DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il Natale oggi per noi. Don Divo Barsotti 24-12-1983 - Ritiro di Natale

Prima Meditazione
Vigilia di Natale - L'incontro con Dio implica una novità assoluta per l'uomo, ed è sempre un morire e un risorgere

Siamo giunti dunque al Natale. Prima dei Vespri noi dobbiamo vivere l'ultima attesa di questo grande mistero. L'imminenza della celebrazione esige in noi un aprirsi di tutta l'anima nel desiderio e nell'attesa, così come fu nel desiderio e nell'attesa che il popolo di Israele si preparò negli ultimi secoli alla venuta del Cristo. Dobbiamo domandarci quale può essere questa attesa e di che cosa può essere questo desiderio per noi, che viviamo oggi l'imminenza della celebrazione natalizia.
Evidentemente, se pensiamo alla nascita di Gesù, non c'è da attendere quello che già è avvenuto. Se pensiamo alla fine del mondo presente per la seconda venuta del Cristo, per la manifestazione della gloria, dobbiamo dire che non siamo ancora preparati a questa venuta, oggi come oggi, dovremmo temerla., perché per la massima parte degli uomini la manifestazione del Cristo si risolverebbe in una grande catastrofe, in una dannazione quasi universale. Infatti gli uomini non sono più aperti ad accogliere la grazia; non conoscono più il Signore; in gran parte lo hanno rifiutato e quelli che non lo hanno rifiutato non lo conoscono più.
Dio ci dona di celebrare il Natale non come attesa dell'ultima manifestazione del Cristo e nemmeno come semplice ricordo di un avvenimento passato, ma ci dà la grazia di vivere questo Natale per un nostro in contro con Lui, incontro nuovo che non determina nulla nel Figlio di Dio, ma determina una vera nascita, un vero rinnovamento per noi.
Si tratta dunque di vivere oggi il Natale del Signore non come un avvenimento che riguarda il Figlio di Dio; del resto la stessa manifestazione ultima della sua gloria, non riguarderà, più l'umanità di Gesù glorificata, riguarderà l'umanità, che lo vedrà, come dice l'Apocalisse. Ma noi non vorremmo la novità ultima, sentiamo di non essere preparati. È preparata la nostra umanità ad accogliere il Cristo? L'incontro vero e definitivo anche per noi, sarà la morte. Vivere il Natale vuol dire per noi vivere il "dies natalis"? vivere la nostra morte? Sembra strano di unire il Natale col nostro morire e invece sarebbe la cosa più conforme a verità unire proprio la festa di Natale alla nostra morte, perché il vero "dies natalis", per noi, non può essere la Natività di Gesù, ma il nostro nascere alla gloria nella visione di Colui che è già nato, di Colui che già ci ha redenti. Tuttavia anche questo ci sembra prematuro. Nessuno di noi si sente preparato a morire questa notte e non vorremmo moire stanotte, prima di tutto per non dare noia agli altri. Un giorno di festa così sarebbe un disastro se la nostra famiglia dovesse avere un morto in casa. Prima di tutto per la nostra famiglia, ma forse anche per noi, perché credo che nessuno si senta preparato a questo incontro supremo e definitivo col Cristo.
E allora celebrare il Natale che cosa vuol dire per noi? Se il giorno di domani ci lascia così come siamo oggi, evidentemente noi non celebriamo il Natale. Se noi domani dovessimo vivere soltanto la gioia di un incontro fra noi, il ricordo soltanto di un avvenimento passato, noi non avremmo celebrato il Natale, perché è vero che il Natale oggi riguarda noi più ancora di quanto non riguardasse noi la sua nascita temporale a Betlem: quella nascita si fa viva oggi per me, oggi però che io vivo. È vero dunque che riguarda noi, ma noi in quanto siamo toccati da Lui, noi in quanto ci incontriamo con Lui, noi in quanto, al contatto col Cristo, viviamo un nostro rinnovamento interiore. Non si tratta nemmeno di una nascita, perché la nostra vera nascita, indipendentemente dalla nostra morte, è anche il battesimo. E il battesimo per noi è già avvenuto; e la nascita vera, che è la morte, ancora è da venire.
Che cosa per noi vuol dire questo Natale? Celebrare il Natale vuol dire comprendere che cosa il Natale è, oggi, per, noi.
Si è detto che in questa imminenza della festa noi dobbiamo vivere il desiderio e l'attesa. Desiderio e attesa di che? Miei cari fratelli, l'incontro con Dio implica sempre una novità assoluta per l'uomo. Se noi crediamo di conoscere Dio e di vivere la vita che abbiamo vissuto finora, certamente queste nostre parole di volerci incontrare con Lui sono vane, sono vuote di senso. L'incontro con Dio non è un avvenimento che si scrive negli avvenimenti comuni della nostra vita, implica sempre una frattura. Vi ricordate quello, che dicono i salmi? "Tocca i monti e fumano". È impossibile che la creatura sia toccata da Dio, si incontri realmente con Lui rimanendo quella che è. Sia pur santa quanto si voglia, nessuna creatura può veramente essere visitata in un modo reale da Dio, senza che non subisca un trauma, non subisca una frattura nella sua vita interiore. Dio non lascia mai le anime così come le trova; non le può lasciare, perché Dio è tale che la creatura non regge al suo incontro. "Nessuno può vedermi e vivere". Giustamente, si deve morire, non della morte ultima, ma di una morte sì; di una morte a noi stessi, ai nostri pensieri, ai nostri programmi, alle nostre idee, a tutto quello che finora costituiva il nostro vivere, perché se Dio ci tocca, il tocco di Dio per sé determina questa frattura dell'essere creato. "Nessuno può vedermi e vivere". Rimane vero anche per noi, per tutti e sempre Questo vuol dire certamente che non si muore una volta sola; questo vuol dire che anzi vivere un contatto con Dio vuol dire morire continuamente. Sì, anche risuscitare, in un certo modo, ma prima di tutto morire.
Ci può essere una identificazione dell'essere umano coll'Essere divino? del vivere umano, sia pure in san Francesco, con la vita divina? Non c' e, non ci può essere una equivalenza. Allora se Dio ti tocca, anche se sei san Francesco, muori e risorgi: muori a. te stesso, al tuo pensiero, alle tue idee, ai tuoi propositi, alle tue virtù e ti apri ad accogliere Dio che è sempre assoluta novità.
Siamo disposti a vivere questo Natale in un desiderio vivo di una vita nuova, in una attesa viva di qualche cosa che veramente trasformi fino nelle radici la nostra vita e l'essere nostro? C'è in tutti noi certo, un desiderio di essere migliori, ma attenti, questo essere migliori non mi soddisfa. Essere migliori vuol dire che c'è una continuità di cammino in un certo processo etico della vita per il quale cerchiamo pian piano di modificare il nostro carattere, di modificare il nostro modo di sentire e di vivere, ma tutto questo è proprio dell'uomo, il quale vive secondo una norma che è quella di vivere come si deve vivere, di essere quello che deve essere. Ma qui non si tratta di essere quello che dobbiamo, si tratta di divenire, in qualche modo, compagni di Dio, in qualche modo amici di Dio, cioè di trascendere infinitamente l'umano. Attendere a Dio non si può che in quanto noi viviamo un salto qualitativo, non in quanto camminiamo. Camminare non ci porta mai lontano, non ci porta mai più vicini a Dio, perché non c'è una vicinanza di Dio: o sei in Dio o non sei.
Infatti, voi lo sapete benissimo, uno che abbia ammazzato cinquecento persone, se si converte e si pente, è subito in Dio perché la vita divina non si raggiunge attraverso un cammino, ma attraverso una rottura. È quello che si diceva: l'incontro con Dio opera una frattura nell'uomo, è sempre un morire e risorgere. Noi dobbiamo capire questo. Molto spesso abbiamo concepito la vita cristiana come un cammino continuo. Non è un cammino continuo; anche se c'è un processo nella vita cristiana, questo processo però avviene attraverso un continuo morire e un continuo risorgere.
Come tante altre volte si è detto anche in Comunità, la vita cristiana implica. per sé una conversione perenne. Cos'è la conversione perenne? È uno strapparci alle proprie radici, è un tendere verso Dio, è un essere presi da Lui. Tutto questo vuol dire continuamente morire a noi stessi per risorgere in Lui, in un modo sempre nuovo, perché Dio rimane sempre l'eterna Novità, ma è sempre un morire e risorgere.
Ora, per vivere il Natale, bisogna dunque sentire prima di tutto il bisogno di morire a noi stessi, bisogna sentire e vivere questa volontà di morire a noi stessi per essere presi da Lui, posseduti da Lui. Sentiamo tutto questo? Sentiamo, come sentivano i primitivi anche nella religione cosmica, che ogni anno la creazione precipita come nel vuoto, come nel nulla, come nella morte e Dio la riprende sempre all'ultimo tuffo per farla rivivere? Noi qualche cosa di simile dobbiamo vivere nel nostro rapporto con Dio. La continuità è soltanto apparente; perché di fatto, se tu non muori a te stesso, le tue virtù di oggi divengano, invece che virtù, impedimento all'unione con Dio.
Anche questo si è detto più volte, ora lo esprimo con altre parole e in un'altra luce, ma rimane sempre la stessa verità. Che cosa si è detto? Si è detto che se uno si ferma, precipita; che se uno si ferma non vive più nessuna perfezione ed è più perfetto colui che comincia il cammino verso Dio. Ma quando si parla di cammino il nostro linguaggio è un linguaggio non proprio, perché non vi può essere cammino che porti l'anima a Dio, se Dio è l'Infinito, se fra la creatura e Dio rimane questa distanza infinita; sempre s'impone il salto qualitativo, sempre, e il salto qualitativo implica per sé, necessariamente che ogni atto dell'uomo che voglia incontrarsi con Dio sia un atto di conversione interiore, sia un atto in cui l'uomo vive la sua "abneget semetipsum". È quello che il Signore vi chiede stasera, prima di celebrare il Natale; che chiede a tutti noi stasera, prima che noi celebriamo il Natale. "Abneget semetipsum"; questo rinnegamento di sé questo morire a noi stessi, per aprirci ad accogliere Dio, secondo quella misura che noi gli offriamo, offriamo alla grazia, perché Egli si doni. È certo che c'è un processo, dicevo, ma attraverso dei salti, non attraverso un cammino continuo; attraverso una conversione perenne. E davvero non c'è processo senza questa conversione, appunto perché non c'è continuità tra la creatura e Dio. Tu lo accogli nella misura che ora la tua morte rende possibile a Dio di donarsi, o meglio, rende possibile a te di riceverlo, perché Egli si dona sempre. Siamo noi che rimaniamo incapaci di accoglierlo nella sua infinità.
Se dunque noi ora viviamo l'attesa ultima della celebrazione natalizia, dobbiamo vivere questa attesa in un bisogno di venir veramente meno a noi stessi, nel sentimento della povertà dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, nel sentimento vivo della mediocrità di tutta la nostra vita; nel bisogno di un rinnovamento interiore che ci strappi alle nostre consuetudini, alle nostre abitudini, a tutto quello che siamo, a quello che viviamo, perché un Altro viva in noi. Quando l'uomo risorge non è mai quello di prima. Nella religione cosmica, sì. Infatti quello che chiede l'uomo nella religione cosmica è precisamente la continuità di una vita che si esprime attraverso le stagioni, e le stagioni riportano sempre, con la primavera, la vita di prima. Ma nel cristianesimo, nella vita religiosa non è così. La risurrezione dona all'uomo veramente, una vita diversa.
Dobbiamo dunque vivere questa attesa di Dio, questo bisogno di una risurrezione, vivendo già ora questa volontà di venir meno a noi stessi per far posto nella nostra anima a Lui.
Importa poco, diceva, il Silesio - quasi quattrocento anni fa - che Gesù sia nato a Betlem; se Egli non nasce in te nulla vale la sua nascita temporale. La nascita a Betlem di Gesù è in ordine precisamente a noi. Per noi infatti Egli è nato, ma Egli è nato per noi solo nella misura in cui la sua nascita opera in noi questo rinnovamento, realizza per noi questa frattura, compie in noi questa conversione, questa morte e questa risurrezione in Lui. C'è in noi - ecco la prima cosa che dobbiamo domandarci - questo desiderio di essere nuovi? C'è in noi questa volontà di aprirci a Lui che viene, anche se questo aprirci a Lui che viene implica per noi un morire, una rinunzia, cioè una abnegazione di tutto quello che siamo e viviamo? Troppo spesso noi identifichiamo vita morale e vita religiosa. La vita religiosa non è una vita morale, non è che sia immorale, evidentemente, ma non è una vita morale. La morale è propria dell'uomo, la vita religiosa è la vita di. Dio, non è l'adempimento di una norma che fa parte della nostra natura, ma piuttosto un essere presi da Dio e sollevati a Lui; strappati a noi stessi per essere in Lui.
Ed ecco uno dei fondamenti della vita cristiana: questo bisogno che l'anima prova di una conversione che non finisce mai. Quanto più anzi, tu risorgi in Cristo, tanto più nasce in te vivo e doloroso il bisogno di una conversione più profonda, perché fra l'uomo e Dio l'abisso rimane infinito, e l'anima, quanto più veramente è trasformata, tanto più realizza e vive questa discontinuità infinita, questa sproporzione infinita fra sé e Dio stesso. È nella misura che Dio vive in noi che l'anima scopre questa infinita distanza. Perché è proprio la presenza di Dio in te, che dona a te la conoscenza di questa abisso che da Lui in qualche modo ti separa. E sembra paradossale il nostro linguaggio. Com'è che Dio, venendo in noi, ci fa sentire la nostra lontananza? Ma è proprio questo, perché è precisamente venendo in noi che Dio si fa conoscere. Tu non potresti conoscere né te stesso né Lui se non nella misura che Egli si dona. Di qui ne deriva quello che si diceva: la vita cristiana implica questa conversione perenne. Non abbiamo mai realizzato una nostra conversione. Si tratta di vivere giorno per giorno una conversione che diviene ogni giorno più esigente, nella misura che diviene sempre più grande la conoscenza che hai in te stesso e di quel Dio che vuol vivere in te.
Se noi non proviamo questo bisogno di conversione, la prima cosa che si impone in questa attesa del Natale è la preghiera che il Signore ci faccia capire e ci doni la grazia di desiderare davvero questo morire a noi stessi perché Lui solo viva in noi, almeno, Lui viva di più. Possiamo accettarci così come siamo? Possiamo essere soddisfatti di noi? Possiamo credere che così come siamo, abbiamo già realizzato il vero incontro, il definitivo incontro con Lui?
Vedete, se noi lo avessimo già realizzato dovremmo morire, e se anche noi pensiamo di essere giunti a tal punto che soltanto attraverso la nostra conversione di stasera possiamo raggiungere davvero una definitiva unione col Cristo, allora noi non desidereremmo tanto una conversione nel tempo, quanto il nostro morire. Non ha infatti senso la vita, non ha significato se non in quanto ci è stata donata proprio per vivere questo aprirsi continuo dell'essere creato alla grazia che in questo essere si vuole effondere per riempirla di sé.
Si tratta dunque di chiedere a Dio la grazia di capire, prima di tutto, il bisogno di una nostra conversione; la grazia poi di chiedere a Dio di convertirci a Sé; la grazia poi di chiedere a Dio che in questa conversione noi viviamo sempre più reale e vera una nostra abnegazione dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri, del nostro vivere, perché non più siamo noi a vivere, ma sia il Cristo a vivere in noi. Questo dobbiamo chiedere stasera a Gesù che viene. La venuta di Gesù non può essere la sua nascita temporale e non è ancora la manifestazione ultima della sua gloria, che potrà venire soltanto con la nostra morte, né tanto meno noi chiediamo a Dio la manifestazione ultima della sua gloria per tutta l'umanità, che sarebbe la fine del mondo; noi sentiamo che l'umanità e noi stessi siamo ancora troppo lontani dall'aver realizzato il piano divino, per poter pensare di dover morire stanotte: si tratta invece per noi di vivere questo morire a noi stessi oggi perché Egli viva in noi, perché Egli cominci a vivere in noi in un modo più perfetto e più pieno.
Del resto che cos'è la vita religiosa? Impegno di perfezione. Ma che impegno di perfezione può essere la nostra vita religiosa, se non è l'impegno costante, sempre ripetuto, di convertirci al Signore? Se si è detto che un'anima che si ferma nel cammino precipita, vuol dire che non è possibile per noi vivere un impegno di vita religiosa che in questo incessante convertirsi dell'anima a Dio, in un incessante strapparci alle proprie radici, in un costante strapparci al nostro amor proprio, alla nostra vanità, alla nostra sensibilità, per offrirci a Dio in un morire a noi stessi perché Egli viva in noi.
Questo dunque dobbiamo chiedere, questo dobbiamo implorare stasera, prima di entrare proprio nella festa del Natale. Coi Vespri entreremo nella festa del Natale, perciò in questo momento dobbiamo chiedere questo e prima di tutto questo. Che cosa? È certo che noi potremo vivere una vera preghiera che implori questa nostra conversione interiore, solo nella misura che ci conosciamo e conosciamo Lui.
E allora, non vi sembra che la prima cosa che si impone dopo aver pregato il Signore che Egli ci converta a Sé, è quella di realizzare la nostra mediocrità, della meschinità della nostra vita. Guardiamoci un poco nella luce del Cristo che viene; guardiamoci un poco nella luce di questa santità di amore, per la quale santità un Dio si fa uomo per noi, per donarsi interamente a noi. Guardiamoci un po' in questa luce dell'amore infinito del Cristo per renderci conto del nostro egoismo, di quanto siamo indisponibili a Dio e ai fratelli, di quanto siamo ancora legati a noi stessi, di quanto siamo ancora chiusi in noi stessi, di quanto siamo ancora fermi nel nostro pensiero, nei nostri giudizi, nei nostri sentimenti, di quanto siamo meschini. Si tratta per noi di fare un esame di coscienza. Voi sapete che non sono molto amante dell'esame di coscienza, ma dovete anche sapere che non si può certamente chiedere a Dio di convertirci a Sé se noi non siamo veramente stomacati di quello che siamo. Non dico un'altra parola, è questa la vera parola. Era stomacata perfino santa Teresa quando era già santa, figuriamoci se non posso e non debbo essere stomacato io di me stesso. Ma non per essere amari contro noi stessi, perché anche questo è orgoglio, è amor proprio che non vuol riconoscere il proprio nulla e non sopporta la visione della propria povertà; si tratta si di conoscere quanto siamo meschini e mediocri così da essere rivomitati da Dio e rivomitati dagli uomini, ma per volgerci a Dio e implorare da Lui la conversione. La conoscenza che noi abbiamo di noi stessi è ordinata soltanto a rinnegare quello che siamo, a chiedere al Signore che Egli ci strappi alle nostre radici perché noi siamo impotenti. Possiamo vederci così come siamo, ma il vederci non opererebbe nulla se in noi immediatamente non nascesse poi la speranza, l'attesa di questa venuta del Cristo che fa succedere al morir nostro, a noi stessi, la sua vita divina. Nel cristianesimo non c'è morte senza risurrezione.
Ecco quello che noi dovremmo chiedere a Dio. E io penso che prima di iniziare veramente questo giorno di ritiro, si imponga per noi un po' di silenzio interiore, per metterci tutti davanti al Signore; e nel conoscimento di quello che siamo possiamo implorare la sua grazia che ci rinnovi; perché altrimenti il Natale passa proprio come olio sull'acqua, senza toccarci nemmeno. Sappiamo bene che Gesù è nato, ma si ripete quello che dicevo prima: nulla varrebbe che il Cristo fosse nato se non nascesse oggi in noi, e oggi in noi può nascere solo nella misura che noi, consapevoli della nostra povertà, ci apriamo ad accogliere il suo domo di amore, ci apriamo ad accogliere la sua grazia divina che ci rinnovi e ci trasformi. E allora vi chiedo che in silenzio noi meditiamo un poco sulla nostra vita, vediamo un poco quanto misera e povera sia la nostra esistenza, quanto indegna di anime che Dio ha voluto scegliere e fino dalla nascita ha chiamato, nell'adozione divina, a vivere la sua medesima vita.

Seconda Meditazione
Riflessione penitenziale alla luce di Dt 10,11

Noi sappiamo che ogni incontro con Dio implica e insieme realizza una conversione del cuore; e noi non possiamo vivere questo Natale come ricordo soltanto di un avvenimento passato, né come un'attesa della fine o del mondo o anche di noi stessi nella morte. Sentiamo tutti di non essere ancora preparati a questo incontro definitivo con Dio. Vogliamo piuttosto vivere una nostra conversione profonda dall'incontro che noi vogliamo realizzare in questa notte, con Colui che è venuto. Ma la conversione può avvenire finché noi non avremo preso coscienza della nostra povertà? del nostro peccato? In questo tempo di silenzio che ci è stato concesso, ci siamo veduti nella luce di Dio? Così come siamo, poveri, indegni? Così come siamo, legati ancora a noi stessi, pieni di sentimenti meschini, di sentimenti di vanità, di amor proprio, di sensibilità non mortificata, di mancanza di amore verso i fratelli, di incapacità di accoglierli e di accettarli così come sono, sentendoci impegnati unicamente a loro servizio per loro amore. Ci siamo liberati da tutti gli ostacoli che ci impedivano di rispondere a Dio, oppure anche noi come Adamo, ci siamo nascosti pensando così di sfuggire alla sua parola che ci chiamava?
Dio ci ha posto dinanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Egli ci ha detto che unico suo comando è l'amore per Lui, perché è dall'amore per Lui che nasce anche l'amore per i nostri fratelli, che deriva per noi la liberazione da tutto quello che ci impedisce questa vita di amore in cui in fondo consiste tutta la nostra risposta all'amore infinito di Dio. Dall'amore di Dio tutto deriva, ma in che modo Dio è stato vivo per noi? in che modo davvero il nostro rapporto con Lui è stato un rapporto reale? Com'è stata la nostra fede? come noi abbiamo vissuto nella divina Presenza? e come nella sua Presenza noi abbiamo eliminato dalla nostra vita tutti gli idoli, i pensieri vani, le nostre piccole ambizioni, i nostri egoisti? Sono tutti idoli che ci impediscono di essere totalmente di Dio, di volgerci a Lui con quell'amore puro e totale che Egli ci ha chiesto. Sì è vero, l'unico peccato rimane l'idolatria e tutti noi ne sismo colpevoli. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze è davvero l'unico comandamento che Dio ha dato a Israele e che ha dato anche a noi, ma chi di noi veramente lo vive? Certo si impone, se vogliamo vivere questo comando, che noi ci strappiamo alle nostre radici di egoismo, di orgoglio e di sensualità per offrirci, nella nostra povertà, a Dio solo.
È questo che dobbiamo chiedere stasera a Gesù. Prima di celebrare coi Vespri l'ingresso nella festa del Natale, dobbiamo dunque metterci dinanzi al suo volto per vederci nella luce della sua santità e, senza sgomento col desiderio e con l'amore della Maddalena, gettarci ai suoi piedi e implorare il perdono. Dobbiamo chiedere davvero che questa notte sia per noi una nascita nuova, sia un rinnovamento di tutta la nostra vita. Non possiamo contentarci di noi stessi. Se domani siamo come oggi il Natale è passato invano. Che non sia invano: "Ti ho messo davanti la morte e la vita, la maledizione e la benedizione"; non c'è neutralità nella vita divina. Se l'incontro con Dio non rinnova il nostro spirito in una conversione vera e reale, evidentemente l'incontro con Dio ci fa maggiormente responsabili, ci chiude ancora di più alla sua grazia, ci allontana da Lui.
Come dobbiamo stasera implorare questo perdono! Come dobbiamo desiderare davvero col suo perdona quella conversione che volgendo tutta la nostra anima a Lui, la illumina della sua luce di grazia e di amore. Forse più grave di ogni nostro peccato particolare è proprio questa nostra tiepidezza, questa nostra vita così mediocre, povera di amore, superficiale, distratta. È evidente che non viviamo nella divina Presenza. E come dal vivere nella presenza di Dio nasce per noi davvero ogni vita santa, così è dall'oblio di Dio - dicevano i Padri della Chiesa - che nascono tutti peccati. Chiediamo al Signore che Egli davvero si faccia vivo per noi. Egli è presente, ma questo Natale deve farcelo vedere, deve farci incontrare con Lui e poi, una volta incontrato, non farcelo perdere più.
Gettiamoci ora ai piedi del Signore in umiltà profonda e in fiducia assoluta della sua misericordia, perché Egli ci sollevi a Sé nel suo amore.

Terza Meditazione: Tt 3, 4-7
"Quando piacque mostrarsi a noi la bontà e la benignità del Signore"

San Paolo ci dice stasera, che cosa è il Natale. Noi l'abbiamo udito:è la manifestazione della benignità e della bontà del Salvatore nostro Dio. Prima di tutto il Natale è rivelazione. Mai l'uomo avrebbe potuto conoscere Dio, se Dio non avesse voluto rivelarsi. La rivelazione di Dio trascende ogni nostra attesa, ogni nostro pensiero. L'umanità l'aveva atteso per migliaia di anni; ma quando Egli è venuto, l'umanità, non poté riconoscerlo, talmente la rivelazione che Egli dava di Sé trascendeva ogni pensiero e ogni attesa dell'uomo. Potevano pensare e attendere un Dio che era potenza, un Dio che era sapienza, ma non attendevano un Dio che era amore, soltanto amore, amore infinito. L'amore ci ordina all'amato. Tanto più grande, tanto più vero è l'amore, quanto più l'amante, ordinandosi all'amato, scompare perché non vive per sé, perché non vive in sé, ma vive nell'amato e per l'amato soltanto. E Dio nella sua infinita potenza, e Dio nella infinita sua sapienza rivelò Se stesso precisamente in questa povertà, in questa umiltà senza fondo: in un bambino che aveva bisogno dell'uomo, che chiedeva all'uomo di essere protetto e difeso.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che Dio si rivelasse così e quale trasformazione e conversione dell'uomo suppone questa conoscenza di Dio! Non è soltanto Dio che trascendendo il nostro pensiero si manifesta diverso, totalmente diverso da come noi potevamo pensarlo, ma in questa sua rivelazione ci chiama Lui stesso a una conversione dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, perché anche noi possiamo comprendere che solo nell'amore è la verità e solo nell'amore è la vita; in un amore che non è un amore centripeto per il quale noi vogliamo tutto possedere, tutto attrarre a noi, ma in un amore che totalmente ci ordina a Lui nella semplicità e nell'umiltà della nostra vita.
Come mirabile è Dio che continua il mistero del suo Natale nel mistero della nostra povertà umana, della nostra debolezza, della nostra umiltà! Voi lo vedete, anche i cristiani chiedono sempre a Dio nuovi segni; anche i Vescovi chiedono a Dio una nuova Pentecoste per la Chiesa, i nuovi trionfi. In un modo o in un altro si vuole sfuggire sempre a questa rivelazione dell'amore divino nell'umiltà e nella debolezza di un bimbo. Si vorrebbe che la Chiesa ora anticipasse la gloria futura. Ma la Chiesa, e ogni cristiano, vive solo nella misura che discende nel proprio nulla e scompare. Tanto più siamo grandi quanto più moriamo a noi stessi, quanto più scompariamo nella luce di Dio. Vivere per Iddio vuol dire vivere per noi il nostro morire, vuol dire cioè non vivere più per noi, non cercar più nulla per noi, non pretendere più nulla per noi, non volere più nulla, nemmeno la santità, perché il valore la santità è rifugiarsi ugualmente in una nostra pretesa di essere qualcuno, qualcosa. Sparire, che Dio solo sia, che Lui sia l'Unico amato. Come per Lui siamo noi che si conta, come per Lui siamo noi il suo volere, la sua ricchezza la sua gioia, così per noi non può essere altra gioia, altra ricchezza che Lui. E noi dobbiamo e vogliamo scomparire nella luce divina.
L'insegnamento del Natale è un'umiltà senza fondo. Se Dio che è l'Infinito, rivelandosi a noi ha manifestato - dice san Paolo - la sua benignità; rivelandosi a noi è disceso fino nel fondo della povertà umana e della umana debolezza; se ha voluto non essere quasi nulla, noi, noi che siamo già nulla che cosa pretendiamo di essere? Come mai non accettiamo almeno quello che siamo, la nostra povertà, e la nostra indigenza? Perché non troviamo la nostra gioia nell'essere nulla? Perché cerchiamo un compenso alla nostra povertà nel potere della cultura, nel potere politico, nel potere economico, nella stima degli altri, nell'affetto delle creature? Tutto pretendiamo per noi e nulla dovremmo chiedere tranne il potere di amare e di spogliarci sempre più di noi stessi, di ogni pensiero di noi stessi, di ogni volontà di affermazione di noi stessi, per essere totalmente amore.
Si è manifestata la bontà e benignità di Nostro Signore, del nostro Dio e Salvatore, del nostro Dio - ci dice san Paolo. Non è la manifestazione semplicemente di un grande Dio, è la manifestazione suprema di Dio, un bambino che vagisce, un bimbo che non parla, un bimbo che deve essere - dicevo prima - difeso e protetto. Ecco l'onnipotenza divina! Davvero l'onnipotenza è soltanto in ordine ad una sua morte, a un suo annientamento. Quando ci darà una prova ancora maggiore del suo amore, lo vedremo sopra urna croce, oltraggiato, vilipeso, abbandonato da tutti, tradito da coloro che Egli aveva amato di più.
È questo l'amore! E noi che cosa pretendiamo? Come noi dovremmo essere affamati di umiltà; come dovremmo cercare non di essere qualcosa, ma di non essere e non per volontà di morte, ma per volontà di amore, perché chi ama, noi lo sappiamo, si dimentica di sé, non può ricordarsi di sé, non può pensare a sé.
Questo noi dobbiamo chiedere stasera al Signore in questo Natale: Il cammino della santità, se vi è un cammino, è soltanto un cammino in discesa. Il cammino a cui ci chiama il Signore è un cammino soltanto di spogliamento e di morte. Di morte, ma la morte da sola non vale, la morte in quanto è precisamente il frutto dell'amore, come la morte di Cristo. Se la morte del Cristo non fosse stata volontaria, se Egli stesso non l'avesse scelta liberamente per amore di noi, per la nostra salvezza, Egli sarebbe morto come qualunque altro mortale. Aveva assunto una natura passibile, doveva morire. Ma no, nessuno poteva rapirgli la vita - Egli dice nel IV Vangelo - Lui liberamente la dà e la dà per amore nostro. Nulla riserba per Sé.
Che cosa noi vogliamo? Che cosa noi chiediamo a Dio? Non è forse vero che ancora noi siamo attaccati a noi stessi e a tante altre cose, quasi che ci mancasse la vita, se ci mancassero la stima degli uomini, l'affetto delle creature e la possibilità di un certo lavoro. Bisogna sapere amare sino in fondo, ecco l'insegnamento del Natale. Amare sino in fondo vuol dire sapere scomparire non chiedere nulla per noi, ma esser contenti piuttosto che Dio ci spogli e lasciarci spogliare da Lui per non vivere più che questo nostro venir meno a nei stessi perché Lui solo per noi rimanga, Dio solo. Proprio per questo sarà bella la morte, perché non ci rimarrà più nulla e Lui solo apparirà, e Lui solo, noi vedremo e nella sua visione saremo beati. Beati perché allora potremo dimenticarci totalmente di noi stessi, beati perché finalmente il nostro io potrà scomparire del tutto, questo io che esclude Dio perché se noi siamo, Dio non è, se Dio è, noi non siamo.
Certo sul piano metafisico la creatura rimane, ma non sul piano psicologico, non su quel piano per il quale l'uomo è ancora legato a se stesso e vive un ricordo di sé e vive la propria vita. Siamo pura condizione a un moltiplicarsi di Dio. Ecco che cos'è la creazione divina nel disegno di Dio: condizione a un suo moltiplicarsi perché Egli ci ha creati soltanto per potersi donare e per vivere in ciascuno di noi. Ma Egli non può donarsi, non può vivere in noi che in quanto è l'Unico ed è l'Assoluto. E la sua Presenza precisamente in ciascuno di noi suppone questa sparizione totale di ogni riferimento a noi stessi, di ogni coscienza di noi stessi, per non avere più altra coscienza che di Dio. L'Unico, l'Amato.
Ma prima di poter vivere questa suprema umiltà che è la perfezione dell'amore, noi dobbiamo già cercare in questa vita di vivere un'umiltà sempre più grande, perché noi non togliamo nulla a Dio, perché Dio sia davvero già ora, nella nostra vita, tutto per noi. Tutta la gioia, tutta la ricchezza, tutta la vita, tutta la santità, tutto. La manifestazione della bontà di Dio! È perfino inconcepibile anche dopo duemila anni di cristianesimo, questa rivelazione di Dio nell'umiltà di un bambino.
Vedete, sotto certi aspetti possiamo capire anche di più la morte di croce, perché nella morte di croce c'è, se non altro proprio l'espressione di una volontà. Nel bambino si è liberato anche di questo, è nulla. Egli si è ridotto proprio all'impotenza più grande, alla povertà più estrema ed è questo l'amore.
E noi viviamo stasera questa manifestazione dell'amore di Dio, ma come possiamo viverla se noi non sappiamo amare, se non amiamo il nostro scomparire, il nostro discendere, il nostro spogliarci di ogni pretesa, di ogni ambizione, di ogni volontà, di ogni stima di noi stessi, di ogni ricordo di noi stessi? Vorrei chiedere stasera, per me e per voi, che la sua Presenza divina come luce ci cancelli e rimanga per noi davvero soltanto questo amore immenso, infinito, inconcepibile di un Dio per noi. Noi dovremmo vivere sempre dinanzi a Dio, ma non al Dio dei filosofi, e nemmeno al Dio dei mistici, ma dinanzi al Dio dei cristiani, a quel Dio che si è fatto conoscere alla Vergine santa, che si è fatto conoscere ai pastori, quando lo hanno veduto. Il cielo tripudiava di gioia, ma quando l'hanno veduto, hanno veduto un bambino in una mangiatoia, deposto in una mangiatoia in una povera grotta. Tutto il cielo poteva tripudiare, ma tripudiava proprio per questa umiltà senza fondo di un Dio che si era spogliato di tutto per donare tutto agli uomini che Egli amava.
Rimanere dinanzi al Bambino Gesù ecco quello che io credo sarebbe opportuno per noi, per imparare come si vive, per imparare come si ama. Che il Signore ci doni una umiltà vera, che ci doni l'amore all'umiltà, che il Signore ci faccia comprendere che non c'è altro cammino per giungere a Lui che quello di spogliarci sempre di più di tutto perché Lui solo rimanga per noi. Dovremmo temere tutto quello che in qualche modo ci arricchisce: temere la stima, temere ogni onore, temere ogni ricchezza, temere ogni potere, temere anche l'affetto che gli altri ci portano. Usurpiamo tutto a Dio tutto quello che a noi è donato. A Lui solo deve essere donato quello che a noi viene offerto e che noi pretendiamo. Che cosa a noi è dovuto? Non siamo forse un nulla in noi e per noi stessi? Perché vogliamo una volta creati, pretendere qualche cosa? Si diceva già prima: Dio ci ha creati unicamente per essere la condizione di una sua Presenza, null'altro. Noi dobbiamo volere questo e null'altro.
Come si capisce il cammino di tante anime che le porta proprio alla solitudine estrema, al silenzio perpetuo, a voler essere dimenticate da tutti. Ma com'è difficile! Volere anche essere dimenticati da tutti e dimenticarci noi stessi. Ora il cammino vero dell'umiltà è meno di essere spogliati di quelle cose che ci vengono dal di fuori, che essere spogliati del ricordo di noi stessi, della coscienza che noi abbiamo di un nostro valore o di quello che siamo.
Che la luce di-Dio ci cancelli, ecco la nostra preghiera, stasera. Dinanzi al bambino Gesù possiamo noi pretendere di essere qualchecosa più di Lui? Non ci vergogniamo dunque di essere quello che siamo. La nostra gioia è soltanto sparire, morire totalmente a noi stessi, per far posto nella nostra anima a Dio. Sia davvero la nostra anima quella grotta che lo accoglie, meglio ancora della grotta, il seno della Vergine che lo portò per nove mesi, e che noi siamo questo e null'altro, un ostensorio del Cristo, null'altro; che gli uomini non vedano in noi null'altro, e non abbiamo più nome, ma Lui; essere davvero condizione perché Egli si faccia presente; ed Egli non si potrà mai far presente nel nostro potere dei miracoli, o nella nostra efficienza sul piano anche pastorale o apostolico, ma si farà presente nell'umiltà più vera, nella povertà più grande; in questa debolezza dell'uomo che pur nella sua debolezza crede e si affida, che nella debolezza si apre alla visione di Dio e sa amare come Egli ha amato.
"Quando piacque manifestarsi a noi la bontà e benignità del Signore". Quale religione ha mai potuto dare una rivelazione di Dio così? e quale religione ha potuto chiedere all'uomo un amore così vero che si esprima anche per l'uomo nella più fonda umiltà, nella semplicità più pura? No, i santi non sono degli eroi, sono dei poveri che si aprono a ricevere il dono dell'amore, sono dei poveri che non sanno altro che amare e vivono questo donarsi senza ricordo di sé, senza voler nulla per sé.
Miei cari fratelli, non è soltanto il Signore, è anche la Vergine santa che ci insegna. È Lei che, prima di ogni altra creatura, ha avuto la manifestazione della divinità di Dio e l'ha compresa così da, vivere nell'umiltà più vera e profonda per tutta la sua vita. Ella scompare; appare soltanto ai piedi della croce. Non partecipa alla gloria del Cristo quando Egli fa i miracoli; non è chiamata dal Cristo alla visione della sua trasfigurazione sul Tabor; non è invitata dal Cristo a seguirlo nel suo apostolato. Ella rimane dimenticata da tutti, sembra perfino dimenticata dal suo Figlio divino; Egli non la ricorda, sembra respingerla, vuole che viva nel silenzio, vuole che affondi come nel nulla; ed Ella rimane pura, semplice, Ella sa amare, nulla chiede per sé. Si ritrova soltanto ai piedi della croce. Questo è il suo posto. Se noi dobbiamo volere qualcosa è soltanto di partecipare agli obbrobri del Cristo, alla Sua Passione, alla sua morte; l'unica cosa che possiamo chiedere, se partecipare alla sua morte vuol dire - come per Maria - saper amare fino in fondo, come fino in fondo ha amato Gesù.
Proprio nel mistero dell'Incarnazione che noi stasera vogliamo contemplare, noi vediamo non solo la rivelazione suprema dell'amore di Dio nel bambino, ma possiamo anche contemplare la risposta dell'uomo all'amore di Dio nella semplicità, nella povertà, nell'umiltà di Marria. Non e forse Lei, più di ogni altro santo la causa esemplare di ogni santità? E come ci insegna! Chi di Lei potrebbe dire qualcosa? Nemmeno oggi, dopo duemila anni, si può dire qualche cosa della Vergine. Si sa della sua Annunciazione, la vediamo ai piedi della croce; poi la sua vita è il silenzio, il nulla. Nell'Annunciazione di Gesù Ella è sola, e nella nascita di Gesù Ella è sola: sola a contemplare la manifestazione della bontà di Dio, ed è sola ai piedi della croce. Tutti hanno abbandonato il suo Figlio. L'anima più santa la si riconosce qui, non nel partecipare - dicevo prima - alla grandezza, ai miracoli, all'amore che la folla portava a Gesù, ma nella partecipazione alla sua passione dolorosa, ma il vivere il silenzio stesso del Bambino, sola nella grotta, insieme con Lui.
Sia questa la nostra vita. Impariamo da Maria come si ama, in risposta all'amore di un Dio che di tutto si è voluto spogliare per noi, che ha manifestato Sé soltanto nella perfezione di un amore senza limiti.

Quarta Meditazione: At 13, 16-17; 22-25
Vivere il Natale non vuol dire che Gesù rinasce, ma che Egli assume la nostra natura per vivere in noi

Dobbiamo ora raccoglierci per iniziare l'ultima parte della Veglia di questa solennità natalizia.
Il raccoglimento che dobbiamo vivere per entrare nel Mistero sarà aiutato in noi da alcune brevi riflessioni sul Mistero stesso che celebriamo. Non abbiamo celebrato la Messa vespertina, ma abbiamo letto la seconda lettura e l'abbiamo ascoltata ora. Alla fine del Mattutino poi, ascolteremo il Vangelo di questa Messa, che è il Vangelo della vigilia. E leggendo la lettura degli Atti noi possiamo ritrovare il motivo fondamentale della liturgia anche nella Messa di stamani: Gesù che nasce dalla famiglia di David. Dio trasse dalla famiglia, di David, dice, un Salvatore, trasse. Dice il salmo 85 che la giustizia scende dal cielo e la salvezza sboccia dalla terra. Gesù è il frutto insieme della generazione del Padre e anche è il frutto della Madre, della terra. Ora è molto importante capire che sì, Gesù è Figlio di Dio, ma è importante ancora che noi insistiamo e vediamo come Egli è Figlio anche di Maria, è il Figlio dell'uomo, perché comprendiamo che veramente tutta la vita spirituale consiste nel dare al Verbo di Dio la nostra stessa natura perché Egli viva attraverso di noi. Vivere il Natale non vuol dire che Gesù rinasce, ma vuol dire che Egli assume la nostra natura per vivere in noi. Una volta Egli è nato in una natura umana che aveva tratto dal seno della Vergine, oggi si può far presente nel mondo solo se noi prestiamo a Lui la nostra umanità, se noi doniamo a Lui la nostra umanità perché Egli viva in noi.
Vivere la vita cristiana vuol dire non vivere la nostra vita, ma lasciarci possedere dal Verbo perché il Cristo viva in noi. Certo che come persone noi siamo e rimaniamo distinti dal Verbo di Dio; ma per vivere in unione col Verbo la sua medesima vita.
Si è detto altre volte che il mistero cristiano è analogo al mistero della Trinità. Per questa analogia rimane vera la distinzione delle persone, della persona creata di ciascuno di noi dalla Persona eterna del Verbo di Dio, rimane vera questa distinzione ed eterna, ma rimane vera nella distinzione delle persone anche l'unità di un corpo. Il cristianesimo non è altro, diceva Bossouet, che il Cristo dilatato nello spazio e prolungato nel tempo. Tutto il cristianesimo non è altro che un mistero di incarnazione che si prolunga. La Chiesa non sarebbe nulla, il cristianesimo non sussisterebbe, perché sarebbe soltanto una dottrina teologica, ma una dottrina non sarebbe un mistero. Se il cristianesimo è un mistero è perché continua il mistero d'una incarnazione. Non come se il Cristo avesse bisogno ancora di farsi uomo, ma nel senso che, attraverso il tempo e attraverso tutta la terra, Egli trae a Sé - trasse dalla famiglia di David un Salvatore - trae a Sé la nostra umanità per vivere in essa. E oggi Gesù non vive nel mondo, non può vivere nel mondo se noi non prestiamo a Lui la nostra umanità, perché Egli vive nel cielo - Egli ascese ai cieli - vive alla destra di Dio, non vive nella storia, non è visibile agli uomini, deve vivere in me.
Che cos'è questo Natale che noi celebriamo? Il Signore ci chiede quello che ha chiesto a Maria, e noi stasera dobbiamo ripetere a Dio quello che ha detto la Vergine quando si è abbandonata alla forza dello Spirito perché in Lei fosse concepito il Figlio di Dio, perché da Lei nascesse Gesù. Dobbiamo dare a Dio la nostra umanità perché Egli viva attraverso di noi e non sia più che Lui a vivere in noi. Voi lo sapete che il difetto, anzi più che il difetto, l'opposizione alla vita, cristiana in noi è la "voluntas propria", è la proprietà, il senso di voler vivere una nostra vita invece che la sua vita; è il fatto di voler avere una nostra volontà, invece che la sua, è il fatto di voler avere una nostra vita, i nostri pensieri, le nostre ambizioni, i nostri desideri, i nostri programmi, invece che viva in noi unicamente il Signore.
Che cosa dunque ci chiede stasera questo nostro entrare nella celebrazione del santo Natale? Ci chiede di abbandonarci a Lui totalmente, di strapparci alle radici del nostro egoismo per appartenere unicamente al Signore, perché il Signore viva in noi. E noi dobbiamo credere che in forza del nostro abbandono non saremo più noi a vivere, ma sarà Gesù che vive in noi, secondo le parole di Paolo: "Vivo io, ma non son più io che vivo, è il Cristo che vive in me". Notate la sapienza di queste parole: se il Cristo vive in me, la persona rimane distinta, io non sono Gesù, però è Lui che vive, cioè è l'unico Cristo che vive pur nella distinzione delle persone, l'unico Cristo. Ma non può vivere l'unico Cristo in me se io non mi lascio possedere da Lui. È la sua presenza in noi che implica il Natale. La festa di Natale vuol essere un farsi presente Gesù nella nostra umanità. Si fece presente allora nel tempo, si fece presente allora a Betlem nella grotta, si deve far presente oggi per me, in questo luogo, a Settignano, nel luogo dove voi siete e nella vita che voi vivete oggi, non domani; oggi, non ieri, perché oggi voi dovete prestare a Lui questa vostra umanità, perché Egli viva.
Che cosa ci insegna dunque la lettura che abbiamo ascoltato? Che Dio ha voluto avere bisogno di noi. Vi ricordate la grande, la bellissima lettura del giorno 21 dicembre? Si chiama il giorno aureo per eccellenza dell'Avvento, non so se lo sapete, è il giorno in cui viene letto il Vangelo dell'Annunciazione e il giorno in cui nella lettura che è di san Bernardo, si rivolge alla Madonna e le dice: "tutto il mondo attende, che aspetti tu a dire il tuo "fiat"?" È una delle letture più belle di tutto l'anno liturgico. Bene, quello che allora avvenne, ora avviene, perché Dio allora ha voluto aver bisogno di Maria, oggi vuol avere bisogno di me, vuol aver bisogno di noi tutti, perché senza di noi Egli non si fa presente agli uomini quaggiù. Senza di noi Egli non opera per gli uomini quaggiù. È Lui che opera, intendiamoci. bene, è Lui che battezza, non sono io che battezzo; è Lui, che assolve, non sono io che assolvo, è Lui che vive anche in voi, non siete voi che dovete vivere. Ecco, donare a Lui la vostra umanità come l'ha donata Maria; il "fiat" di Maria, l'atto di abbandono di Maria deve continuare nell'atto di abbandono di ogni persona creata alla potenza dello Spirito del Cristo, perché il Cristo vive in ciascuno.
È questa la spiritualità cristiana. Di questa vita cristiana la causa esemplare è Maria, è Maria soprattutto in questo atto di abbandono alla potenza dello Spirito, perché si incarni in lei il Figlio di Dio.
Ora è questo atto di abbandono che il Signore ci chiede. Voi avete fatto questo atto di abbandono, di donazione di voi stessi a Lui col santo Battesimo, ma avete dovuto rinnovarlo quest'atto, farlo vostro quest'atto, quando siete giunti all'uso di ragione. Ma si può dire di aver mai compreso sino in fondo l'esigenza di Dio. Non è forse vero che ci siamo donati; ma soltanto con grandi riserve, con grandi condizioni e mai pienamente ci siamo abbandonati a Lui così da perdere una nostra vita, così da non voler vivere più una nostra vita, non è forse vero?
Non è forse vero che è difficile per noi dimenticare totalmente noi stessi e lasciarci possedere da un Altro che è Dio? Non è forse vero che noi tutti vogliamo programmare la nostra vita, che vogliamo tutti sapere dove andiamo e essere noi piuttosto a voler insegnare a Gesù, insegnare a Dio per quale via dobbiamo tendere alla nostra salvezza? Non è forse vero che in noi troviamo sempre delle resistenze a questa divina volontà? Vorremmo che il Signore ci chiamasse per una via di gusti interiori piuttosto che di aridità, in un luogo piuttosto che in un altro, una certa forma di vita piuttosto che un'altra? Non è forse vero che noi vorremmo imporre a Dio un nostro modo di pensare e di vedere, piuttosto che abbandonarci totalmente a Lui, eliminando da noi ogni nostra volontà propria? Ora è precisamente questo che la Vergine ci insegna. Il nostro abbandono a Dio non è stato mai pieno, non è stato mai perfetto. Perché l'abbandono di Maria fu pieno e perfetto, nacque da Lei Gesù. Ella lo concepì nel suo seno, lo partorì per la salvezza del mondo.
Se dunque Gesù deve vivere oggi nel mondo e operare, o almeno applicare la salvezza che Egli ha ottenuto con la sua morte di croce, Egli ci chiede questo abbandono, che fu l'abbandono della Vergine, alla potenza dello Spirito. Il "Fiati mihi", quella parola che era attesa da tutto l'universo, dagli angeli e dagli uomini, che eran precipitati nel peccato, dalla creazione intera, quel "Fiat" da cui è dipesa la salvezza del mondo, è il "fiat" che noi dobbiamo ripetere stasera: fa' di me ciò che vuoi. E anche la parola che Gesù medesimo ha detto, noi la dobbiamo dire nei riguardi dello Spirito del Cristo, perché Cristo stesso viva in noi le parole che Egli, secondo la lettera agli Ebrei, ha detto e pronunciato quando si è fatto uomo! Tu non hai voluto sacrifici ed olocausti, mi hai dato un corpo, ecco, o Dio, io vengo a compiere la tua volontà. Ecco, sono qui. Anche Maria: "Ecce", ecco la serva del Signore. È la prontezza dell'anima che finalmente si scioglie da tutto, è la prontezza dell'anima che finalmente si strappa a tutti i suoi legami, per abbandonarsi alla potenza dì Dio che deve trasformare l'anima nostra e far sì che noi viviamo la sua medesima vita.
Miei cari fratelli, consapevoli di aver sciupato tanto tempo perché avevamo cercato di contrattare con Dio, scegliendo noi il cammino che doveva condurci a Lui, consapevoli di aver sciupato tanto tempo perché non abbiamo mai creduto fino in fondo al suo amore e alla sapienza di Dio, che intesse il nostro cammino, che guida il nostro cammino, noi stasera vogliamo abbandonarci interamente a Dio. Che cosa il Signore ci donerà, che cosa il Signore vorrà da noi? Non lo sappiamo, non vogliamo saperlo, perché già saperlo ci mette nella condizione di riprendere noi il timone della nave, perché crediamo, se dobbiamo andare in un certo posto, di dovere portare subito la nave in quella direzione. Voi lo sapete che Dio è solito scrivere diritto con linee storte. Ti vuol chiamare al sacerdozio e intanto ti fa perdere un mucchio di tempo facendoti fare l'avvocato o il perito industriale; ti vuol chiamare a una vita di solitudine e intanto invece, sembra che Egli ti immetta, ti inserisca in un cammino, in un lavoro apostolico dal quale non riesci a liberarti. Ma è proprio nell'abbandono a Dio con semplicità, senza volere giudicare l'azione divina, che Dio compirà il suo disegno. Perché se tu non ti abbandoni con fede pura all'azione di Dio, la tua intelligenza prende il posto della Sapienza stessa divina. E tu credi quasi di raggiungere più facilmente una méta che non sai nemmeno se e quella cui Dio ti vuol portare e che comunque, anche se fosse quella alla quale Dio ti vuol portare, tu non raggiungerai mai coi tuoi mezzi, anche se ti sembrava di seguire la via più breve e più diritta.
Abbandono a Dio; abbandono nell'umiltà e nella fede, abbandono nella fede e nell'umiltà. È tutta qui la vita cristiana, miei cari fratelli il fiore più alto della vita cristiana, secondo tutti i grandi dottori della spiritualità cattolica, ha una sola parola e questa parola si esprime così: abbandono a Dio nella fede e nell'umiltà, abbandono a Dio nell'umiltà e nella fede. Parola di umiltà, perché dice la nostra esperienza psicologica, che si esige una liberazione da noi stessi; parlo di fede, perché questa liberazione può avvenire soltanto nella misura che veramente ci doniamo a un altro che prende le redini della nostra vita, che prende il timone della nostra nave e Lui stesso ci conduce.
Ecco, miei cari fratelli quello che vuole da noi questa festa del santo Natale. Noi non celebriamo ora la nascita, di un bimbo, celebriamo la nostra nascita in Cristo. Celebriamo la nascita del Cristo in noi, celebriamo il rinnovamento profondo del nostro essere che finalmente preso da Cristo, posseduto da Cristo, diviene come una umanità nuova nella quale il Cristo vive ora il suo mistero.
Non è dunque la nascita di un bimbo, avvenuta duemila anni fa, è quello stesso mistero fatto presente in me, vissuto da me. La celebrazione del Natale non è la celebrazione di un evento lontano, è la celebrazione di un evento che è l'evento della mia vita, il mio inserimento nel mistero. Non c'è divisione fra me e Cristo; la distinzione delle persone è in ordine all'unità, come diceva Maritain: distinguere per unire. La distinzione delle persone è in ordine all'unità della vita, all'unità del mistero, Cristo Gesù.
Miei cari fratelli, che cosa meravigliosa sarebbe se da oggi in avanti noi sapessimo rinunziare alla nostra volontà, ai nostri, progetti, alle nostre ambizioni, al nostro attaccamento alle cose, al nostro attaccamento alle persone, al nostro attaccamento a noi stessi, alla nostra medesima vita e ci lasciassimo possedere da Dio. Che cosa grande sarebbe se veramente da oggi in avanti non vivesse più in noi che Lui solo.
Ma è questo che dobbiamo volere, cioè volere la nostra morte, come si diceva nella prima meditazione che abbiamo fatto stasera. Volere la nostra morte perché si possa vivere una partecipazione alla risurrezione; la quale risurrezione non è il ritornare alla vita di prima, ma far sì che la nostra umanità, investita dalla potenza dello Spirito, non viva più ora che la vita di Cristo Signore.
E tutto questo è vero; è vero per chi vive la vita contemplativa, è vero per chi vive la vita dei voti, è vero per chi vive nel terzo grado, è vero per chi vive nel quarto grado: Non c'è differenza soggettivamente, perché soggettivamente ciascuno deve vivere ugualmente questo abbandono al Signore, non si appartiene più. Proprio perché non si appartiene Dio può chiamare uno nel matrimonio e invece chiamare l'altro a una vita di castità perfetta, o a una vita di preghiera perpetua. Non ti appartieni, lascia che Dio viva in te e non prescrivere tu il cammino; lascia che Egli abbia ogni diritto su di te e non ti sottrarre alla sua potenza di amore. Abbandonarsi al Signore come la Vergine. Io vi chiedo precisamente solo questo, soltanto questo, "Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum". Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola. E anche le altre parole sono le parole di Gesù: "Ecce, veni ut faciam voluntatem tuam". Ecco, vengo; questo è il nostro Natale. E tanto più sarà vero e tanto più lo celebreremo con verità, quanto più questo abbandono sarà pieno, perfetto. quanto più questo abbandono sarà puro, totale, senza ritorni su di noi sapendo che all'atto dell'abbandono di noi stessi al suo amore, segue soltanto il possesso di Dio; e Lui solo avrà diritto su di noi, sulla nostra vita e sulla nostra morte, sul nostro lavoro e sui nostri sentimenti, su tutto quello che noi dovremmo fare e su tutto quello che dovremmo patire, Lui solo ha questo diritto. Non abbiamo più nulla da chiedergli tranne che in noi venga meno ogni ricerca di noi stessi, venga meno ogni nostra volontà, ogni nostro desiderio, e rimanga vivo Lui solo. Sapendo che se rimane vivo Lui solo non abbiamo nulla da perdere, ma vivendo Egli in noi, vivrà in noi l'amore infinito, vivrà in noi l'amore perfetto, vivrà in noi l'amore eterno.

Omelia 1a Messa - 24 dicembre 1983: Lc 2, 1-14
"Oggi vi è nato un Salvatore"

Miei cari fratelli, l'annuncio dell'angelo è stato ripetuto per noi in questa notte e l'annuncio è incredibile, è impossibile credere quello che gli angeli anche stasera ci hanno ripetuto: un Dio è nato per noi.
Chi siamo noi perché Dio ci conosca e ci ami? Chi siamo noi perché un Dio si debba fare uomo, bambino, nella povertà della sua nascita, per me? È possibile credere, è possibile davvero pensare che la nostra umile vita debba essere non solo conosciuta da Dio, ma il termine di questo amore infinito? Dagli abissi del cielo Egli è disceso fino a me e mi ha donato Se stesso.
Troppo grande è quello che la Chiesa ci insegna, perché noi riusciamo anche soltanto a pensarlo. È giusto che il mondo di oggi veda nel cristianesimo un mito. Si esige davvero qualche cosa di eroico nella fede, per credere all'annuncio che ci è stato fatto stanotte. Sono amato da un Dio, un Dio mi ama, un Dio che vuol vivere per me, un Dio che si fa bambino perché io lo porti sopra le braccia, un Dio che aspetta da me di esser nutrito, difeso, protetto. Già incomprensibile il fatto che abbia voluto che io nascessi, che Egli abbia voluto che io fossi; quale ragione vi era perché dal nulla io comparissi all'esistenza e mi fosse donata una vita che non conosce più fine? Già incomprensibile il fatto che Dio fin dall'eternità abbia voluto pensarmi, ma è veramente impossibile anche a pensare che questo Dio non mi abbia voluto creare che per darmi Se stesso infinito.
Che cosa dunque ha attirato a me il suo amore immenso? Quale ragione al suo amore? Io che mi sento così indegno di avere anche altri che mi pensi e mi ami, debbo credere che Dio stesso, l'Infinito, l'Eterno, voglia vivere per me, voglia morire per me, voglia farsi mio cibo, voglia divenire il compagno di tutta la mia esistenza, voglia essere Lui la mia ricchezza e la mia gioia, la mia vita.
Miei cari fratelli, è difficile crederei e penso che nessuno veramente creda, perché, se credessimo, la nostra vita quaggiù sarebbe già paradiso. Che cosa importano tutte le malattie, tutte le disgrazie, tutte le rovine? Che cosa importano se ci sentiamo amati da un Dio? Come potrebbero mai tutte le sofferenze, tutte le umiliazioni, togliere qualche cosa alla nostra gioia, alla pienezza di questa gioia che ci dovrebbe riempire e colmare? Ma noi non possiamo avere questa, gioia perché non sappiamo credere di esser; amati così.
Il Natale non è una festa soltanto di tenerezza perché è nato un bambino, ma perché nel bambino che è nato è Dio stesso che ci ha rivelato il suo amore, e il suo amore è immenso, e il suo amore è infinito. Tanto ci ama che non è Lui che sembra volerci donare ogni cosa, è Lui, piuttosto che aspetta da noi la sua vita. Sì, perché proprio questo è l'amore; chi ama non è consapevole di donare, ma trova in quello che riceve la sua gioia. Così Dio non ha la sua gioia e la sua vita che in questo: nell'esser portato sulle braccia dalla sua Vergine Madre, nell'essere stretto al suo seno, nel sentirsi protetto e difeso dalle braccia materne, da noi, che pure siamo sue creature. Questo è l'amore che Egli non ci dona, ma accetta e vuole in quello che noi gli doniamo, vuole trovar la sua vita, vuol avere la sua gioia e la sua ricchezza.
Possibile che Egli aspetti qualche cosa da me? Eppure facendosi bambino, Egli deve aspettar tutto da me. L'amore veramente ha trasformato veramente i ruoli, Dio che è l'Immenso, ecco, si fa più piccolo di me, per essere, dicevo, da me difeso e protetto. Lui che è l'infinito, si fa debole perché io debba essere la sua forza; si fa impotente perché io debba essere la sua difesa e la sua protezione.
No, non e possibile credere, troppo grande, ci ha amato troppo, perché noi potessimo veramente accettare di essere amati così, finché ci amava per darci il suo paradiso, l'avremmo accettato, ma è troppo quello che Egli ci dà e non so che farmene nemmeno del paradiso, dal momento che mi ha dato Se stesso e che ha voluto, oltre che a darmi Se stesso, ricevere qualche cosa da me, come se io fossi la sua vita e la sua gioia.
"Oggi vi è nato un Salvatore", diceva il testo liturgico, ma Dio non dice questo quando nasce. Quando nasce Egli piange, vagisce perché vuole il latte della Madre, perché vuole che la Madre lo stringa al suo petto perché non senta più il freddo della notte. È Lui che chiede qualcosa, Lui che ci dà tutto. Eppure, finirà la Messa e noi andremo a dormire. Finirà la Messa e noi continueremo a vivere come se nulla fosse avvenuto: possiamo dire di credere? Possiamo dire davvero che il messaggio cristiano veramente è stato accolto da noi? Com'è possibile che possa dire di credere, quando io posso ancora mangiare e bere e vivere come sempre e non morire di amore dinanzi a tanto amore che Egli ha avuto per me? No, non so che farmene di una vita buona, di una vita santa, l'unica cosa che voglio è morire davvero di amore come Egli è morto, morto per me così. Che me ne faccio della santità e del paradiso? Ho ricevuto ben di più della santità e del paradiso se Egli si è dato a me, se veramente Egli ha voluto essere tutto per me?
Miei cari fratelli, una cosa chiedo per me e la chiedo anche per voi, che riusciamo a credere un poco di essere amati così, ma crederlo veramente. Allora la nostra vita non potrà non cambiare, allora la nostra vita non potrà non essere nuova, una festa, una gioia immensa, pur nella debolezza di questi giorni di vita, pur nella povertà della nostra esistenza terrena. Pensa forse, un innamorato, uno che sposa, alle difficoltà della vita, al lavoro che lo attende, alla pazienza che dovrà avere coi datori di lavoro, alla salute che può mancare? A nulla può pensare, l'amore è sufficiente a se stesso, l'amore può coprire ogni cosa, farci dimenticare di tutto, l'anima che ama già vive fuori di sé. E noi, noi che siamo amati da un Dio e che dobbiamo amarlo, perché Egli ci chiede questo amore - e non so che se ne faccia - noi che dobbiamo amarlo, noi non riusciremo ancora a vivere senza essere ebbri, senza uscire fuori di noi stessi, senza far della nostra vita un solo volo di amore, un solo canto di amore? No, credo che veramente non crediamo, credo che sia tutta una menzogna quello che noi diciamo di credere.
Ma stasera noi vogliamo accogliere l'annuncio dell'angelo; Egli è nato per me "Vi è nato" - dicevano gli angeli ai pastori e ce l'ha ripetuto la Chiesa - è nato per me, è nato per voi. Non è un fatto lontano, non è un avvenimento che non ci riguarda, è l'unica cosa che ci riguarda, perché nessuno vive per noi, nessuno è per noi come lo è il figlio di Dio, nella sua umiltà, nella sua morte di croce; Egli non ha per termine che me, non vede che me, non vuole che me, a me totalmente si dona. Questo è l'annuncio. E io chiedo, per me e per voi, che sappiamo accettare l'annuncio, accogliere questo dono di amore, credere a questo amore infinito, abbandonarci a questo amore infinito, lasciarci possedere da questo amore infinito, lasciarci colmare da questa pienezza di amore per trasformarci anche noi davvero, in una risposta sia pure di amore povero, ma trasformati in amore anche noi, per vivere nella gioia di essere amati e di amare Colui che tanto ci ha amato.
In questa notte del mondo, finché non sorga la luce del giorno ultimo e noi lo possiamo vedere faccia a faccia, che prosegua il nostro cammino verso di Lui nell'umiltà e nella pace, nella fede e nell'amore e sia domani una festa, la festa che non termina più nel possesso eterno di quel Dio che così tanto ci ha amato e ha voluto essere per noi la gioia eterna del cielo.

Omelia 2a Messa: Lc 2, 15-20
L'annuncio traboccante di gioia dei pastori: l'interiorità e il silenzio di Maria

Due sono gli atteggiamenti che il Vangelo riferisce, a proposito dell'incontro degli uomini col mistero di Dio. I pastori ascoltano, vedono e poi riferiscono a tutti. Ritornano, dopo aver veduto il Signore lodando e glorificando Dio. È uno degli atteggiamenti propri dell'uomo davanti al mistero divino. L'altro è l'atteggiamento di Maria. "Ella serbava tutte queste cose - dice il Vangelo - meditandole nel suo cuore". Sono due atteggiamenti non solo legittimi, ma sotto certi aspetti anche necessari, e non voglio nemmeno dire quale sia il migliore, voglio sapere soltanto da me che cosa vivo, perché l'avvenimento è sempre presente. L'evento del Cristo per un cristiano, per uno che ha fede, è il contenuto stesso della sua vita. Vivere al di fuori di un rapporto con tale evento, vuol dire non essere più cristiano.
Che cosa vivo? Rendo veramente testimonianza di quello che ho veduto? "Riferirono tutto quello che avevano udito e visto", i pastori. Io parlo: la mia parola è veramente testimonianza di quello che ho veduto, di quello che io stesso ho udito? D'altra parte, il ritornare in mezzo agli uomini, come fanno i pastori, non può avere altra ragione, altro contenuto che quello di rendere testimonianza del Cristo.
Se vivo ed ho rapporto con gli uomini - sacerdoti, suore, giovani, anziani - se debbo vivere un rapporto con gli uomini di questo tempo, tale rapporto non deve, non può avere altro contenuto che quello di rendere testimonianza, e non si rende testimonianza se non di quello che abbiamo veduto.
Possiamo dire noi di essere testimoni veraci? Che cosa abbiamo visto: Settignano, il cupolone o Gesù? Che cosa abbiamo visto? quello che c'è in dispensa o Gesù? Che cosa abbiamo visto? Il ciclostile o Gesù? Qual è il contenuto della nostra vita? Si sogna soltanto l'evento cristiano o veramente si ha un impatto con questo evento? o veramente questo evento costituisce il contenuto della nostra vita interiore, della nostra vita umana? Che cosa vivo? Vivo il mio contatto col Cristo, un contatto reale? Veramente il Cristo è reale per me? Questo è fondamentale perché se Egli non è reale, se non lo vedo, se non ho veramente un'esperienza di questa Presenza, che cosa posso dire al mondo, che cosa posso portare agli uomini? Ed ecco perciò quello che il Signore mi chiede: una fede così viva che la realtà d'una Presenza si imponga al mio spirito più di quanto non si imponga la realtà di questo mondo. Se per me è più reale il mondo nel quale vivo dell'evento salvifico, io ancora devo essere evangelizzato; non posso essere il testimone, devo piuttosto ricevere la testimonianza di chi ha veduto.
"I Pastori riferirono tutto quello che avevano udito e veduto". Ecco che cosa diviene la vita dei pastori, una volta che hanno veduto Gesù. Non possono far altro, e riferire tutto quello che hanno udito e veduto, vuol dire lodare e glorificare Iddio. Certamente avranno continuato anche a pascolare il gregge, ma in fondo, tutto quello che avevano vissuto finora, ora aveva un altro contenuto per loro. Dovevano pascolare, ma in fondo essi sentivano che qualche cosa di nuovo era entrato nella loro vita; erano stati testimoni di un evento che li superava, che non soltanto non potevano dimenticare, ma era il contenuto unico della loro esperienza, perché questo solo ricordavano e di questo solo essi parlavano. Ed ecco noi viviamo qui, in questa casa e in questa casa è presente il Signore. In che misura la presenza del Signore è veramente la realtà più grande della nostra vita? In che misura la presenza reale del Cristo in tal modo ci prende da non lasciare a noi la possibilità di distrarci, di pensare ad altro, di vivere altra cosa? È uno degli atteggiamenti propri di chi ha veduto. L'altro atteggiamento è quello di non entrare più in rapporto con gli uomini, ma di affondare nell'intimo. Tutta la vita diviene puro silenzio, un affondare nel cuore.
"Serbava questi avvenimenti meditandoli in cuor suo". È la Vergine. La vita allora non è più il rapporto con gli uomini, non è più quello che si fa, non e più dove si vive, è un affondare sempre più in questa Presenza del Cristo. L'incontro col Cristo non diviene per noi l'occasione di un ministero, di una testimonianza che dobbiamo rendere, diviene piuttosto l'inizio di una vita che sempre più ci seppellisce nel silenzio di Dio, che sempre più ci fa affondare in questo silenzio. Quale vita è più importante? Non si può nemmeno porre questa domanda, perché i pastori dovevano lodare e glorificare Dio, dovevano riferire quello che avevano visto e udito; gli angeli li avevano chiamati alla grotta proprio perché essi dovessero essere i primi testimoni del Cristo, e non potevano rifiutarsi di rendere questa testimonianza, mentre questo non era chiesto a Maria. Maria doveva invece sempre più affondare nel silenzio. Tutta la vita di Maria è all'inizio del Vangelo, poi Sparisce. Come si diceva ieri, Ella non è associata alla vita pubblica di Gesù, non partecipa al potere dei suoi miracoli, non partecipa alla sequela del Cristo, come discepola che ascolta. Rimane nella sua casa per meditare nel cuore un avvenimento solo, l'avvenimento di questa nascita; l'annunciazione dell'angelo, ma soprattutto la nascita del Figlio di Dio da Lei, furono l'unica sua vita. Poteva vivere arche molto di più di quello che ha vissuto, Ella non poteva uscire da questa meditazione, da questo affondare nel cuore meditando questo avvenimento che l'aveva coinvolta, perché Lei non vede soltanto, non ascolta soltanto. Nel vedere e nell'ascoltare sì rimane passivi; l'Evento si fa manifesto a noi, ma noi non lo compiamo, invece Maria e Gesù, lo vivono in modo quasi uguale. Lui in quanto nasce. Lei in quanto né è la Madre. L'evento del Cristo è il suo medesimo atto, ed Ella, non ne esce più, questo atto diviene sempre più interiore ed Ella vi rimane meditandolo. È certo che in questa meditazione Ella sempre più sfugge al tempo che passa, si sottrae alla differenza dei luoghi. Prima che Egli nascesse era andata in montagna a trovare la sua parente lontana Elisabetta, che doveva partorire, poi il Vangelo non ci dice più nulla. Dove è stata? che cosa ha fatto? Non ha fatto nulla, non è stata in nessun luogo, perché se anche è potuta andare negli altri luoghi, queste cose non la riguardavano; quello che ha vissuto non la riguardava, Ella ha vissuto soltanto l'Evento, e giustamente. L'Evento era talmente grande che poteva benissimo sempre più meditarlo e non trovarne fine.
E se io debbo parlare agli altri rendendo testimonianza di quello che ho veduto e udito, e debbo anche nella misura che veramente questo evento si è fatto presente per me, debbo vivere questo evento, devo sempre più rendermi conto che la molteplicità dei luoghi e delle azioni non costituiscono la mia vita. La mia vita diviene sempre più la Presenza, la presenza del Cristo. Essere qui o altrove, fare una cosa o l'altra dev'essere così relativo per me che non deve nemmeno toccarmi questa molteplicità delle azioni, questa molteplicità, dei luoghi, questo passare del tempo. La sua Presenza è talmente grande che veramente relativizza ogni cosa; Egli rimane per me l'unica vita.
Ecco, sono questi i due aspetti d'una vita cristiana e non vi è altra vita cristiana che in questi due elementi. Uno dice il nostro rapporto con gli altri, come contenuto di questo rapporto abbiamo il rendere testimonianza di quello che abbiamo visto e udito. Ma vi è una vita più fonda ed è la nostra vita intima, è il nostro vivere non in quanto siamo in rapporto con gli altri, ma in quanto noi siamo rapporto con Dio. Se l'abbiamo incontrato, in questo evento noi dobbiamo sempre più inserirci e vivere questo: la presenza del Cristo; solo la presenza del Cristo, la presenza del Cristo che è nato per me.
Questo, miei cari fratelli, dev'essere tutta la vita, questo. Certo, Dio mi chiede anche di rendere testimonianza, ma tuttavia questo elemento, pur essendo necessario, non è il principale. L'evento principale della vita cristiana è espresso chiaramente in quello che dice il Vangelo di Maria Santissima: serbare nel cuore, meditando, affondare nell'Evento, vivere l'Evento, l'evento del Cristo: Viviamo questo? Che cosa è per noi veramente vivo? Le notizie che ci dà il giornale, la radio, che cos'è per noi veramente reale e vivo? Sono gli avvenimenti che intessono la nostra vita o la presenza di Lui, del Signore? Certo, è un po' diverso per noi il vivere nella fede e il vivere nella visione, è un po' diverso, e tuttavia non è così diverso che non vi sia una continuità: La presenza del Cristo già ora - dicevo prima - relativizza ogni luogo e ogni tempo. Quando saremo nella vita futura, liberi da questo legame col mondo, davvero la presenza di Dio sarà tutta la nostra eternità; non vivremo un altro atto, vivremo in Cristo la visione di. Dio. Ma ancora qui noi dovremo sempre più raccogliere, riassumere tutta la nostra vita interiore in questo vivere la Presenza. A questo ci chiama proprio la Comunità dei Figli di Dio, se veramente noi dobbiamo rendere testimonianza del primato delle virtù teologali. La fede ce lo fa vedere, la speranza ce lo fa in qualche modo possedere, e la carità in Lui ci trasforma sempre più, ci fa una sola cosa con Lui.
Vivere la fede, la speranza e la carità come la fede, la speranza e la carità l'ha vissuta Maria, la Vergine santa.
Che il. Signore ci aiuti a vivere questi due elementi della vita cristiana, così ben caratterizzati, nel Vangelo di questa Messa.

Omelia 3a Messa: Gio 1, 1-18
"Il Verbo che era presso Dio si è fatto carne"

Poco tempo fa mi telefonava una persona. Ho interrotto la telefonata perché al telefono non faccio conversazione, ma la mia risposta era anche una reazione, piuttosto secca, a un suo discorso, che vanificava per sé il cristianesimo ed era questo: non capiva che cos'era la nascita del Cristo se in fondo questa nascita lasciava il mondo nel dolore, nella pena. "Vengo dall'ospedale diceva - c'era una mamma che assisteva il bambino morente". E io dico che la morte è nel conto, morirà anche lei, morirò anch'io, morirà questo figliolo e morirà poi anche la mamma. Non si può distruggere il cristianesimo in questo modo. Se il cristianesimo dovesse oggi essere soltanto una panacea per i mali di quaggiù, non saprei di che farmene. Ma è tutto qui invece il cristianesimo - l'avete ascoltato - lo splendore della Sua gloria, "il Verbo che era presso Dio si è fatto carne", è l'incontro dell'uomo con Dio. Di fronte a questo incontro tutti i mali del mondo spariscono, non hanno più nessun senso e nessun peso.
È evidente che per dare una garanzia che questo è avvenuto, Dio potrà dare dei segni. Ci sono i miracoli anche nel Vangelo, ma anche i miracoli hanno lasciato il mondo come l'hanno trovato. E questi segni ci saranno, ma non sono quelli che determinano la grandezza del cristianesimo. O noi accettiamo che veramente Dio si è fatto uomo, che Dio veramente ci ama o altrimenti lasciamo il cristianesimo, perché il cristianesimo diventa una pura menzogna. I segni non sono ciò che distingue la natura del cristianesimo, ma il cristianesimo è questo: un Dio che ti ama, un Dio che si è fatto uomo per te. Se tu accetti questo tutto è accettato, è accettato il miracolo ed è accettata anche la lebbra. Bisogna capire che cos'è il cristianesimo e smettiamo di strumentalizzare Dio per i beni di quelli due giorni che vivremo ancora quaggiù. Bisogna renderci conto che il cristianesimo è tutto qui: l'Infinità, l'Eterno che si è fatto uomo per me; l'Infinito e l'Eterno che mi ama. Tutto qui è il cristianesimo. Ed è naturale che in questa vita presente l'amore stesso di Dio non può darmi prova di Sé, perché io non sono capace di accogliere l'immensità del suo amore. Direi che l'immensità del suo amore mi schiaccia, mi distrugge proprio perché che cosa sono io, povera creatura, per reggere all'immensità di questo amore, per reggere al peso di questa gloria, per poter anche avere un'esperienza dell'amore di Dio?
Certo, se veramente Egli si dona a me, non posso che morire. La morte è nel conto, precisamente nel conto, guai se non fosse nel conto. Non so che farmene di questa vita se questa vita non è per me l'attesa beata del mio incontro con Lui, quando nella mia natura, potrò sostenere questo peso, quando nella mia natura potrò vivere veramente l'esperienza di questo amore ineffabile.
Oggi è bella anche la lebbra, oggi è bella qualunque cosa, perché, in fondo, nessuna cosa quaggiù potrà essere per me la misura di questo mistero immenso. Di fatto noi crediamo che Dio si è fatto uomo e lo vediamo fatto uomo in una grotta, e lo vediamo bambino che non sa nemmeno parlare; lo vediamo in un bambino che non sa nemmeno difendere se stesso. Ma è questo l'amore di Dio. Se noi volessimo riconoscere Dio dalla grandezza che può manifestare nella vita presente, questo Dio sarebbe un giocattolo qualunque. Che cosa sarebbe se Egli trasportasse anche i monti? Oggi la scienza può fare questo e anche altro. Che Dio sarebbe? un Dio da baraccone, un Dio da fiera. Dio è Dio e se Egli è Dio, Egli vince infinitamente ogni mio pensiero, Egli vince infinitamente ogni mia attesa umana. Noi dobbiamo saper accettare Dio proprio nella nudità di una vita spoglia, proprio nell'umiltà di una vita che non ha alcun splendore; proprio perché non dobbiamo mai identificare Dio ai suoi doni. Il dono di Dio supera tutti i suoi doni, e per riceverlo bisogna che Egli ci spogli di tutto. Non chiediamo al cristianesimo nessun rimedio ai mali di quaggiù. Anche se qualche cosa il cristianesimo fa, è semplicemente per dare garanzia di quello che farà o meglio sarà con la manifestazione ultima del Cristo. Dio è l'Infinito, miei cari fratelli. Proprio per questo dobbiamo credere a Lui nello spogliamento di tutto; Egli ci ha lasciato quello che siamo, ci ha lasciato nella nostra povertà umana, ci ha lasciato ancora a risolvere tutti i nostri problemi, per i quali si tratta di mangiare, di vivere, di vestirsi. Ha lasciato a noi di far tutto questo e ci sembra davvero che il cristianesimo abbia veramente lasciato il mondo come l'ha trovato. È la fede soltanto che ci fa catapultare nel mondo di Dio. Dio, che è l'Amore, mi ama, Dio.
Ecco quello che devo credere. Per questo posso rinunziare, voglio rinunziare, chiedo a Dio di saper rinunziare ad ogni dono di orazione, che voglia pretendere di darmi una certa esperienza di Lui. Come più grande è l'aridità dei santi! Come più grande è lo spogliamento totale a cui Egli riduce le anime che Egli maggiormente ama. La semplicità, la povertà della vita di Maria, che è la Madre di Dio! La semplicità, la povertà, l'umiltà della vita di Giuseppe che è stato scelto per essere "l'ombra del Padre".
Miei cari fratelli, sappiamo vivere questo Natale, perché il Natale è questo: la contemplazione del Figlio di Dio, la visione del Figlio di Dio e l'umiltà di un bimbo che vagisce. Questo è il Natale.
Ci sono tanti bambini che nascono. Il Natale non e il fatto del bambino che nasce, e il fatto che in questo bambino Dio si fa a me presente, Dio è tutto per me. Questo è il Natale. Saper vedere nel l'umiltà di questo segno, che è il sacramento primario della Divinità: "Nessuno ha visto Dio, l'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre, Egli ce l'ha rivelato" - saper riconoscere in questo segno di umiltà, di povertà estrema, l'immensità dell'amore. Ecco che cos'è il Natale, ma in questa umiltà, ma in questa povertà. Quando faceva i miracoli - per questo nostro Signore non voleva farne - gli uomini erano portati a strumentalizzare Dio, facendolo servire ai loro bisogni umani. Invece Maria non ha chiesto alcun miracolo, è vissuta nell'ombra, nel silenzio, nell'umiltà. E nell'umiltà e nel silenzio ha contemplato il mistero che si era compiuto per Lei ed in Lei, la divina Maternità.
È questa la vita dei santi: riconoscere nell'umiltà di una semplice vita, la presenza immensa di Dio, la presenza ineffabile dell'Amore. È questa la vita dei santi, saper riconoscere nel fallimento umano, la Presenza ineffabile di un Dio che ci ama.
Com'è più bello il fallimento di ogni successo, com'è più bello, perché altrimenti troppo spesso potremmo identificare il successo con Dio; si vedrebbe l'amore di Dio solo in quello che Egli ci fa, per venire incontro ai nostri miserabili desideri, alle nostre miserabili ambizioni; giustamente, se Dio si dona, deve spogliarci di tutto, per colmarci di Sé, ed Egli è il nulla di tutto.
Oh, saper vivere come Maria l'incontro con Dio, il possesso di Dio nella povertà più totale, nell'umiltà più profonda, nel silenzio più puro. Ecco, miei cari fratelli, il cristianesimo. Il cristianesimo è Dio, non è la pace della nazione; il cristianesimo è Dio, non è la concordia dei cuori; il cristianesimo è Dio; non è nemmeno la nostra gloria, la nostra santità futura. Non so che cosa farmene, perché non so che cosa farmene di me, perché voglio Lui. Che Egli sia, ed Egli è e si fa presente a me precisamente nello spogliarne di ogni mio pensiero, di ogni mio sentimento; si fa presente Lui, Lui nel segno più povero.
Miei cari fratelli, è questo il Natale. Lo possiamo celebrare stasera come lo celebrò la Vergine Maria nella grotta di Betlem. Siamo qui poche persone, non c'è nessuno di fuori, e qui tuttavia non è nulla di meno grande di quello che si compì allora: Dio è qui presente per te, Dio è qui presente per noi. "Ecco ci è nato un pargolo, ci fu largito un Figlio"; proprio questo era l'Introito della Messa che noi celebriamo oggi. "Puer natus est nobis, et Filius datus est nobis", un Figlio ci è stato donato, un pargolo è nato per noi, per noi, ed è Dio. Vederlo, vivere con Lui, come viveva Maria, nella semplicità, della più umile vita.
Quando si scende in refettorio a mangiar le patate lesse, quando si scende in biblioteca per scartabellare i libri, sapere che Dio è presente ed è tutto per me. Che cosa cerco? che cosa posso volere di più grande? C'è qualche cosa di più grande che Dio mi può dare, più di Se stesso? Ed Egli si dona a me in questa umile vita. Non ho bisogno di successi, non ho bisogno nemmeno della salute, non ho bisogno di nulla; ho bisogno soltanto di una fede che mi apra gli occhi, per poterlo contemplare, "Quello che i nostri occhi hanno contemplato...". L'abbiamo noi contemplato, Gesù vivente in mezzo a noi, presente qui con noi, ecco la vita, miei cari fratelli. E questa vita è più grande del Paradiso, perché se il Paradiso non fosse questo, veramente ci potrei rinunziare e ci rinunzierei volentieri, subito e qui. Il Paradiso è Dio che si dona; Egli si dona a me ora, sotto questo segno, domani si donerà invece nella visione pura. Se il segno lo nasconde, anche realmente lo dà e non c'è differenza fra me che vivo qui nell'ombra della fede e i santi che vivono nella visione, perché Dio rimane lo stesso. Dio, ed è l'infinito Amore, Dio, ed è l'immensità dell'Amore.
Come si diceva ieri, questo è il Natale. Dio ha manifestato la benignità - dice il greco la filantropia - l'amore di Dio per gli uomini nel bambino che nasce. Che noi sappiamo contemplare questa immensità dell'Amore per vivere nella gioia sia pure in una vita che agli occhi del mondo può sembrar la più stupida e la più vuota. Ma questo vuoto è pieno di una divina Presenza. Io lo vedo, io lo accolgo, io lo porto sulle mie braccia, io lo posso stringere al cuore. Egli è mio.
"Ci è nato un pargolo, ci fu elargito un figlio".

© Divo Barsotti