti formali che le riportano e da cui Damiani le ha tratte sono invece il Decretum di Burcardo di Worms, la Collectio Dionysio-Hadriana e la Vita S. Gregorii Magni di Giovanni Diacono.
La Vita S. Gregorii Magni di Giovanni Diacono è usata nel LG una sola volta per citare una lettera di Gregorio in cui si esemplifica l'esame da fare ad un sacerdote per decidere se sia degno della carica di vescovo[5]. Le altre due collezioni, invece, sono le due fonti formali più usate da Damiani nei suoi scritti. La Dionysio-Hadriana è la raccolta Dionisiana, iniziata nel V secolo e terminata, ad opera di Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, con le aggiunte e i rifacimenti dei tempi di papa Adriano I (772-795)[6]. Damiani cita da questa collezione i canoni del concilio di Ancira, in cui si puniscono quei laici che «vivono irrazionalmente», vale a dire che sono omosessuali, e la lettera di papa Siricio, in cui si stabilisce che nessun sacerdote colpevole di peccati così gravi poteva amministrare i sacramenti.
La fonte più usata da Damiani è il Decretum di Burcardo di Worms, una raccolta canonica in 20 libri composta tra il 1008 e il 1012[7]. In essa sono raccolti i principali testi della legislazione ecclesiastica tratti da raccolte precedenti come la Anselmo dedicata, di origine italiana (sec. IX) e il Liber de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis[8] dell'abate Regino di Prüm (sec. X). Quest'opera spazia su tutti gli argomenti del diritto canonico occidentale e segna il punto di passaggio fra le collezioni dell'Alto Medioevo e il diritto canonico successivo.
All'interno del Decretum, il penitenziale propriamente detto è costituito dal XIX libro, chiamato Corrector o Medicus, in cui Burcardo commina pene corporali e rimedi spirituali per ogni tipo di peccato. Gli altri libri della raccolta, invece, sono divisi per argomento e ciascuno sviluppa un aspetto specifico della materia penitenziale: de incestu, de fornicatione...
Del XIX libro Damiani usa le Interrogationes confessarii in cui Burcardo, con dovizia di particolari, formula ad uso del confessore le domande a cui sottoporre i peccatori durante la confessione. Damiani riassume questo interrogatorio nella sua classificazione dei quattro tipi di peccato omosessuale ma tralascia numerosi e importanti particolari utili anche per la comprensione del testo[9]. A questo riguardo, riteniamo interessante confrontare i passi in questione per evidenziare la differenza di linguaggio fra Burcardo e Damiani.
Fecisti solum tecum fornicationem [...], ita dico ut ipse tuum virile membrum in manum tuam acciperes et sic duceres praeputium tuum, et manu propria commoveres [...]
|
[...] qui per semetipsos egesta seminis contagione sordescunt [...]
|
Fecisti fornicationem [...], ita dico ut tu in manum tuam veretrum alterius acciperes, et alter tuum in suam, et sic alternatim veretra manibus vestris commoveretis [...]
|
[...] alii sibi invicem inter se manibus virilia contrectantes inquinantur [...]
|
Si cum masculo intra coxas [...], ita dico, ut tuum virile membrum intra coxas alteriu mitteres, et sic agitando semen effunderes [...]
|
[...] qui inter femora coeunt
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Fecisti fornicationem sicut Sodomitae fecerunt, ita ut in masculi terga et in posteriora virgam tuam immitteres, et sic secum coires more Sodomitico?
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[...] qui alios in posteriora corrumpunt
|
Queste differenze sono dovute principalmente al fatto che il pubblico a cui si rivolgeva Burcardo era diverso da quello di Damiani. Burcardo cercava di essere chiaro e dettagliato nelle domande per evitare che il confessore comminasse penitenze poco appropriate non conoscendo a sufficienza la dinamica del peccato. Damiani, invece, non accenna mai ai particolari dell'atto omosessuale e neanche non nomina mai il membro maschile. Il suo LG è molto più casto ed essenziale nelle descrizioni rispetto al Decretum, forse perché era indirizzato al papa o, con più probabilità, perché questo era lo stile di Damiani, egli non scende mai in particolari scabrosi.
Damiani usa il XVII libro del Decretum (De fornicatione), per citare quei canoni che definisce apocrifi e che critica con giudizi molto severi[10]. A sua volta qui Burcardo attinge dal Paenitentialis Egberti.
Dallo stesso libro del Decretum trae il passo della Regula Frustuosi in cui si punisce quel chierico o quel monaco «sodomita» che molesta gli adolescenti o i giovani. Costui deve essere sferzato pubblicamente e rasato, ricoperto di sputi e stretto con catene di ferro e lasciato a marcire nell'angustia del carcere per sei mesi[11]. Ancora del XVII libro di Burcardo è il passo dell'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro in cui si prevede per il sacerdote che ha rapporti con la figlia spirituale l'esclusione dalla comunione ed una severa penitenza. La stessa pena Damiani vuole che sia comminata al sacerdote che pecca con un suo figlio spirituale[12].
Come dice Ryan, dal punto di vista della dottrina importa poco sapere se Damiani per citare un testo usa direttamente l'originale oppure il lavoro di un collettore e ciò a maggior ragione nel LG per il quale l'autore non ha molto materiale da citare a sostegno delle sue opinioni, a causa dell'originalità del suo lavoro[13]. Inoltre, bisogna sottolineare che per i testi medievali è molto difficile rintracciare le fonti usate dagli autori e quindi non si può dire con tutta certezza che Damiani abbia veramente attinto dalle fonti analizzate sopra. L'unica fonte su cui non si può dubitare è la Bibbia.
5.2 Commento
Damiani si rivolge alla sede apostolica per sottoporre un problema, un dubbio riguardante la cura delle anime, sicuro di ricevere i chiarimenti necessari per «abbattere le tenebre del dubbio»[14]. Egli dice che, in nostris partibus, cresce un vizio scellerato e obbrobrioso che necessita di un immediato intervento da parte della sede apostolica altrimenti sarà la spada del furore divino a dover intervenire. Questo vizio è la Sodomiticae immunditiae che si aggira come un cancro nell'ordine ecclesiastico e come una bestia assetata di sangue nell'ovile di Cristo.
L'espressione in nostris partibus è usata frequentemente da Damiani in contesti nei quali parla di situazioni locali. Lucchesi dimostra che la regione a cui Damiani fa riferimento non è solamente quella circostante il suo monastero di Fonte Avellana, ma è un'area molto più ampia che si estende attorno a tutte quelle diocesi in cui Damiani si recava per predicare o con cui aveva rapporti epistolari[15]. La precisazione sembrerebbe quindi circoscrivere il problema ad una zona ben conosciuta da Damiani e su cui, quindi, poteva fornire una documentazione certa. Questa espressione, però, non ricorre in altri passi del LG e leggendo il testo non si ha la sensazione che l'autore parli di un problema locale, a maggior ragione se si pensa che stava formulando delle proposte da presentare ad un sinodo[16].
Damiani inizia il LG entrando subito in merito alla problematica che vuole affrontare e avanzando la richiesta di intervento al papa, quella stessa che ribadirà alla fine del libro e in cui chiederà con più precisione di stabilire, «chi fra i colpevoli di queste cose debba essere irrevocabilmente allontanato dall'ordine ecclesiastico e chi, tenendo conto, certamente, della diversità [dei peccati], possa ricoprire misericordiosamente questo ufficio»[17].
Damiani esprime chiaramente il suo giudizio a riguardo: chi ha commesso questo peccato, in qualunque modo lo abbia fatto, non deve essere accettato nell'ordine ecclesiastico e quel peccatore che già ne faccia parte non vi deve rimanere. Prima di questa sua dichiarazione, nel III capitolo, l'autore aveva accusato i rectores delle chiese di essere troppo comprensivi nei confronti degli ecclesiastici omosessuali per i quali era prevista la degradazione solo quando avessero avuto rapporti anali, chiudendo un occhio per gli altri tipi di comportamento[18]. L'eccessiva pietà, dice Damiani, non guarisce la ferita ma la stimola ad ingrandirsi. Dopo il suo ammonimento ad usare una maggior severità, Damiani aggiunge che questa è solamente la sua opinione personale e che spetterà all'autorità del papa esprimere una sentenza definitiva[19]. Egli, presagendo, forse, di trovare la stessa comprensione in Leone IX, si sottopone fin dall'inizio alla decisione del papa, ma formula tenacemente tutte le argomentazioni a sostegno della sua tesi, nello sforzo di farla accettare al pontefice. Per questo indaga e discute minuziosamente i passi biblici che contengono censure sull'omosessualità e riporta tutte le autorità che si sono espresse in materia.
Nel secondo capitolo, Damiani elenca i quattro tipi di questa Sodomiticae immunditiae: la masturbazione solitaria, la masturbazione reciproca, la fornicazione femorale e il rapporto anale. Fra questi esiste una progressione graduale tale che il primo è meno grave dell'ultimo. Dunque, Damiani inserisce fra i peccati dei Sodomiti anche la masturbazione.
Nei penitenziali, come abbiamo visto in Burcardo, la masturbazione veniva punita come una forma di fornicazione ma non era inserita nella categoria dei peccati di Sodoma. Di solito per more sodomitico si intendeva solamente la penetrazione in posteriora e nessuno degli altri tre comportamenti veniva definito sodomitico. Invece, Damiani in più occasioni tiene a precisare che tutti i quattro tipi di attività omosessuale sono da punire. Commentando il peccato di Sodoma e Gomorra, egli sostiene che nel passo del Genesi non si dica che gli abitanti di Sodoma abbiano praticato solo la penetrazione anale «ma piuttosto dice Damiani si deve credere che per l'impeto della sfrenata libidine, essi abbiano commesso atti turpi in diversi modi, su di sé o su altri»[20]. Infatti, come da un unico ceppo di vite germogliano diversi tralci, così da una sola «lordura sodomitica», come fosse una velenosissima radice, nascono quattro ramoscelli che rappresentano i quattro comportamenti omosessuali. Così, chiunque strappi un grappolo d'uva pestifero da uno qualunque di quelli, subito muore iniettato dal veleno. Damiani prosegue paragonando il peccato ad un serpente a quattro teste che quando morde con il dente di una qualsiasi di queste, subito infonde tutto il veleno della sua scelleratezza.
In un altro capitolo in cui riporta un canone del concilio di Ancira, egli dice che non solo chi penetra un uomo, ma anche chi si contamina in un modo qualsiasi con dei maschi è paragonabile a chi si unisce con le bestie[21]. Per arrivare a dimostrare la validità della sua affermazione egli esamina il testo del canone e sottolinea il differente uso di miscere e di polluere. Poiché il primo significa unire e il secondo macchiare, se il canone di Ancira si fosse riferito solo all'unione e quindi alla penetrazione, non avrebbe usato due termini diversi, ma uno solo, vale a dire miscere. È chiaro quindi, che Damiani voleva dimostrare, usando le fonti più autorevoli in suo possesso, che non bastava punire la penetrazione anale fra maschi ma bisognava condannare anche le varie forme di masturbazione.
Ma perché egli era così determinato in questa sua posizione? Non sarebbe bastato condannare e ottenere che il papa punisse l'atto da tutti ritenuto più grave? Probabilmente Damiani considerava la masturbazione qualcosa di molto serio e riprovevole per il fatto che i due maschi si macchiavano (polluere) nell'emissione del loro seme cosa che, del resto, accadeva anche nella penetrazione, ma, siccome raramente l'autorità ecclesiastica negava la peccaminosità di quest'ultima, Damiani insisteva maggiormente sugli altri comportamenti verso cui, di solito, si usava più comprensione[22]. Inoltre, tutto il suo sforzo era volto non solo a dimostrare la peccaminosità di queste pratiche ma anche a farle punire con la degradazione.
Il motivo che spingeva Damiani a condannare questi comportamenti è espresso chiaramente in un passo del cap. IX: questo vizio è il peggiore perché è giudicato ostile alla natura (nature probatur adversum) in quanto è commesso da persone dello stesso sesso[23]. Anzi, questo peccatore vorrebbe compiere nel maschio tutto ciò che si compie in una donna, si natura permitteret. E costui, in effetti, ha cercato di fare tutto ciò che ha potuto, commettendo cose che la natura nega, senza riuscire però a superare il limite invalicabile che la necessitas nature impone.
Nel VII capitolo parla della violazione delle leggi di natura (naturae iura) da parte di un padre spirituale che si è contaminato con il figlio spirituale[24]. Siccome la generazione spirituale, come dice Valafrido Strabone, è più importante di quella carnale, quel padre spirituale ha commesso un incesto perché ha peccato con un figlio e ha violato le leggi di natura perché ha peccato con un maschio. Nel cap. XV i sodomiti sono condannati dal canone del concilio di Ancira come «quelli che hanno vissuto irrazionalmente» poiché hanno venduto la propria carne al demonio del tutto contro la legge della natura (contra legem nature) e contro la ragione umana. Solo il demonio poteva inventare questi mali a cui la natura umana con tutta se stessa si oppone (humana natura resistat) e che detesta perché sono rapporti fra persone dello stesso sesso (difficultas non diversis sexus abhorreat)[25]. E ancora, ciò che spinge un uomo ad unirsi con un altro uomo non è l'impeto naturale (naturalis impetus) della carne ma l'istigazione del diavolo.
Queste che abbiamo citate sono le uniche espressioni presenti nel LG in cui compare il concetto di natura e l'idea della innaturalità dei comportamenti omosessuali. Infatti, dal confronto delle edizioni del Gaetani (XVII secolo) e del Reindel, ultimata di recente, si ricava che l'espressione contra naturam non compare mai nella nuova edizione. Un unico passo la riporta, ma è la citazione dalla Vulgata della lettera di S. Paolo ai Romani 1, 26-27[26].
Nell'edizione del Gaetani, invece, tale espressione era molto frequente, la Sodomiticae immunditiae era il vitium contra naturam; il secondo capitolo non si intitolava De diversitate sodomitarum bensì De diversitate peccantium contra naturam; per indicare quelli che peccavano nel quarto modo si usava alii consummato actu contra naturam e non alii fornicantur in terga. Soprattutto, quest'ultima espressione, che spesso veniva abbreviata in consummato actu, è sempre sostituita nella nuova edizione da fornicantur in terga o da fornicantur in posteriora[27].
Queste e molte altre differenze ci restituiscono un testo con una fisionomia diversa da quella conosciuta fino a poco tempo fa. Il contenuto, comunque, non è cambiato, anzi, a volte, sono state introdotte specificazioni che rendono il testo più comprensibile. Quindi, l'assenza dell'espressione contra naturam non mette in dubbio il fatto che Damiani ritenesse innaturali i quattro comportamenti di cui parla, ma se, fino a questo momento, la presentazione più immediata che gli studiosi facevano del LG era quella di un trattato sui vari tipi di peccatum contra naturam[28], ora dovremo cominciare a parlare di un trattato sui peccati sodomitici. Infatti, Damiani non solo attribuisce questi peccati al popolo di Sodoma, ma ripetutamente apostrofa il peccatore chiamandolo sodomita, laddove il Gaetani portava la lezione di homo carnalis[29].
Dagli scritti di Damiani si ricava un concetto di natura molto pratico e semplice, quello cioè riscontrabile nel mondo fisico. Egli non parla di una natura o una essenza intrinseche in senso filosofico, ma porta esempi concreti, benché criticabili, di ordine naturale: non succede mai che un caprone preso da libidine salti sopra un altro caprone, e neanche l'ariete, o il toro o l'asino lo fanno[30]. «Quindi, questi uomini persi non temono di compiere ciò che anche gli stessi rozzi animali aborriscono? Ciò che è commesso dall'imprudenza della perversità umana è condannato dal giudizio delle bestie che sono prive di intelligenza»[31]. Se individuiamo in questo passo il concetto che Damiani ha di natura, il contra naturam non sarà che un comportamento imprevisto, insolito o differente da ciò che ci si aspetterebbe secondo il normale ordine delle cose, diverso quindi dall'esperienza comune.
Il problema dell'omosessualità, che già di per sé era un vizio orribile, per Damiani era ancora più grave perché coinvolgeva gli ecclesiastici, proprio i ministri di Dio che quotidianamente offrivano il sacrificio al Signore e chiedevano intercessione per i peccatori. A loro Damiani chiede: «Non vi basta che voi stessi sprofondiate negli abissi del peccato, volete coinvolgere anche altri nel pericolo della vostra rovina?»[32]. Costoro non conoscono Dio ma pretendono di fare da intermediari fra Dio e gli uomini, pretendono di placare l'ira del Signore quando la loro stessa vita merita il castigo divino; continuano a offrire sacrifici a Dio, ma dovrebbero sapere che Dio non accetta le offerte dalle sudicie mani degli empi[33].
Circa gli ecclesiastici implicati in questo peccato, Damiani non specifica se si tratta di clero secolare o di clero monastico o di entrambi. Credo si possa concordare con Payer dicendo che Damiani aveva in mente soprattutto i preti perché in due circostanze rivolge la sua accusa a dei confessori[34].
All'interno del problema dell'omosessualità del clero, Damiani evidenza in particolare alcune problematiche. Egli denuncia quegli ecclesiastici omosessuali che dopo aver peccato si confessano fra di loro e quei confessori che peccano con i penitenti di sesso maschile. Nel primo caso, Damiani biasima il cieco che ha la presunzione di far da guida ad un altro cieco perché non avendo la vista sarà responsabile oltre che della sua caduta anche di quella dell'altro[35]. Inoltre, in base a quale legge il peccatore può assolvere il suo complice dal peccato che hanno commesso insieme? Chi è nel peccato non può indicare la strada della salvezza ad un altro peccatore.
Nel caso dei confessori che contaminano i loro penitenti (filius penitentiae), Damiani ricorda che nella confessione chi riceve la penitenza diventa figlio di chi lo assolve il quale, a sua volta, viene chiamato padre. Dunque se è un sacrilegio peccare con un figlio carnale, lo è anche con un figlio della penitenza[36].
Un altro attacco Damiani lo indirizza al clero più basso che vuole entrare nell'ordine sacro. A causa del loro peccato, Dio li ha abbandonati in balia dei desideri e li ha gettati nelle tenebre della cecità, cosicché non sanno più valutare la gravità dei loro peccati e cercano con arroganza di avvicinarsi a Dio mediante una carica ecclesiastica. La loro cecità li costringe a rimanere fuori dalla porta, simbolo del Cristo, a brancolare nel buio urtando contro i macigni della Sacra Scrittura che mai permetterà loro di oltrepassare la soglia della casa di Dio[37].
È degna di nota un'espressione ambigua del cap. III, in cui si biasima colui che ha peccato «con otto o dieci uomini ugualmente sordidi» e che è usata anche da Leone IX nella sua risposta al LG. Secondo Payer non si tratta di un riferimento ad attività di gruppo perché la letteratura penitenziale precedente non la riporta mai[38]. A mio avviso, si riferisce ad un solo peccatore che ha avuto rapporti con diversi uomini.
Per quanto riguarda la struttura del LG, Payer ha giustamente messo in evidenza una sezione canonica (capitoli 1-17 e 27) indirizzata al papa e una sezione pastorale (capitoli 18-26) indirizzata ai peccatori omosessuali[39]. Nella prima sezione tratta direttamente del problema dell'omosessualità formulando argomentazioni negative e positive. L'argomentazione negativa consiste in un forte attacco sul valore e sull'autorità di quei canoni incoerenti e inconsistenti che si ritrovano nei penitenziali, e che lui chiama canoni apocrifi (cap. XI e XIII). Damiani oppone a queste fonti non autentiche la tradizione autentica rappresentata dal concilio di Ancira (cap. XIV-XV), da S. Basilio (cap. XVI) e da papa Siricio (cap. XVI)[40].
Damiani critica questi canoni perché non hanno un autore certo, a volte sono tramandati sotto il nome di Teodoro, altre volte sono ricavati dal Penitenziale Romano, altre ancora dai Canoni degli apostoli[41]. Sono delle naeniae scritte sicuramente da un sodomita che ha manipolato i sacri canoni assegnando all'omosessualità penitenze molto più leggere rispetto agli altri tipi di fornicazione allo scopo di crearsi «uno scudo difensivo» dietro cui nascondere il suo peccato[42].
Le autorità autentiche proposte da Pier Damiani sono molto più severe: il concilio di Ancira propone penitenze che oscillano dai quindici ai venticinque anni; S. Basilio assegna pene corporali, digiuni e preghiere da compiere secondo la modalità della penitenza pubblica che era la più severa e umiliante[43];S. Siricio invece raccomanda più cautela nell'assolvere i chierici che hanno peccato gravemente e nel restituire loro il potere di amministrare i sacramenti.
Le argomentazioni positive che Damiani usa per dimostrare la gravità del peccato omosessuale condividono di solito un procedimento comune che Payer chiama argomentazione per analogia[44]. Ossia l'autore introduce un testo che di fatto tratta un argomento diverso da quello della deposizione degli ecclesiastici omosessuali, mette in evidenza la sanzione per quel fatto e conclude che tale punizione dovrebbe applicarsi ancora di più ai preti che praticano l'omosessualità. Nel cap. VIII, ad esempio, Damiani tenta di argomentare per analogia che, se colui che ha avuto rapporti sessuali con una monaca deve essere deposto, allora anche chi ha peccato con un monaco deve essere deposto.
Damiani è costretto a ricorrere alle argomentazioni per analogia perché non esiste nessuna autorità ecclesiastica che sanzioni in modo irrevocabile la deposizione per i preti omosessuali. Il testo tratto da Gregorio Magno nel cap. IV, stabilisce che i colpevoli di un peccato punibile con la morte nel Vecchio Testamento, non possono essere ordinati ma non stabilisce che quelli già ordinati vengano deposti[45]. Il canone del concilio di Ancira offre a Damiani lo spunto per un'altra argomentazione analogica. Se la Chiesa puniva con tanta severità i laici omosessuali, che dire della punizione che spetterebbe agli ecclesiastici? Damiani usa la fonte secondo ciò che ha bisogno di dimostrare e quindi omette quelle parti che non gli servono. In questo caso tralascia la parte del canone che prevede l'estensione della grazia ai penitenti la cui qualità di vita lo meriti[46].
Nella sezione pastorale, Damiani sembra rivolgersi direttamente ai peccatori, formulando una serie di suppliche spassionate rivolte all'«anima infelice», all'«anima miserevole», ai «riprovevoli sodomiti», ai «fornicatori», appellativi che di certo non si addicono al papa. Damiani parla all'anima direttamente, cerca di scuotela dal «torpore della misera voluttà» e se dapprima la condanna duramente, alla fine sembra confortarla: «se infatti il diavolo è tanto potente da farti sprofondare in questo vizio, Cristo è molto più potente e ti può riportare alla cima da cui sei caduto»[47]. Benché la carne si è abbandonata in balia dei desideri e il cuore si è allontanato dai doni dello Spirito Santo, il peccatore non deve disperare del tutto, ma deve raccogliere le sue forze, scuotersi con vigore così, mediante la misericordia di Dio, sconfiggerà i suoi nemici.
Nonostante l'ampollosità del discorso di Damiani, questi nove capitoli del LG si devono considerare più di un semplice orpello letterario, sono la manifestazione profonda di un uomo genuinamente interessato a muovere le anime al pentimento e alla speranza.
La maggior parte del materiale contenuto nella sezione pastorale è una composizione originale di Damiani tessuta intorno a numerose citazioni bibliche.
Al termine del nostro commento, è importante fare anche un accenno al cap. XXVI in cui sembra che Damiani si giustifichi per quello che ha scritto. Egli è consapevole di suscitare sgomento e rammarico nel lettore, sa che verrà chiamato «traditore e delatore del fratello». Ma Damiani non teme «gli odi dei cattivi o le lingue dei detrattori», egli ha solamente cercato di esprimere con tutta la cura possibile l'entusiasmo dettatogli dal Giudice supremo che sente dentro di sé. Non può far finta di nulla, altrimenti anche lui sarebbe responsabile del dilagare di quel «contagio» all'interno dell'ordine ecclesiastico. Inoltre, Damiani dice di non aver citato i santi dottori per paragonare «questo tizzone fumante», vale a dire il LG, alle stelle, anzi, egli a fatica e con labbra indegne ha menzionato quegli eccellentissimi uomini che, sicuramente, se avessero conosciuto «questa peste» avrebbero scritto interi volumi per cercare di estirparla. Egli chiede, dunque, di non essere giudicato per le severe parole che ha pronunciato, erano volte a salvare tanti fratelli caduti nel peccato.
5.3 La tradizione manoscritta
I codici delle opere di Damiani, o comprendenti opere sue, sono numerosissimi, (oltre 600), ma ormai diversi studiosi hanno individuato i capisaldi di questa tradizione manoscritta[48]. Dallo stemma codicum che il Reindel, nella sua recente edizione delle lettere di Damiani, ha ricostruito, risulta che esistono due tradizioni manoscritte, una del monastero di Montecassino e l'altra dell'eremo di Fonte Avellana[49]. La prima, molto più limitata, si formò grazie a Desiderio, abate del monastero, che, a quanto pare, inviò un suo notaio o copista a Fonte Avellana per ricopiare a proprie spese tutto quello che avesse potuto e, soprattutto, quello che Damiani aveva dedicato allo stesso Desiderio[50]. La tradizione di Fonte Avellana è la più ricca ed è quella che il Reindel ha preferito per la sua edizione. Nell'eremo di S. Croce di Fonte Avellana, dove Damiani era stato priore, e in tutti gli altri monasteri della sua Congregazione (S. Gregorio in Conca, Gamugno, Acereta, l'eremo di Frontale), vennero custoditi con molta cura i suoi lavori, vista anche la santità e la fama dello scrivente. Circa la presenza di copie delle opere di Damiani a Fonte Avellana, ci fornisce una testimonianza sicura il fatto che lo stesso autore cita, oppure utilizza senza citare, i propri scritti con grande frequenza. A ciò si aggiunge anche il fatto che uno stesso scritto appare talvolta indirizzato, in codici diversi, a più persone, segno che egli ne conservava una copia da poter a suo piacimento far ritrascrivere ed inviare ad altri personaggi[51].
Di fronte al moltiplicarsi di copie delle proprie opere, Damiani sentì forse il bisogno di una revisione teologica e come dice Lucchesi di una critica testuale[52]. A questo riguardo, ci sono pervenute due importanti lettere: la prima diretta ai vescovi Teodosio di Senigallia e Rodolfo di Gubbio, in cui Damiani raccomanda loro di rileggere attentamente tutto quello che lui ha scritto per correggerne o distruggerne quei passi che, eventualmente, si discostino dalla sana dottrina cattolica[53]. La stessa cosa ripete in un'altra lettera a tre suoi monaci, Gebizone, Teobaldo e Giovanni da Lodi, in cui li incarica, in qualità di censori, di rivedere tutto quello che ha scritto, di ricondurre, in particolare, alcuni testi alla lezione che egli ha ristabilito come autentica e di togliere tutto quello che sia contro la carità o la verità cristiana[54].
Nessuno dei codici originali è giunto fino a noi, anche i manoscritti migliori riportano solamente le raccolte avellanite e cassinesi delle opere di Damiani. Finché egli visse, le sue opere rimasero conservate in codici separati e per lo più distinte l'una dall'altra, ma, dopo la sua morte, si pensò di riordinarle e di raccoglierle insieme nelle Collectanea. Fu Giovanni da Lodi a compiere queste raccolte di brani damianei che si riferiscono per lo più ai singoli libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, presi dall'uno o dall'altro degli scritti di Damiani ed uniti insieme artificiosamente allo scopo di creare un facile repertorio di testi del santo.
Contrariamente a quanto si è pensato non esistono, e forse non sono mai esistite copie autografe delle opere di Damiano. Egli infatti era solito dettare i suoi dictamina ad un notarius o scriptor che li scriveva su tavolette di cera. In seguito, un altro suo segretario che chiama anche antiquarius, ricopiava diligentemente il tutto su schedulae di pergamena. Poi qualcuno rivedeva il testo e infine Damiani stesso autenticava l'opera con il suo sigillo[55].
Poiché l'opera di Damiani ci è stata tramandata soltanto in forma di raccolte già predisposte, per gli editori moderni è difficile risalire alla ipotetica versione originale.
L'edizione del Migne nella Patrologia Latina riproduce sostanzialmente quella di Costantino Gaetani, i cui quattro volumi furono pubblicati per la prima volta a Roma negli anni 1606, 1608, 1615 e 1640 ed, in seguito, ripetutamente ripubblicati con qualche modifica, la più determinante delle quali fu la traslazione di numerose lettere nel tomo degli opuscoli (ristampa lionese del 1623). A questo corpo principale, il Migne ha poi aggiunti alcuni dei testi pubblicati da Angelo Mai[56]. Non tutti i lavori editi nella Patrologia, però, sono opera di Damiani. inoltre, siccome il Gaetani non indica mai da dove abbia preso il materiale che pubblica, per gli editori successivi risulta difficile rivedere criticamente tutto il lavoro da lui fatto[57].
Il Reindel nella sua recente edizione delle lettere di Damiani privilegia la tradizione avellanita a quella cassinese, usando soprattutto i due esemplari più antichi (XI sec.) di ciascuna tradizione e almeno uno degli esemplari dei secoli successivi. La successione delle lettere segue l'ordine cronologico e la divisione in paragrafi, con la relativa intestazione, quando sia presente nei manoscritti, viene inserita nell'apparato critico.
Le edizioni del Gaetani e del Reindel spesso non concordano, e questo è dovuto al fatto che si avvalgono di manoscritti-guida diversi. Non possiamo, però, stabilire con sicurezza quale dei due editori abbia scelto le lezioni migliori perché non sappiamo quali manoscritti abbia utilizzato il Gaetani.
La nostra traduzione si baserà sull'edizione del Reindel che è non solo la più recente, ma anche la più accurata e precisa.
Damiani usa il XVII libro del Decretum (De fornicatione), per citare quei canoni che definisce apocrifi e che critica con giudizi molto severi[10]. A sua volta qui Burcardo attinge dal Paenitentialis Egberti.
Dallo stesso libro del Decretum trae il passo della Regula Frustuosi in cui si punisce quel chierico o quel monaco «sodomita» che molesta gli adolescenti o i giovani. Costui deve essere sferzato pubblicamente e rasato, ricoperto di sputi e stretto con catene di ferro e lasciato a marcire nell'angustia del carcere per sei mesi[11]. Ancora del XVII libro di Burcardo è il passo dell'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro in cui si prevede per il sacerdote che ha rapporti con la figlia spirituale l'esclusione dalla comunione ed una severa penitenza. La stessa pena Damiani vuole che sia comminata al sacerdote che pecca con un suo figlio spirituale[12].
Come dice Ryan, dal punto di vista della dottrina importa poco sapere se Damiani per citare un testo usa direttamente l'originale oppure il lavoro di un collettore e ciò a maggior ragione nel LG per il quale l'autore non ha molto materiale da citare a sostegno delle sue opinioni, a causa dell'originalità del suo lavoro[13]. Inoltre, bisogna sottolineare che per i testi medievali è molto difficile rintracciare le fonti usate dagli autori e quindi non si può dire con tutta certezza che Damiani abbia veramente attinto dalle fonti analizzate sopra. L'unica fonte su cui non si può dubitare è la Bibbia.
5.2 Commento
Damiani si rivolge alla sede apostolica per sottoporre un problema, un dubbio riguardante la cura delle anime, sicuro di ricevere i chiarimenti necessari per «abbattere le tenebre del dubbio»[14]. Egli dice che, in nostris partibus, cresce un vizio scellerato e obbrobrioso che necessita di un immediato intervento da parte della sede apostolica altrimenti sarà la spada del furore divino a dover intervenire. Questo vizio è la Sodomiticae immunditiae che si aggira come un cancro nell'ordine ecclesiastico e come una bestia assetata di sangue nell'ovile di Cristo.
L'espressione in nostris partibus è usata frequentemente da Damiani in contesti nei quali parla di situazioni locali. Lucchesi dimostra che la regione a cui Damiani fa riferimento non è solamente quella circostante il suo monastero di Fonte Avellana, ma è un'area molto più ampia che si estende attorno a tutte quelle diocesi in cui Damiani si recava per predicare o con cui aveva rapporti epistolari[15]. La precisazione sembrerebbe quindi circoscrivere il problema ad una zona ben conosciuta da Damiani e su cui, quindi, poteva fornire una documentazione certa. Questa espressione, però, non ricorre in altri passi del LG e leggendo il testo non si ha la sensazione che l'autore parli di un problema locale, a maggior ragione se si pensa che stava formulando delle proposte da presentare ad un sinodo[16].
Damiani inizia il LG entrando subito in merito alla problematica che vuole affrontare e avanzando la richiesta di intervento al papa, quella stessa che ribadirà alla fine del libro e in cui chiederà con più precisione di stabilire, «chi fra i colpevoli di queste cose debba essere irrevocabilmente allontanato dall'ordine ecclesiastico e chi, tenendo conto, certamente, della diversità [dei peccati], possa ricoprire misericordiosamente questo ufficio»[17].
Damiani esprime chiaramente il suo giudizio a riguardo: chi ha commesso questo peccato, in qualunque modo lo abbia fatto, non deve essere accettato nell'ordine ecclesiastico e quel peccatore che già ne faccia parte non vi deve rimanere. Prima di questa sua dichiarazione, nel III capitolo, l'autore aveva accusato i rectores delle chiese di essere troppo comprensivi nei confronti degli ecclesiastici omosessuali per i quali era prevista la degradazione solo quando avessero avuto rapporti anali, chiudendo un occhio per gli altri tipi di comportamento[18]. L'eccessiva pietà, dice Damiani, non guarisce la ferita ma la stimola ad ingrandirsi. Dopo il suo ammonimento ad usare una maggior severità, Damiani aggiunge che questa è solamente la sua opinione personale e che spetterà all'autorità del papa esprimere una sentenza definitiva[19]. Egli, presagendo, forse, di trovare la stessa comprensione in Leone IX, si sottopone fin dall'inizio alla decisione del papa, ma formula tenacemente tutte le argomentazioni a sostegno della sua tesi, nello sforzo di farla accettare al pontefice. Per questo indaga e discute minuziosamente i passi biblici che contengono censure sull'omosessualità e riporta tutte le autorità che si sono espresse in materia.
Nel secondo capitolo, Damiani elenca i quattro tipi di questa Sodomiticae immunditiae: la masturbazione solitaria, la masturbazione reciproca, la fornicazione femorale e il rapporto anale. Fra questi esiste una progressione graduale tale che il primo è meno grave dell'ultimo. Dunque, Damiani inserisce fra i peccati dei Sodomiti anche la masturbazione.
Nei penitenziali, come abbiamo visto in Burcardo, la masturbazione veniva punita come una forma di fornicazione ma non era inserita nella categoria dei peccati di Sodoma. Di solito per more sodomitico si intendeva solamente la penetrazione in posteriora e nessuno degli altri tre comportamenti veniva definito sodomitico. Invece, Damiani in più occasioni tiene a precisare che tutti i quattro tipi di attività omosessuale sono da punire. Commentando il peccato di Sodoma e Gomorra, egli sostiene che nel passo del Genesi non si dica che gli abitanti di Sodoma abbiano praticato solo la penetrazione anale «ma piuttosto dice Damiani si deve credere che per l'impeto della sfrenata libidine, essi abbiano commesso atti turpi in diversi modi, su di sé o su altri»[20]. Infatti, come da un unico ceppo di vite germogliano diversi tralci, così da una sola «lordura sodomitica», come fosse una velenosissima radice, nascono quattro ramoscelli che rappresentano i quattro comportamenti omosessuali. Così, chiunque strappi un grappolo d'uva pestifero da uno qualunque di quelli, subito muore iniettato dal veleno. Damiani prosegue paragonando il peccato ad un serpente a quattro teste che quando morde con il dente di una qualsiasi di queste, subito infonde tutto il veleno della sua scelleratezza.
In un altro capitolo in cui riporta un canone del concilio di Ancira, egli dice che non solo chi penetra un uomo, ma anche chi si contamina in un modo qualsiasi con dei maschi è paragonabile a chi si unisce con le bestie[21]. Per arrivare a dimostrare la validità della sua affermazione egli esamina il testo del canone e sottolinea il differente uso di miscere e di polluere. Poiché il primo significa unire e il secondo macchiare, se il canone di Ancira si fosse riferito solo all'unione e quindi alla penetrazione, non avrebbe usato due termini diversi, ma uno solo, vale a dire miscere. È chiaro quindi, che Damiani voleva dimostrare, usando le fonti più autorevoli in suo possesso, che non bastava punire la penetrazione anale fra maschi ma bisognava condannare anche le varie forme di masturbazione.
Ma perché egli era così determinato in questa sua posizione? Non sarebbe bastato condannare e ottenere che il papa punisse l'atto da tutti ritenuto più grave? Probabilmente Damiani considerava la masturbazione qualcosa di molto serio e riprovevole per il fatto che i due maschi si macchiavano (polluere) nell'emissione del loro seme cosa che, del resto, accadeva anche nella penetrazione, ma, siccome raramente l'autorità ecclesiastica negava la peccaminosità di quest'ultima, Damiani insisteva maggiormente sugli altri comportamenti verso cui, di solito, si usava più comprensione[22]. Inoltre, tutto il suo sforzo era volto non solo a dimostrare la peccaminosità di queste pratiche ma anche a farle punire con la degradazione.
Il motivo che spingeva Damiani a condannare questi comportamenti è espresso chiaramente in un passo del cap. IX: questo vizio è il peggiore perché è giudicato ostile alla natura (nature probatur adversum) in quanto è commesso da persone dello stesso sesso[23]. Anzi, questo peccatore vorrebbe compiere nel maschio tutto ciò che si compie in una donna, si natura permitteret. E costui, in effetti, ha cercato di fare tutto ciò che ha potuto, commettendo cose che la natura nega, senza riuscire però a superare il limite invalicabile che la necessitas nature impone.
Nel VII capitolo parla della violazione delle leggi di natura (naturae iura) da parte di un padre spirituale che si è contaminato con il figlio spirituale[24]. Siccome la generazione spirituale, come dice Valafrido Strabone, è più importante di quella carnale, quel padre spirituale ha commesso un incesto perché ha peccato con un figlio e ha violato le leggi di natura perché ha peccato con un maschio. Nel cap. XV i sodomiti sono condannati dal canone del concilio di Ancira come «quelli che hanno vissuto irrazionalmente» poiché hanno venduto la propria carne al demonio del tutto contro la legge della natura (contra legem nature) e contro la ragione umana. Solo il demonio poteva inventare questi mali a cui la natura umana con tutta se stessa si oppone (humana natura resistat) e che detesta perché sono rapporti fra persone dello stesso sesso (difficultas non diversis sexus abhorreat)[25]. E ancora, ciò che spinge un uomo ad unirsi con un altro uomo non è l'impeto naturale (naturalis impetus) della carne ma l'istigazione del diavolo.
Queste che abbiamo citate sono le uniche espressioni presenti nel LG in cui compare il concetto di natura e l'idea della innaturalità dei comportamenti omosessuali. Infatti, dal confronto delle edizioni del Gaetani (XVII secolo) e del Reindel, ultimata di recente, si ricava che l'espressione contra naturam non compare mai nella nuova edizione. Un unico passo la riporta, ma è la citazione dalla Vulgata della lettera di S. Paolo ai Romani 1, 26-27[26].
Nell'edizione del Gaetani, invece, tale espressione era molto frequente, la Sodomiticae immunditiae era il vitium contra naturam; il secondo capitolo non si intitolava De diversitate sodomitarum bensì De diversitate peccantium contra naturam; per indicare quelli che peccavano nel quarto modo si usava alii consummato actu contra naturam e non alii fornicantur in terga. Soprattutto, quest'ultima espressione, che spesso veniva abbreviata in consummato actu, è sempre sostituita nella nuova edizione da fornicantur in terga o da fornicantur in posteriora[27].
Queste e molte altre differenze ci restituiscono un testo con una fisionomia diversa da quella conosciuta fino a poco tempo fa. Il contenuto, comunque, non è cambiato, anzi, a volte, sono state introdotte specificazioni che rendono il testo più comprensibile. Quindi, l'assenza dell'espressione contra naturam non mette in dubbio il fatto che Damiani ritenesse innaturali i quattro comportamenti di cui parla, ma se, fino a questo momento, la presentazione più immediata che gli studiosi facevano del LG era quella di un trattato sui vari tipi di peccatum contra naturam[28], ora dovremo cominciare a parlare di un trattato sui peccati sodomitici. Infatti, Damiani non solo attribuisce questi peccati al popolo di Sodoma, ma ripetutamente apostrofa il peccatore chiamandolo sodomita, laddove il Gaetani portava la lezione di homo carnalis[29].
Dagli scritti di Damiani si ricava un concetto di natura molto pratico e semplice, quello cioè riscontrabile nel mondo fisico. Egli non parla di una natura o una essenza intrinseche in senso filosofico, ma porta esempi concreti, benché criticabili, di ordine naturale: non succede mai che un caprone preso da libidine salti sopra un altro caprone, e neanche l'ariete, o il toro o l'asino lo fanno[30]. «Quindi, questi uomini persi non temono di compiere ciò che anche gli stessi rozzi animali aborriscono? Ciò che è commesso dall'imprudenza della perversità umana è condannato dal giudizio delle bestie che sono prive di intelligenza»[31]. Se individuiamo in questo passo il concetto che Damiani ha di natura, il contra naturam non sarà che un comportamento imprevisto, insolito o differente da ciò che ci si aspetterebbe secondo il normale ordine delle cose, diverso quindi dall'esperienza comune.
Il problema dell'omosessualità, che già di per sé era un vizio orribile, per Damiani era ancora più grave perché coinvolgeva gli ecclesiastici, proprio i ministri di Dio che quotidianamente offrivano il sacrificio al Signore e chiedevano intercessione per i peccatori. A loro Damiani chiede: «Non vi basta che voi stessi sprofondiate negli abissi del peccato, volete coinvolgere anche altri nel pericolo della vostra rovina?»[32]. Costoro non conoscono Dio ma pretendono di fare da intermediari fra Dio e gli uomini, pretendono di placare l'ira del Signore quando la loro stessa vita merita il castigo divino; continuano a offrire sacrifici a Dio, ma dovrebbero sapere che Dio non accetta le offerte dalle sudicie mani degli empi[33].
Circa gli ecclesiastici implicati in questo peccato, Damiani non specifica se si tratta di clero secolare o di clero monastico o di entrambi. Credo si possa concordare con Payer dicendo che Damiani aveva in mente soprattutto i preti perché in due circostanze rivolge la sua accusa a dei confessori[34].
All'interno del problema dell'omosessualità del clero, Damiani evidenza in particolare alcune problematiche. Egli denuncia quegli ecclesiastici omosessuali che dopo aver peccato si confessano fra di loro e quei confessori che peccano con i penitenti di sesso maschile. Nel primo caso, Damiani biasima il cieco che ha la presunzione di far da guida ad un altro cieco perché non avendo la vista sarà responsabile oltre che della sua caduta anche di quella dell'altro[35]. Inoltre, in base a quale legge il peccatore può assolvere il suo complice dal peccato che hanno commesso insieme? Chi è nel peccato non può indicare la strada della salvezza ad un altro peccatore.
Nel caso dei confessori che contaminano i loro penitenti (filius penitentiae), Damiani ricorda che nella confessione chi riceve la penitenza diventa figlio di chi lo assolve il quale, a sua volta, viene chiamato padre. Dunque se è un sacrilegio peccare con un figlio carnale, lo è anche con un figlio della penitenza[36].
Un altro attacco Damiani lo indirizza al clero più basso che vuole entrare nell'ordine sacro. A causa del loro peccato, Dio li ha abbandonati in balia dei desideri e li ha gettati nelle tenebre della cecità, cosicché non sanno più valutare la gravità dei loro peccati e cercano con arroganza di avvicinarsi a Dio mediante una carica ecclesiastica. La loro cecità li costringe a rimanere fuori dalla porta, simbolo del Cristo, a brancolare nel buio urtando contro i macigni della Sacra Scrittura che mai permetterà loro di oltrepassare la soglia della casa di Dio[37].
È degna di nota un'espressione ambigua del cap. III, in cui si biasima colui che ha peccato «con otto o dieci uomini ugualmente sordidi» e che è usata anche da Leone IX nella sua risposta al LG. Secondo Payer non si tratta di un riferimento ad attività di gruppo perché la letteratura penitenziale precedente non la riporta mai[38]. A mio avviso, si riferisce ad un solo peccatore che ha avuto rapporti con diversi uomini.
Per quanto riguarda la struttura del LG, Payer ha giustamente messo in evidenza una sezione canonica (capitoli 1-17 e 27) indirizzata al papa e una sezione pastorale (capitoli 18-26) indirizzata ai peccatori omosessuali[39]. Nella prima sezione tratta direttamente del problema dell'omosessualità formulando argomentazioni negative e positive. L'argomentazione negativa consiste in un forte attacco sul valore e sull'autorità di quei canoni incoerenti e inconsistenti che si ritrovano nei penitenziali, e che lui chiama canoni apocrifi (cap. XI e XIII). Damiani oppone a queste fonti non autentiche la tradizione autentica rappresentata dal concilio di Ancira (cap. XIV-XV), da S. Basilio (cap. XVI) e da papa Siricio (cap. XVI)[40].
Damiani critica questi canoni perché non hanno un autore certo, a volte sono tramandati sotto il nome di Teodoro, altre volte sono ricavati dal Penitenziale Romano, altre ancora dai Canoni degli apostoli[41]. Sono delle naeniae scritte sicuramente da un sodomita che ha manipolato i sacri canoni assegnando all'omosessualità penitenze molto più leggere rispetto agli altri tipi di fornicazione allo scopo di crearsi «uno scudo difensivo» dietro cui nascondere il suo peccato[42].
Le autorità autentiche proposte da Pier Damiani sono molto più severe: il concilio di Ancira propone penitenze che oscillano dai quindici ai venticinque anni; S. Basilio assegna pene corporali, digiuni e preghiere da compiere secondo la modalità della penitenza pubblica che era la più severa e umiliante[43];S. Siricio invece raccomanda più cautela nell'assolvere i chierici che hanno peccato gravemente e nel restituire loro il potere di amministrare i sacramenti.
Le argomentazioni positive che Damiani usa per dimostrare la gravità del peccato omosessuale condividono di solito un procedimento comune che Payer chiama argomentazione per analogia[44]. Ossia l'autore introduce un testo che di fatto tratta un argomento diverso da quello della deposizione degli ecclesiastici omosessuali, mette in evidenza la sanzione per quel fatto e conclude che tale punizione dovrebbe applicarsi ancora di più ai preti che praticano l'omosessualità. Nel cap. VIII, ad esempio, Damiani tenta di argomentare per analogia che, se colui che ha avuto rapporti sessuali con una monaca deve essere deposto, allora anche chi ha peccato con un monaco deve essere deposto.
Damiani è costretto a ricorrere alle argomentazioni per analogia perché non esiste nessuna autorità ecclesiastica che sanzioni in modo irrevocabile la deposizione per i preti omosessuali. Il testo tratto da Gregorio Magno nel cap. IV, stabilisce che i colpevoli di un peccato punibile con la morte nel Vecchio Testamento, non possono essere ordinati ma non stabilisce che quelli già ordinati vengano deposti[45]. Il canone del concilio di Ancira offre a Damiani lo spunto per un'altra argomentazione analogica. Se la Chiesa puniva con tanta severità i laici omosessuali, che dire della punizione che spetterebbe agli ecclesiastici? Damiani usa la fonte secondo ciò che ha bisogno di dimostrare e quindi omette quelle parti che non gli servono. In questo caso tralascia la parte del canone che prevede l'estensione della grazia ai penitenti la cui qualità di vita lo meriti[46].
Nella sezione pastorale, Damiani sembra rivolgersi direttamente ai peccatori, formulando una serie di suppliche spassionate rivolte all'«anima infelice», all'«anima miserevole», ai «riprovevoli sodomiti», ai «fornicatori», appellativi che di certo non si addicono al papa. Damiani parla all'anima direttamente, cerca di scuotela dal «torpore della misera voluttà» e se dapprima la condanna duramente, alla fine sembra confortarla: «se infatti il diavolo è tanto potente da farti sprofondare in questo vizio, Cristo è molto più potente e ti può riportare alla cima da cui sei caduto»[47]. Benché la carne si è abbandonata in balia dei desideri e il cuore si è allontanato dai doni dello Spirito Santo, il peccatore non deve disperare del tutto, ma deve raccogliere le sue forze, scuotersi con vigore così, mediante la misericordia di Dio, sconfiggerà i suoi nemici.
Nonostante l'ampollosità del discorso di Damiani, questi nove capitoli del LG si devono considerare più di un semplice orpello letterario, sono la manifestazione profonda di un uomo genuinamente interessato a muovere le anime al pentimento e alla speranza.
La maggior parte del materiale contenuto nella sezione pastorale è una composizione originale di Damiani tessuta intorno a numerose citazioni bibliche.
Al termine del nostro commento, è importante fare anche un accenno al cap. XXVI in cui sembra che Damiani si giustifichi per quello che ha scritto. Egli è consapevole di suscitare sgomento e rammarico nel lettore, sa che verrà chiamato «traditore e delatore del fratello». Ma Damiani non teme «gli odi dei cattivi o le lingue dei detrattori», egli ha solamente cercato di esprimere con tutta la cura possibile l'entusiasmo dettatogli dal Giudice supremo che sente dentro di sé. Non può far finta di nulla, altrimenti anche lui sarebbe responsabile del dilagare di quel «contagio» all'interno dell'ordine ecclesiastico. Inoltre, Damiani dice di non aver citato i santi dottori per paragonare «questo tizzone fumante», vale a dire il LG, alle stelle, anzi, egli a fatica e con labbra indegne ha menzionato quegli eccellentissimi uomini che, sicuramente, se avessero conosciuto «questa peste» avrebbero scritto interi volumi per cercare di estirparla. Egli chiede, dunque, di non essere giudicato per le severe parole che ha pronunciato, erano volte a salvare tanti fratelli caduti nel peccato.
5.3 La tradizione manoscritta
I codici delle opere di Damiani, o comprendenti opere sue, sono numerosissimi, (oltre 600), ma ormai diversi studiosi hanno individuato i capisaldi di questa tradizione manoscritta[48]. Dallo stemma codicum che il Reindel, nella sua recente edizione delle lettere di Damiani, ha ricostruito, risulta che esistono due tradizioni manoscritte, una del monastero di Montecassino e l'altra dell'eremo di Fonte Avellana[49]. La prima, molto più limitata, si formò grazie a Desiderio, abate del monastero, che, a quanto pare, inviò un suo notaio o copista a Fonte Avellana per ricopiare a proprie spese tutto quello che avesse potuto e, soprattutto, quello che Damiani aveva dedicato allo stesso Desiderio[50]. La tradizione di Fonte Avellana è la più ricca ed è quella che il Reindel ha preferito per la sua edizione. Nell'eremo di S. Croce di Fonte Avellana, dove Damiani era stato priore, e in tutti gli altri monasteri della sua Congregazione (S. Gregorio in Conca, Gamugno, Acereta, l'eremo di Frontale), vennero custoditi con molta cura i suoi lavori, vista anche la santità e la fama dello scrivente. Circa la presenza di copie delle opere di Damiani a Fonte Avellana, ci fornisce una testimonianza sicura il fatto che lo stesso autore cita, oppure utilizza senza citare, i propri scritti con grande frequenza. A ciò si aggiunge anche il fatto che uno stesso scritto appare talvolta indirizzato, in codici diversi, a più persone, segno che egli ne conservava una copia da poter a suo piacimento far ritrascrivere ed inviare ad altri personaggi[51].
Di fronte al moltiplicarsi di copie delle proprie opere, Damiani sentì forse il bisogno di una revisione teologica e come dice Lucchesi di una critica testuale[52]. A questo riguardo, ci sono pervenute due importanti lettere: la prima diretta ai vescovi Teodosio di Senigallia e Rodolfo di Gubbio, in cui Damiani raccomanda loro di rileggere attentamente tutto quello che lui ha scritto per correggerne o distruggerne quei passi che, eventualmente, si discostino dalla sana dottrina cattolica[53]. La stessa cosa ripete in un'altra lettera a tre suoi monaci, Gebizone, Teobaldo e Giovanni da Lodi, in cui li incarica, in qualità di censori, di rivedere tutto quello che ha scritto, di ricondurre, in particolare, alcuni testi alla lezione che egli ha ristabilito come autentica e di togliere tutto quello che sia contro la carità o la verità cristiana[54].
Nessuno dei codici originali è giunto fino a noi, anche i manoscritti migliori riportano solamente le raccolte avellanite e cassinesi delle opere di Damiani. Finché egli visse, le sue opere rimasero conservate in codici separati e per lo più distinte l'una dall'altra, ma, dopo la sua morte, si pensò di riordinarle e di raccoglierle insieme nelle Collectanea. Fu Giovanni da Lodi a compiere queste raccolte di brani damianei che si riferiscono per lo più ai singoli libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, presi dall'uno o dall'altro degli scritti di Damiani ed uniti insieme artificiosamente allo scopo di creare un facile repertorio di testi del santo.
Contrariamente a quanto si è pensato non esistono, e forse non sono mai esistite copie autografe delle opere di Damiano. Egli infatti era solito dettare i suoi dictamina ad un notarius o scriptor che li scriveva su tavolette di cera. In seguito, un altro suo segretario che chiama anche antiquarius, ricopiava diligentemente il tutto su schedulae di pergamena. Poi qualcuno rivedeva il testo e infine Damiani stesso autenticava l'opera con il suo sigillo[55].
Poiché l'opera di Damiani ci è stata tramandata soltanto in forma di raccolte già predisposte, per gli editori moderni è difficile risalire alla ipotetica versione originale.
L'edizione del Migne nella Patrologia Latina riproduce sostanzialmente quella di Costantino Gaetani, i cui quattro volumi furono pubblicati per la prima volta a Roma negli anni 1606, 1608, 1615 e 1640 ed, in seguito, ripetutamente ripubblicati con qualche modifica, la più determinante delle quali fu la traslazione di numerose lettere nel tomo degli opuscoli (ristampa lionese del 1623). A questo corpo principale, il Migne ha poi aggiunti alcuni dei testi pubblicati da Angelo Mai[56]. Non tutti i lavori editi nella Patrologia, però, sono opera di Damiani. inoltre, siccome il Gaetani non indica mai da dove abbia preso il materiale che pubblica, per gli editori successivi risulta difficile rivedere criticamente tutto il lavoro da lui fatto[57].
Il Reindel nella sua recente edizione delle lettere di Damiani privilegia la tradizione avellanita a quella cassinese, usando soprattutto i due esemplari più antichi (XI sec.) di ciascuna tradizione e almeno uno degli esemplari dei secoli successivi. La successione delle lettere segue l'ordine cronologico e la divisione in paragrafi, con la relativa intestazione, quando sia presente nei manoscritti, viene inserita nell'apparato critico.
Le edizioni del Gaetani e del Reindel spesso non concordano, e questo è dovuto al fatto che si avvalgono di manoscritti-guida diversi. Non possiamo, però, stabilire con sicurezza quale dei due editori abbia scelto le lezioni migliori perché non sappiamo quali manoscritti abbia utilizzato il Gaetani.
La nostra traduzione si baserà sull'edizione del Reindel che è non solo la più recente, ma anche la più accurata e precisa.
[1] A. Fliche, La Réforme ..., I, p. 261 fa riferimento alle collezioni studiate da P. Fournier, Un groupe de recueils canoniques italiens des Xe et XIe siècles, «Mémoires de l'Institut national de France: Académie des inscriptions et belles-lettres» 15 (1916), p 117, n. 1. Si veda § 3.3 sulle collezioni canoniche.
[2] Per la discussione sull'interpretazione omosessuale di questi passi si rimanda al § 1.1.
[3] Si veda § 1,2.
[4] J.J. Ryan, Saint Peter ..., pp. 28-31 e 176. L'Interrogationes confessarii è la lista delle domande che un confessore deve porre al peccatore durante la confessione. Il Paenitentialis Egberti è una raccolta dell'VIII sec. attribuita a Egberto arcivescovo di York. Per l'Epistola ad Heribaldum di Rabano Mauro si veda il § 3.4 e per i canoni del concilio di Ancira il § 2.
[5] Johannes Diaconus, Sancti Gregorii Magni vita, PL 75, 59-242.
[6] Per altre notizie sulla Dionysio-Hadriana si rimanda al § 3.4.
[7] Per alcuni studi sul Decretum, v. P. Fournier, Le Décret de Burchard de Worms. Son caractère, son influence, 12 (1911), pp. 451-473, 670-701 (rist. in P. Fournier, Mélanges de droit canonique, a cura di T. Kölzer, I, Aalen 1983, pp. 393-447); G. Picasso e G. Motta e G. Piana (a cura di), A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo. Il Penitenziale di Burcardo di Worms, Novara 1986. L'edizione completa, e ancora l'unica esistente, del Decretum è di J. Foucher, D. Burchardi Wormacensis Decretum Libri XX, Coloniae 1548 ripresa nella PL 140
[8] Per l'edizione completa del testo v. F.G.A. Wasserschleben, Reginonis Abbatis Prumiensis Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis, Lipsiae 1840. Si veda anche § 3.4.
[9] Cfr. Reindel I, 287-288.
[10] Cfr. Reindel I, 300-301.
[11] Cfr. Reindel I, 308.
[12] Cfr. Reindel I, 294-295.
[13] J.J. Ryan, Saint Peter ..., p. 4.
[14] Reindel I, 286.
[15] G. Lucchesi, Per una vita ..., I, p. 43-62 (Pier Damiani e le diocesi «in nostris partibus»). Il monastero di Fonte Avellana apparteneva alla diocesi di Gubbio, ma Damiani predicò in altre diocesi vicine e intrattenne una nutrita corrispondenza con vescovi della Toscana, dell'Umbria, delle Marche e dell'Emilia Romagna.
[16] P. Payer, Book of Gomorrah ..., pp. 20-21 prende spunto dall'espressione in nostris partibus per discutere sul valore storico-documentario del LG. Egli, nel riferire le ipotesi di vari studiosi circa l'attendibilità o meno della denuncia di Damiani, sembra dubitare del fondamento storico delle affermazioni contenute nel LG.
[17] Cfr. Reindel I, 329-330 e § 4.2.
[18] Cfr. Reindel I, 288.
[19] Cfr. Reindel I, 289 e § 4.1.
[20] Cfr. Reindel I, 319-320.
[21] Cfr. Reindel I, 305-306.
[22] Per le pene assegnate alla masturbazione e alla penetrazione anale, si veda § 3.3.
[23] Cfr. Reindel I, 298.
[24]Cfr. Reindel I, 296.
[25] Reindel I, 307. Lett.: «aborrisce le difficoltà [provocate] dal sesso non diverso».
[26] «Nam feminae eorum immutaverunt naturalem usum in eum usum qui est contra naturam».
[27] Ovviamente, noi riponiamo una fiducia maggiore nell'edizione del Reindel perché ci sembra più probabile supporre che sia stato il Gaetani nel XVII secolo ad affrontare in maniera acritica i manoscritti e non piuttosto uno studioso contemporaneo. D'altra parte, però, il Reindel avrebbe potuto spiegare i motivi che allontanano la sua edizione da quella del Gaetani, soprattutto perché non sappiamo quali mss abbia usato il Gaetani e quindi non possiamo confrontare il loro lavoro se non rivedendo tutti i mss. del LG.
[28] D.S. Bailey, Homosexuality and ..., p. 111; cfr. J.A. Brundage, Law, Sex ..., p. 212 che inserisce il LG nel capitolo intitolato Peccati contro natura.
[29] Nonostante il frequente riferimento ai sodomiti, Damiani chiama il suo lavoro Liber Gomorrhianus. Nel testo non ci sono elementi per spiegare la scelta del riferimento a Gomorra piuttosto che a Sodoma. Bisogna però ricordare che le opere di Damiani sono giunte nella redazione dei censori delle Collectanea, quindi potrebbe essere loro e non di Damiani l'idea del titolo.
[30] J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., p. 241 afferma che «nell'Occidente intensamente rurale del primo Medioevo nessun teologo si sarebbe curato di invocare la natura come modello morale». Qui il riferimento di Damiani agli animali sembrerebbe contraddire Boswell.
[31] Cfr. Reindel I, 313.
[32] Cfr. Reindel I, 316.
[33] Cfr. Reindel I, 317.
[34] Si veda i capitoli VIII e X (Reindel I, 297 e 299). P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 14.
[35] Cfr. Reindel I, 297.
[36] Cfr. Reindel I, 299. P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 14-15 dice che l'espressione figli spirituali sembra essere stata introdotta nell'uso comune per la prima volta da Damiani nel cap. IX. Ma Payer nel 1982 poteva lavorare solo sull'edizione del Gaetani in cui, effettivamente, questa espressione ricorre spesso, mentre nel cap. IX dell'edizione del Reindel è del tutto assente perché sostituita da monachi. Filiis spiritualibus ricorre un'unica volta nel cap. VII e non sembra riferirsi, come dice Payer, ai penitenti ma ai giovani che sono sotto la cura spirituale dei rectores ecclesiarum.
[37] Cfr. Reindel I, 292-294.
[38] P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 14.
[39] Ibid., p. 13. La numerazione dei capitoli riportata da Payer segue l'edizione del Gaetani.
[40] Secondo Payer, il metodo usato da Damiani nell'invalidare queste autorità contraddittorie anticipa il Sic et Non di Abelardo e la Concordia discordantium canonum di Graziano di quasi un secolo. Graziano, vissuto nel XII secolo, fu il primo sistematizzatore della legge ecclesiastica, cfr. J.A. Brundage, Law, Sex ..., pp. 229-254.
[41] La fonte per i canoni apocrifi è il Decretum di Burcardo (v. § 5.1 e § 6.1) che cita espicitamente queste autorità.
[42] Quella di Pier Damiani fu l'unica voce del tutto contro i penitenziali, v. § 3.4 e n. 24.
[43] Per la penitenza nel Medioevo e per la differenza fra le varie modalità penitenziali si rimanda al § 3.
[44] P. Payer, Book of Gomorrah ..., p. 16.
[45] Cfr. Reindel I, 289-290.
[46] Ricordiamo che la tradizione aveva attribuito erroneamente questo canone all'omosessualità, v. § 2. Secondo Payer, Damiani avrebbe potuto usare altre autorità come il Concilio di Toledo (693) che prevedeva la deposizione dei sacerdoti omosessuali, un passo del Decretum di Burcardo preso dai Canoni degli Apostoli in cui si commina la deposizione per vescovi, preti e diaconi colti in fornicazione. Damiani forse omette questa tradizione perché prevedeva attenuanti e possibili reintegrazioni.
[47] Cfr. Reindel I, 322.
[48] Si veda G. Vitaletti, Un inventario di codici del sec. XIII e le vicende della Biblioteca, dell'Archivio e del Tesoro di Fonte Avellana, «La Bibliofilia», 20 (1919) pp. 249-264; 21 (1920) 297-315; 22 (1921) 291-338; A. Wilmart, Le recueil des poèmes et des prières de saint Pierre Damien, «Revue Bénédictine» 41 (1929), pp. 342-357; Id., Une lettre de S. Pierre Damien à l'impératrice Agnès, ibid. 44 (1932), pp. 125-146; J. Leclercq, Inédits de S. Pierre Damien, ibid. 67 (1957), pp. 151-174; K. Reindel, Zur handschriftlichen Überlieferung der Gedichte des Petrus Damiani, ibid. 67 (1957), pp. 182-189; Id., Studien zur Überlieferung der Werke des Petrus Damiani, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 15 (1959), pp. 23-102; 16 (1960), pp. 73-154 e 18 (1962), pp. 317-417.
[49] Si veda Reindel I, 13-31 per la parte dell'introduzione dedicata alla tradizione manoscritta e per lo stemma codicum dopo la p. 32.
[50] Cfr. Reindel III, 41-46 (PL 144, 275C-278A), la notizia è riportata nell'epistola del 1063 che Damiani scrive a Desiderio.
[51] G. Lucchesi, Clavis S. Petri Damiani, in Studi su San Pier Damiano in onore del cardinale Amleto Giovanni Cicognani, Faenza 1961 (II ed. 1970), (Biblioteca Cardinale Gaetano Cicognani 5), pp. 255-256.
[52] Ibid., p.256.
[53] Reindel II, 219-220 (PL 144, 321A-321D), l'epistola è datata dell'aprile del 1059.
[54] Reindel III, 314-316 (PL 144, 391A-392A). Gebizone e Tebaldo non sono identificabili (v. le ipotesi di Reindel nelle note 1-2); Giovanni da Lodi invece è il biografo di Damiani (v. § 4).
[55] Cfr. G. Lucchesi, Clavis S. Petri ..., p. 254-255 e J. Leclercq, Saint Pierre Damien ..., pp. 151-157.
[56] A. Mai, Scriptorum veterum nova collectio e Vaticanis codicibus edita, VI, 1823, pp. 193-210.
[57] G. Lucchesi, Clavis S. Petri ..., pp. 279-321 riporta il prospetto di tutte le opere di Damiani contenute in PL 144 e 145 con l'indicazione della loro autenticità o meno e con gli argomenti a sostegno delle sue ipotesi7. Appendice: traduzione del carteggio di Damiani coi papi dell'epoca
6.2 La risposta di Leone IX
(Reindel I, 285-286 [PL 145, 159B-160D])
(Reindel I, 285-286 [PL 145, 159B-160D])
La lettera di papa Leone a Pietro Damiani con cui l'autorità apostolica ratifica il libro Gomorriano[1]
Leone vescovo a Pietro eremita, figlio diletto in Cristo, la gioia dell'eterna beatitudine.
Il libello che tu hai scritto, figlio carissimo, contro la quadruplice contaminazione carnale, franco senza dubbio nello stile e ancor più sincero nel ragionamento, conferma con prove incontrovertibili l'intenzione della tua mente di entrare, mediante una santa lotta, nello splendido coro della lucente modestia. Tu hai piegato la dissolutezza della carne perché hai alzato il braccio dello spirito contro questo desiderio osceno. Un vizio senza dubbio esecrabile che allontana dall'autorità della virtù, la quale, essendo di per sé immacolata, non ammette alcunché di impuro. Né ad essa potrà mai toccare in sorte di prestarsi a sordide vanità. Quindi quegli ecclesiastici, delle cui vite disgustose con saggezza hai discusso tristemente, imparzialmente e secondo ragione, giustamente, proprio giustamente, non appartengono al vincolo della loro eredità, da cui essi stessi si sono allontanati con i piaceri voluttuosi. Perché se avessero vissuto castamente, avrebbero potuto essere chiamati non solo tempio sacro di Dio, ma anche il santuario in cui l'Agnello di Dio è stato immolato in splendida gloria, attraverso cui l'orrida sozzura del mondo intero è stata purificata. Tali ecclesiastici rivelano per testimonianza dei loro atti, se non delle parole, che essi non sono quelli che si pensa siano. Perciò, come può uno essere ecclesiastico o chiamarsi tale, quando non ha temuto di macchiarsi di sua propria volontà maneggiando con le proprie mani o con quelle di altri le proprie parti virili o quelle di un altro, oppure fornicando fra le cosce o di dietro a causa di questa orribile irragionevolezza?[2]
Su queste cose, poiché tu hai scritto ciò che ti sembrava meglio, mosso da santa indignazione, è opportuno che, come tu stesso desideri, noi interponiamo la nostra autorità apostolica, così da rimuovere ogni scrupoloso dubbio a quelli che leggono, e da rendere chiaro a tutti, che le cose scritte in questo libretto, come acqua versata sul fuoco diabolico, incontrano la nostra approvazione. Perciò, perché l'impunita licenza dell'immondo desiderio non si diffonda, è necessario combatterla con appropriate misure di severità apostolica e, nondimeno, fornire qualche prova di austerità.
Ecco, tutti quelli che si sono macchiati con la turpitudine di uno dei quattro tipi [di peccato] menzionati, sono espulsi da ogni grado dell'immacolata Chiesa, per giusta censura di equità sia da parte dei sacri canoni, sia secondo il nostro giudizio[3]. Ma noi, agendo più umanamente, desideriamo e anche ordiniamo che quelli che hanno emesso il seme [stimolandosi] o con le proprie mani o scambievolmente con qualcun altro, e anche quelli che l'hanno emesso [stimolandosi] fra le cosce, se non è una pratica che dura da molto tempo o compiuta con molti uomini, e se essi hanno trattenuto il loro desiderio ed espiato questi vergognosi peccati con una penitenza adeguata, confidando nella misericordia divina, siano ammessi alla stessa carica che tenevano al momento del peccato, se in esso non vi sono rimasti a lungo. Ma non ci può essere speranza di recuperare la carica per coloro che sono coinvolti nei due tipi di peccato che tu hai descritto, soli o con altri, per lungo tempo o con molti uomini anche per poco tempo, oppure, cosa che è orribile da menzionare e da udire, per quelli che si sono congiunti da dietro.
Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica. Perché, infatti, chi non commette il vizio ma lo incoraggia, costui è, giustamente, considerato colpevole di morte al pari di chi muore nel peccato.
Ma, figlio carissimo, io mi rallegro ineffabilmente che tu abbia dimostrato con l'esempio della tua vita quelle stesse cose che tu hai insegnato con il dono delle tue parole. Infatti, è più grande insegnare con l'azione che con la parola. Perciò, Dio volendo, tu ti meriterai la palma della vittoria e gioirai con Dio e con il figlio della Vergine nella dimora del cielo e per ciascuno di questa moltitudine, da te salvato dalle fiamme del diavolo, tu sarai incoronato e ricompensato di grazia.
Leone vescovo a Pietro eremita, figlio diletto in Cristo, la gioia dell'eterna beatitudine.
Il libello che tu hai scritto, figlio carissimo, contro la quadruplice contaminazione carnale, franco senza dubbio nello stile e ancor più sincero nel ragionamento, conferma con prove incontrovertibili l'intenzione della tua mente di entrare, mediante una santa lotta, nello splendido coro della lucente modestia. Tu hai piegato la dissolutezza della carne perché hai alzato il braccio dello spirito contro questo desiderio osceno. Un vizio senza dubbio esecrabile che allontana dall'autorità della virtù, la quale, essendo di per sé immacolata, non ammette alcunché di impuro. Né ad essa potrà mai toccare in sorte di prestarsi a sordide vanità. Quindi quegli ecclesiastici, delle cui vite disgustose con saggezza hai discusso tristemente, imparzialmente e secondo ragione, giustamente, proprio giustamente, non appartengono al vincolo della loro eredità, da cui essi stessi si sono allontanati con i piaceri voluttuosi. Perché se avessero vissuto castamente, avrebbero potuto essere chiamati non solo tempio sacro di Dio, ma anche il santuario in cui l'Agnello di Dio è stato immolato in splendida gloria, attraverso cui l'orrida sozzura del mondo intero è stata purificata. Tali ecclesiastici rivelano per testimonianza dei loro atti, se non delle parole, che essi non sono quelli che si pensa siano. Perciò, come può uno essere ecclesiastico o chiamarsi tale, quando non ha temuto di macchiarsi di sua propria volontà maneggiando con le proprie mani o con quelle di altri le proprie parti virili o quelle di un altro, oppure fornicando fra le cosce o di dietro a causa di questa orribile irragionevolezza?[2]
Su queste cose, poiché tu hai scritto ciò che ti sembrava meglio, mosso da santa indignazione, è opportuno che, come tu stesso desideri, noi interponiamo la nostra autorità apostolica, così da rimuovere ogni scrupoloso dubbio a quelli che leggono, e da rendere chiaro a tutti, che le cose scritte in questo libretto, come acqua versata sul fuoco diabolico, incontrano la nostra approvazione. Perciò, perché l'impunita licenza dell'immondo desiderio non si diffonda, è necessario combatterla con appropriate misure di severità apostolica e, nondimeno, fornire qualche prova di austerità.
Ecco, tutti quelli che si sono macchiati con la turpitudine di uno dei quattro tipi [di peccato] menzionati, sono espulsi da ogni grado dell'immacolata Chiesa, per giusta censura di equità sia da parte dei sacri canoni, sia secondo il nostro giudizio[3]. Ma noi, agendo più umanamente, desideriamo e anche ordiniamo che quelli che hanno emesso il seme [stimolandosi] o con le proprie mani o scambievolmente con qualcun altro, e anche quelli che l'hanno emesso [stimolandosi] fra le cosce, se non è una pratica che dura da molto tempo o compiuta con molti uomini, e se essi hanno trattenuto il loro desiderio ed espiato questi vergognosi peccati con una penitenza adeguata, confidando nella misericordia divina, siano ammessi alla stessa carica che tenevano al momento del peccato, se in esso non vi sono rimasti a lungo. Ma non ci può essere speranza di recuperare la carica per coloro che sono coinvolti nei due tipi di peccato che tu hai descritto, soli o con altri, per lungo tempo o con molti uomini anche per poco tempo, oppure, cosa che è orribile da menzionare e da udire, per quelli che si sono congiunti da dietro.
Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica. Perché, infatti, chi non commette il vizio ma lo incoraggia, costui è, giustamente, considerato colpevole di morte al pari di chi muore nel peccato.
Ma, figlio carissimo, io mi rallegro ineffabilmente che tu abbia dimostrato con l'esempio della tua vita quelle stesse cose che tu hai insegnato con il dono delle tue parole. Infatti, è più grande insegnare con l'azione che con la parola. Perciò, Dio volendo, tu ti meriterai la palma della vittoria e gioirai con Dio e con il figlio della Vergine nella dimora del cielo e per ciascuno di questa moltitudine, da te salvato dalle fiamme del diavolo, tu sarai incoronato e ricompensato di grazia.
6.3 Lettera a papa Leone IX[4]
Reindel I, 332-334 (PL 144, 208B-209C)
Reindel I, 332-334 (PL 144, 208B-209C)
Si lamenta d'essere stato accusato e implora la riconciliazione
Al beatissimo papa Leone, Pietro peccatore, monaco, con i sensi della propria devotissima sottomissione.
Ai miei accusatori dirò almeno ciò che il popolo d'Israele disse ai suoi predicatori: «Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci»[5]. Infatti, l'antico nemico temendo che io vi possa consigliare di abbatterlo, quel nemico che ogni giorno, nei nostri luoghi, non manca di fabbricare nuove invenzioni, ha affilato le lingue dei maligni contro di me, [ha spinto] i suoi complici a formulare delle menzogne. È simile ad un organo che strepita mediante le sue canne e insinua il veleno della sua malizia alle sante orecchie. E sarebbe strano, se l'astuta capacità degli uomini avesse potuto insinuarsi fino al mio signore, carico di tante occupazioni, come ha fatto con Davide, che era imbevuto dello spirito profetico, quando credette imprudentemente a Zibà, e subito punì l'innocente Merib-Bàal con la sentenza della confisca[6]. In David prevalse a tal punto il discorso della calunnia, che rese partecipe dell'eredità del padrone il servo da punire e costui, colpevole di infedeltà, venne giudicato degno del premio della libertà.
Nondimeno, se noi prestiamo attenzione alle azioni del nostro creatore, non dobbiamo dare facilmente credito a cose che sono da ritenersi malignità di uno qualsiasi. Dio infatti, agli occhi del quale tutto è nudo e scoperto[7], non disprezza di dire: «Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!»[8]. Si capisce chiaramente che ciò non è stato detto ad altro fine se non [a quello] di insegnare all'umana ignoranza di non credere alle cose udite senza sperimentarle e di non giudicare facilmente le cose sconosciute. Quella cautela che voi, certamente, con prudenza avete usata in altri casi, noi sappiamo perché non è stata osservata nei nostri confronti, ma ciò lo imputiamo senza dubbio alle nostre colpe, non lo attribuiamo a voi. Ma tuttavia in questi casi, mi rivolgo alla mia coscienza, ritorno ai segreti della mia mente, sicuro di non aver agito se non per amore di Cristo, di cui io sono un servo indegno. Non chiedo la grazia di nessun altro uomo mortale, non temo l'ira di nessuno.
Per questo motivo, invoco e umilmente scongiuro quel testimone della mia coscienza, che è doveroso credere che abiti nel sacrario del vostro cuore, affinché subito ordini con la sua autorità che voi mi mitighiate, se lo giudica opportuno per la mia salvezza, e perché mi restituisca il volto indulgente della vostra serenità. Affinché lui stesso mi riconcilio con voi, e perché io non sia teso, siccome mi spaventa chiedere la grazia della vostra clemenza. Se poi egli decide che io debba ancora essere percosso con la durissima frustra della vostra ostilità, umilmente sottopongo la livida schiena, metto un dito davanti alla mia bocca, non mi lamento, ma sollevo gli occhi della mia speranza verso di lui, perché credo che ciò sia stato fatto contro di me secondo una giusta disposizione di un esame segreto. Perciò, non prego voi, ma Lui, senza il cui ordine credo che neanche le foglie dell'albero cadano[9], affinché faccia cedere alla mia benevolenza il vostro cuore, che egli tiene in mano, se ciò serve alla mia salvezza.
Al beatissimo papa Leone, Pietro peccatore, monaco, con i sensi della propria devotissima sottomissione.
Ai miei accusatori dirò almeno ciò che il popolo d'Israele disse ai suoi predicatori: «Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci»[5]. Infatti, l'antico nemico temendo che io vi possa consigliare di abbatterlo, quel nemico che ogni giorno, nei nostri luoghi, non manca di fabbricare nuove invenzioni, ha affilato le lingue dei maligni contro di me, [ha spinto] i suoi complici a formulare delle menzogne. È simile ad un organo che strepita mediante le sue canne e insinua il veleno della sua malizia alle sante orecchie. E sarebbe strano, se l'astuta capacità degli uomini avesse potuto insinuarsi fino al mio signore, carico di tante occupazioni, come ha fatto con Davide, che era imbevuto dello spirito profetico, quando credette imprudentemente a Zibà, e subito punì l'innocente Merib-Bàal con la sentenza della confisca[6]. In David prevalse a tal punto il discorso della calunnia, che rese partecipe dell'eredità del padrone il servo da punire e costui, colpevole di infedeltà, venne giudicato degno del premio della libertà.
Nondimeno, se noi prestiamo attenzione alle azioni del nostro creatore, non dobbiamo dare facilmente credito a cose che sono da ritenersi malignità di uno qualsiasi. Dio infatti, agli occhi del quale tutto è nudo e scoperto[7], non disprezza di dire: «Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!»[8]. Si capisce chiaramente che ciò non è stato detto ad altro fine se non [a quello] di insegnare all'umana ignoranza di non credere alle cose udite senza sperimentarle e di non giudicare facilmente le cose sconosciute. Quella cautela che voi, certamente, con prudenza avete usata in altri casi, noi sappiamo perché non è stata osservata nei nostri confronti, ma ciò lo imputiamo senza dubbio alle nostre colpe, non lo attribuiamo a voi. Ma tuttavia in questi casi, mi rivolgo alla mia coscienza, ritorno ai segreti della mia mente, sicuro di non aver agito se non per amore di Cristo, di cui io sono un servo indegno. Non chiedo la grazia di nessun altro uomo mortale, non temo l'ira di nessuno.
Per questo motivo, invoco e umilmente scongiuro quel testimone della mia coscienza, che è doveroso credere che abiti nel sacrario del vostro cuore, affinché subito ordini con la sua autorità che voi mi mitighiate, se lo giudica opportuno per la mia salvezza, e perché mi restituisca il volto indulgente della vostra serenità. Affinché lui stesso mi riconcilio con voi, e perché io non sia teso, siccome mi spaventa chiedere la grazia della vostra clemenza. Se poi egli decide che io debba ancora essere percosso con la durissima frustra della vostra ostilità, umilmente sottopongo la livida schiena, metto un dito davanti alla mia bocca, non mi lamento, ma sollevo gli occhi della mia speranza verso di lui, perché credo che ciò sia stato fatto contro di me secondo una giusta disposizione di un esame segreto. Perciò, non prego voi, ma Lui, senza il cui ordine credo che neanche le foglie dell'albero cadano[9], affinché faccia cedere alla mia benevolenza il vostro cuore, che egli tiene in mano, se ciò serve alla mia salvezza.
6.4 Lettera ai cardinali Ildebrando e Stefano[10]
Si lamenta per quel suo libro che gli è stato sottratto con l'inganno della frode
Agli inespugnabili scudi della Chiesa Romana, al suo arbitro Ildebrando e al suo dolcissimo fratello Stefano[11], Pietro peccatore, monaco, porge la sua obbedienza.
Rivolgo una lamentela a Dio onnipotente e a voi, che siete membra sue, circa il nostro papa che tanto spesso arreca al mio cuore tristezza e provoca amarezza all'anima di un uomo ormai vecchio.
Egli, infatti, ha preso un nostro libro che, come si sa, con tanta fatica io avevo raccolto dalla povertà meschina di un piccolo e umile ingegno e che, come fosse l'unico figlio, avevo stretto con la dolcezza di un abbraccio materno. Il modo in cui me lo ha sottratto, cosa che voi ignorate, è la ricompensa per il mio lavoro!
Poiché egli sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo, lo consegnò all'abate di S. Salvatore in mia presenza, ordinandogli di trascriverlo. In realtà, durante la notte, a mia insaputa, lo prese e lo nascose nelle sue teche. Davvero questa è l'indole della sobrietà sacerdotale, anzi è la prova della purezza papale! Tuttavia, quando viene interrogato con insistenza riguardo a queste cose, egli sorride e mi liscia, per così dire, il capo con il gradevole profumo della scherzosa gentilezza. Senza dubbio, egli considera il sacerdote un attore. Mentre mi osteggia nei fatti, con le parole mi addolcisce; [mentre] la mano colpisce con un pugno, la bocca sorride. Un caso analogo [è descritto] da Salomone nel libro dei Proverbi: «Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è quell'uomo che inganna il suo prossimo e poi dice: Ma sì, è stato uno scherzo!»[12]
Inoltre, la storia romana racconta che all'imperatore Tiberio, quando veniva chiamato Claudio Tiberio Nerone, gli istrioni dicevano Caldio Biberio Merone, poiché spesso ingurgitava parecchio vino[13]. Anch'io che non so mimare, ma che so scrivere, un giorno forse scriverò qualcosa che non si addice ad un sacerdote, ma ad un attore. Infatti, anch'io potrei facilmente modificare il nome del mio signore con un motto scherzoso, se non fosse che me lo proibisce l'eccellenza di una così alta carica. [Con il nome di] Alessandro, di certo, si intende colui che toglie l'angustia delle tenebre, come si trova nelle interpretazioni dei nomi ebraici[14]. Senza dubbio, che cos'altro si può designare con l'angustia delle tenebre, se non la fatica e la pena della disfatta, se non la frenetica rabbia e il furore che Cadalo ci inflisse?[15] Senza alcun dubbio, Cadalo provocò l'angustia delle tenebre che, secondo l'etimologia del suo nome, papa Alessandro rimosse. Infatti, fintanto che quello cercò di estinguere, per così dire, con il fumo sulfureo dell'ambizione etnea[16], la luce della sede apostolica, costrinse tutti noi a patire e sopportare l'angustia delle tenebre. Per questo motivo, non solo il nostro papa, ma anche tutti noi, di fronte a Cadalo, possiamo essere chiamati Alessandro. Perché, nel momento in cui Cadalo impone a noi l'angoscia dell'oscurità, di cui siamo partecipi nella sciagura, meritatamente riceviamo anche il nome [di Alessandro]. Ma, avendo l'uno un nome che significa sollevare e l'altro un nome che significa cadere, e quindi uno che vince e l'altro che perde la battaglia, siamo indotti a richiamare alla memoria quel conflitto di cui ci narra Giovanni: «Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago»[17]. Riguardo a questo, poco dopo, aggiunge: «Il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato il diavolo e Satana, fu precipitato sulla terra»[18]. Su questo esempio anche Cadalo dal cielo cadde nell'inferno quando, dal culmine della sede apostolica a cui bramava, precipitò nella voragine della scomunica.
Inoltre, non si conosce un altro pontefice con questo nome che abbia presieduto la sede apostolica, se non quell'unico martire di cui sappiamo che ricoprì la sua poltrona al quinto posto dopo S. Pietro e le cui membra furono flagellate[19]. E, poiché sono invitato allo scherzo, questo nome nella sede apostolica rivendica per sé tutti i tipi di tormenti e non traligna dall'antica consuetudine perché possiede la tribolazione in eredità. Anzi, secondo l'interpretazione di questo nome, tutto il mondo è divenuto Alessandria[20], mentre ovunque la Chiesa universale geme sottoposta alle angosce di opposte tribolazioni. Quindi, vale a dire che da questo momento è esposta a rapine da parte di uomini malvagi, è lacerata dalle ingiurie, è oppressa dal peso delle disgrazie, ogni giorno è angustiata da superbe oppressioni e, mentre sopporta i giri di parole e il baccano di coloro che parlano, è annerita, in un certo senso, dal nero dei tizzoni, e dice per bocca di Salomone: «Bruna sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme [...] Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole»[21].
Ma quando il nostro signore avrà udito queste parole che ho appena detto, forse, come è solito, subito risponderà: Parli duramente, che cosa ho fatto per meritarlo? Quale grave offesa ho commesso nei tuoi confronti? Sono simili a queste parole quelle che i Daniti dicevano a Mica, a cui avevano sottratto tutte le cose che possedeva: «Cosa ti prende? dicevano Perché gridi così?» Egli rispose: «Avete portato via gli dei che mi ero fatti e il sacerdote e tutte le cose che ho e mi dite: che hai?»[22].
Dal momento che un uomo sapiente dice: «I discorsi fuori tempo sono come musica durante il lutto»[23], così sarebbe lecito che io facessi l'attore, ma non mi sarebbe gradito il gioco finché sono costretto a piangere di cuore. Il vibrare della cetra non allieta chi è sconvolto dalla perdita dell'amico codice. Restituisca perciò il libro se vuole possedere il librifico[24] e non allontani il misero autore di questo componimento a causa di un incidente di così poco conto. Il sacrificio di tante fatiche e di tanti pericoli di morte, senza dubbio, merita ciò che siamo costretti a cantare con la voce lugubre del profeta: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello»[25].
Certamente come il Vangelo enumera otto beatitudini[26], così, nelle sue leggi, Tullio descrive nondimeno otto generi di pene[27]. Oh, se quelle beatitudini fossero state messe in atto così come noi le conosciamo! Qui elenchiamo solamente i vari tipi di penitenze seguendo l'ordine stabilito da Tullio, cioè la multa, le catene, le sferze, la pena del taglione, l'infamia, l'esilio, la morte e la schiavitù. Perciò, avendo compiuto ciascuna di queste cose del tutto a servizio della sede apostolica, è giusto, io chiedo, che ora noi paghiamo, a questa stessa sede, anche e soprattutto il prezzo dell'oltraggio? Anche se già abbiamo pagato, per così dire, il debito delle penitenze e benché, nel servire il nostro papa, non sembriamo poi così privi delle beatitudini del Vangelo? Abbiamo infatti [sopportato] la prima e l'ultima delle pene, vale a dire la povertà e la persecuzione, quindi abbiamo in abbondanza queste beatitudini!
Senza dubbio, i Romani non vogliono Alessandro, ma [quello che fa] il ramaio. Intendo dire quello che l'Apostolo biasima[28] non quello che cammina lungo il sentiero degli apostoli e dei pontefici apostolici. Non vogliono, dico, quell'Alessandro che offre la ricchezza evangelica della tavola ecclesiastica, ma piuttosto quello che lancia le monete della sordida avarizia. Respingono il successore di Pietro e accolgono l'allievo di quel Simone che offre del denaro per ottenere [la capacità di trasmettere] lo Spirito Santo[29]. Invece, il Signore nostro, che non manca di offrirci le sue ricchezze, nemmeno ci toglie quelle che sono nostre. Certamente, la sentenza apostolica è: «Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma i genitori per i figli»[30].
Ma poiché abbiamo osato così fortemente criticare il padre, oltrepassando con le accuse il nostro limite, sfacciatamente chiediamo a voi, o dilettissimi, la penitenza. Nel litigio fra il servo e il signore, senza dubbio, al delinquente spetta l'assoluzione e al bastonato la penitenza.
Si lamenta per quel suo libro che gli è stato sottratto con l'inganno della frode
Agli inespugnabili scudi della Chiesa Romana, al suo arbitro Ildebrando e al suo dolcissimo fratello Stefano[11], Pietro peccatore, monaco, porge la sua obbedienza.
Rivolgo una lamentela a Dio onnipotente e a voi, che siete membra sue, circa il nostro papa che tanto spesso arreca al mio cuore tristezza e provoca amarezza all'anima di un uomo ormai vecchio.
Egli, infatti, ha preso un nostro libro che, come si sa, con tanta fatica io avevo raccolto dalla povertà meschina di un piccolo e umile ingegno e che, come fosse l'unico figlio, avevo stretto con la dolcezza di un abbraccio materno. Il modo in cui me lo ha sottratto, cosa che voi ignorate, è la ricompensa per il mio lavoro!
Poiché egli sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo, lo consegnò all'abate di S. Salvatore in mia presenza, ordinandogli di trascriverlo. In realtà, durante la notte, a mia insaputa, lo prese e lo nascose nelle sue teche. Davvero questa è l'indole della sobrietà sacerdotale, anzi è la prova della purezza papale! Tuttavia, quando viene interrogato con insistenza riguardo a queste cose, egli sorride e mi liscia, per così dire, il capo con il gradevole profumo della scherzosa gentilezza. Senza dubbio, egli considera il sacerdote un attore. Mentre mi osteggia nei fatti, con le parole mi addolcisce; [mentre] la mano colpisce con un pugno, la bocca sorride. Un caso analogo [è descritto] da Salomone nel libro dei Proverbi: «Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è quell'uomo che inganna il suo prossimo e poi dice: Ma sì, è stato uno scherzo!»[12]
Inoltre, la storia romana racconta che all'imperatore Tiberio, quando veniva chiamato Claudio Tiberio Nerone, gli istrioni dicevano Caldio Biberio Merone, poiché spesso ingurgitava parecchio vino[13]. Anch'io che non so mimare, ma che so scrivere, un giorno forse scriverò qualcosa che non si addice ad un sacerdote, ma ad un attore. Infatti, anch'io potrei facilmente modificare il nome del mio signore con un motto scherzoso, se non fosse che me lo proibisce l'eccellenza di una così alta carica. [Con il nome di] Alessandro, di certo, si intende colui che toglie l'angustia delle tenebre, come si trova nelle interpretazioni dei nomi ebraici[14]. Senza dubbio, che cos'altro si può designare con l'angustia delle tenebre, se non la fatica e la pena della disfatta, se non la frenetica rabbia e il furore che Cadalo ci inflisse?[15] Senza alcun dubbio, Cadalo provocò l'angustia delle tenebre che, secondo l'etimologia del suo nome, papa Alessandro rimosse. Infatti, fintanto che quello cercò di estinguere, per così dire, con il fumo sulfureo dell'ambizione etnea[16], la luce della sede apostolica, costrinse tutti noi a patire e sopportare l'angustia delle tenebre. Per questo motivo, non solo il nostro papa, ma anche tutti noi, di fronte a Cadalo, possiamo essere chiamati Alessandro. Perché, nel momento in cui Cadalo impone a noi l'angoscia dell'oscurità, di cui siamo partecipi nella sciagura, meritatamente riceviamo anche il nome [di Alessandro]. Ma, avendo l'uno un nome che significa sollevare e l'altro un nome che significa cadere, e quindi uno che vince e l'altro che perde la battaglia, siamo indotti a richiamare alla memoria quel conflitto di cui ci narra Giovanni: «Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago»[17]. Riguardo a questo, poco dopo, aggiunge: «Il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato il diavolo e Satana, fu precipitato sulla terra»[18]. Su questo esempio anche Cadalo dal cielo cadde nell'inferno quando, dal culmine della sede apostolica a cui bramava, precipitò nella voragine della scomunica.
Inoltre, non si conosce un altro pontefice con questo nome che abbia presieduto la sede apostolica, se non quell'unico martire di cui sappiamo che ricoprì la sua poltrona al quinto posto dopo S. Pietro e le cui membra furono flagellate[19]. E, poiché sono invitato allo scherzo, questo nome nella sede apostolica rivendica per sé tutti i tipi di tormenti e non traligna dall'antica consuetudine perché possiede la tribolazione in eredità. Anzi, secondo l'interpretazione di questo nome, tutto il mondo è divenuto Alessandria[20], mentre ovunque la Chiesa universale geme sottoposta alle angosce di opposte tribolazioni. Quindi, vale a dire che da questo momento è esposta a rapine da parte di uomini malvagi, è lacerata dalle ingiurie, è oppressa dal peso delle disgrazie, ogni giorno è angustiata da superbe oppressioni e, mentre sopporta i giri di parole e il baccano di coloro che parlano, è annerita, in un certo senso, dal nero dei tizzoni, e dice per bocca di Salomone: «Bruna sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme [...] Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole»[21].
Ma quando il nostro signore avrà udito queste parole che ho appena detto, forse, come è solito, subito risponderà: Parli duramente, che cosa ho fatto per meritarlo? Quale grave offesa ho commesso nei tuoi confronti? Sono simili a queste parole quelle che i Daniti dicevano a Mica, a cui avevano sottratto tutte le cose che possedeva: «Cosa ti prende? dicevano Perché gridi così?» Egli rispose: «Avete portato via gli dei che mi ero fatti e il sacerdote e tutte le cose che ho e mi dite: che hai?»[22].
Dal momento che un uomo sapiente dice: «I discorsi fuori tempo sono come musica durante il lutto»[23], così sarebbe lecito che io facessi l'attore, ma non mi sarebbe gradito il gioco finché sono costretto a piangere di cuore. Il vibrare della cetra non allieta chi è sconvolto dalla perdita dell'amico codice. Restituisca perciò il libro se vuole possedere il librifico[24] e non allontani il misero autore di questo componimento a causa di un incidente di così poco conto. Il sacrificio di tante fatiche e di tanti pericoli di morte, senza dubbio, merita ciò che siamo costretti a cantare con la voce lugubre del profeta: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello»[25].
Certamente come il Vangelo enumera otto beatitudini[26], così, nelle sue leggi, Tullio descrive nondimeno otto generi di pene[27]. Oh, se quelle beatitudini fossero state messe in atto così come noi le conosciamo! Qui elenchiamo solamente i vari tipi di penitenze seguendo l'ordine stabilito da Tullio, cioè la multa, le catene, le sferze, la pena del taglione, l'infamia, l'esilio, la morte e la schiavitù. Perciò, avendo compiuto ciascuna di queste cose del tutto a servizio della sede apostolica, è giusto, io chiedo, che ora noi paghiamo, a questa stessa sede, anche e soprattutto il prezzo dell'oltraggio? Anche se già abbiamo pagato, per così dire, il debito delle penitenze e benché, nel servire il nostro papa, non sembriamo poi così privi delle beatitudini del Vangelo? Abbiamo infatti [sopportato] la prima e l'ultima delle pene, vale a dire la povertà e la persecuzione, quindi abbiamo in abbondanza queste beatitudini!
Senza dubbio, i Romani non vogliono Alessandro, ma [quello che fa] il ramaio. Intendo dire quello che l'Apostolo biasima[28] non quello che cammina lungo il sentiero degli apostoli e dei pontefici apostolici. Non vogliono, dico, quell'Alessandro che offre la ricchezza evangelica della tavola ecclesiastica, ma piuttosto quello che lancia le monete della sordida avarizia. Respingono il successore di Pietro e accolgono l'allievo di quel Simone che offre del denaro per ottenere [la capacità di trasmettere] lo Spirito Santo[29]. Invece, il Signore nostro, che non manca di offrirci le sue ricchezze, nemmeno ci toglie quelle che sono nostre. Certamente, la sentenza apostolica è: «Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma i genitori per i figli»[30].
Ma poiché abbiamo osato così fortemente criticare il padre, oltrepassando con le accuse il nostro limite, sfacciatamente chiediamo a voi, o dilettissimi, la penitenza. Nel litigio fra il servo e il signore, senza dubbio, al delinquente spetta l'assoluzione e al bastonato la penitenza.
[1] La lettera nei vari manoscritti è riportata in testa al LG (Reindel I, 285-286 [PL 145, 159B-160D]). Si veda anche la traduzione di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza ..., appendice 2: Testi e traduzioni, pp. 454-456. P. Payer, Book of Gomorrah ..., pp. 95-97 riporta la traduzione di Boswell.
[2] «inquinari manibus vel suis vel alienis virilia sua vel aliena contrectans, aut inter femora vel in terga execrabili irrationabilitate fornicans» manca nella PL.
[3] Qui Leone IX riporta la proposta di Pier Damiani cioè che chiunque abbia peccato in uno dei quattro modi suddetti, senza alcuna distinzione, debba essere espulso dall'ordine ecclesiastico, aggiungendo che non solo i sacri canoni lo prevedono ma che anche lui lo condivide («secondo il nostro giudizio»). Il papa però aggiunge sed nos humanius agentes [...], come per dire che nella pratica degradare tutti non è possibile.
[4] Reindel I, 332-334 (PL 144, 208B-209C); secondo il Reindel la lettera fu scritta tra il 1050 e il 1054.
[5] Es 5,21
[6] 2 Sam 16,1-4. Zibà per vile interesse calunnia Merib-Bàal, suo padrone, e Davide credendo alla calunnia confisca tutti gli averi di Merib-Bàal per darli a Zibà. Si veda anche 2 Sam 25-31.
[7] Cfr. Eb 4,13
[8] Gen 18,20-21
[9] Sal 1,3
[10] Reindel IV, 74-79 (PL 144, 270A-272C), porta la data del gennaio del 1069.
[11] Si tratta del cluniacense Stefano di S. Grisogono ( 1064) a cui Damiani dedica altre lettere.
[12] Pr 26,18-19
[13] Paolo Diacono, Historia Romana, a cura di A. Crivellucci, Roma 1914 (Fonti per la storia d'Italia 51) VII, 10 p. 121; cfr. anche Svetonio, De vita Caesarum III, 42.
[14] Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum, a cura di P. de Lagarde, Paris 1959 (CCL 72), p. 157: «Alexander levans angustias tenebrarum».
[15] Si riferisce a Cadalo vescovo di Parma che fu l'antipapa di Alessandro II con il nome di Onorio II. Cfr. n. 1 supra e A. Fliche, Storia della Chiesa ..., VIII, pp. 34-37.
[16] Isidoro di Siviglia, Etymologiarum ..., XIV 6,32: «Sicilia [...] sulphure plena; unde et ibi Aethnae montis extant incendia» e XIV 8,14: «Mons Aethna ex igne et sulphure dictus».
[17] Ap 12,7. Il testo di Damiani riporta praelium anziché praelium magnum della Vulgata.
[18] Ap 12,9
[19] Per il papa Alessandro I si veda Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, I-III, Paris 1886-1957, cap. VII, 127: «Martyrio coronatur». Sembra però che il Papa Alessandro I venga confuso con Alessandro martire, v. BHL 266.
[20] Per l'interpretazione del nome si veda T. Schmidt, Alexander II (1061-1073) und die römische Reform Gruppe seiner Zeit, 1977, p. 96 (Päpste und Papsttum 11).
[21] Ct 1,5-6
[22] Gdc 18,23-24
[23] Sir 22,6
[24] Secondo il Reindel IV, 469 significa autore di un libro. Si noti il gioco di parole fra librum e librificum. In sostanza Damiani avverte il Papa che se non gli restituisce il libro, non avrà più accanto a sé l'autore del medesimo.
[25] Rm 8,36; cfr. Sal 44,12
[26] Mt 5,3-10
[27] Cicerone, De legibus, Fragmenta; citato in Agostino, De civitate Dei, a cura di B. Dombart e A. Kalb, Paris 1955 (CCL 47-48) XXI 11, 777: «octo genera poenarum in legibus esse scribit Tullius [...]».
[28] 2 Tm 4,14-15: S. Paolo mette in guardia Timoteo da un certo ramaio di nome Alessandro, che era stato un accanito avversario della predicazione dell'apostolo e che gli aveva procurato molti mali.
[29] At 8,9-25
[30] 2 Cor 12,14
8. Bibliografia
Bibliografia
Fonti
Aelredus Rievallensis, Opera omnia, I: Opera Ascetica, a cura di A. Hoste e H. Talbot, Turnholti 1971 (CCM 1).
Anselmus Cantuariensis archiepiscopi, Opera omnia, PL 158-159.
Augustinus, De civitate Dei, a cura di B. Dombart e A. Kalb, Paris 1955 (CCL 47-48).
Bibbia di Gerusalemme (La), a cura di F. Vattioni et al., Bologna 1988.
Biblia Sacra iuxta Vulgatam Clementinam, a cura di A. Colunga / L. Turrado, Madrid 1982.
Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, ed. Socii Bollandiani, Bruxelles 1898-1901 (rist. Bruxelles 1992).
Bieler, L., The Irish Penitentials, con un'appendice di D.A. Binchy, Penitentials texts in Old Irish Translation, Dublin 1963 (Scriptores Latini Hiberniae 5).
Boethius, Manlius Severinus, Liber de persona et duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, PL 64, 1337-1354.
Bonizone di Sutri, Liber ad amicum, 5 in Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculis XI et XII conscripti, I, Hannover 1891 (MGH, Scriptores, VI).
Burchardus Vormatiensis episcopus, Decretorum libri XX, PL 140, 537-1058.
Capitularia Regum Francorum, a cura di A. Boretius, Hannover 1883, in MGH, Leges, II,1.
Capitularia Regum Francorum, I, 22, Hannover 1883 (MGH, Leges, II).
Chevalier, U., Répertoire des sources historiques du Moyen Âge, Paris 1907.
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Irene Zavattero © 2001 |
(*) Tesi di laurea in Storia della Filosofia discussa il 24 settembre 1996 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia con sede in Arezzo dell'Università degli Studi di Siena.
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