Intervista con il professor Manfred Hauke, Presidente della Società Mariologica Tedesca
LUGANO, venerdì, 26 maggio 2006 (ZENIT.org).- Ma la Chiesa è proprio così misogina come sostiene Dan Brown nel romanzo “Il Codice da Vinci”?
A questa domanda risponde il professor don Manfred Hauke, Ordinario di Teologia Dogmatica presso la Facoltà di Teologia di Lugano e Presidente della Società Mariologica Tedesca.
Don Hauke ha offerto il proprio contributo ad un libro apparso quest’anno e che ha riscosso un successo inatteso “ La frode del Codice da Vinci. Giochi di prestigio ai danni del cristianesimo” (Elledici), a cura di don Arturo Cattaneo e Massimo Introvigne.
In questa intervista, il professor Hauke indaga sul cosiddetto "maschilismo" della Chiesa.
È vero che la Chiesa ha demonizzato il pentacolo, simbolo di Venere?
Don Hauke: Abbiamo qui un tipico esempio della non attendibilità storica del romanzo, nonostante l’autore sostenga: «Tutte le descrizioni di opere d’arte e architettoniche, di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo corrispondono alla verità» (p. 9). Basta la consultazione di appositi dizionari per verificare che già i dati basilari non collimano affatto con quanto da lui sostenuto sul pentacolo. Non pare che si conosca con esattezza l’origine del segno, anche se testimoniato sin dal 2000 a.C. in Egitto. Non sembra comunque evidente un legame astronomico con il pianeta Venere. I Pitagorici usavano il pentacolo come segno salvifico, che collegavano con la parola «salute». Partendo da questa tradizione, il pentacolo diventa, sin dal sec. XVI, un simbolo dei medici e viene messo in relazione da Cornelio a Lapide, con le cinque ferite di Cristo.
Nell’esercito bizantino (quindi già nella Chiesa del primo millennio), i combattenti di avanguardia portavano dei piccoli scudi con il pentalpha (un pentacolo a tre colori) quale segno di «salvezza». Se la Chiesa antica «dei primi secoli» avesse fatto del pentacolo un simbolo demoniaco, un tale impiego non sarebbe stato concepibile. D’altra parte, il pentacolo compare nondimeno come segno magico e apotropaico (in grado di allontanare gli spiriti maligni) nella gnosi antica e nella cabala ebraica del Medioevo. A questo contesto risale poi il suo legame con l’occultismo moderno. Pertanto non ha alcun serio fondamento l’idea sostenuta da Brown che la Chiesa avesse mutato, con calcolata malizia, il simbolo della dea Venere nel segno del diavolo. L’autore rivendica espressamente a sé la fantasia, ma, in un romanzo che pretende di essere storico, essa non è una giustificazione a priori per qualsivoglia stravaganza, ma concerne solo la creatività della trama delle vicende, le quali devono essere invece narrate nella più rigorosa compatibilità e coerenza col reale quadro storico-culturale.
Più seria sembra però l’accusa rivolta alla Chiesa per la caccia alle streghe.
Don Hauke: In effetti, questo è l’unico punto che gode di qualche fondamento storico. Ricordando il Malleus maleficarum, Langdon sostiene: «In trecento anni di caccia alle streghe, la Chiesa aveva bruciato sul rogo la sorprendente cifra di cinque milioni di donne». La colpa per la caccia alle streghe viene quindi interamente addossata alla Chiesa (cattolica) che avrebbe mirato così a distruggere «delle donne che pensano liberamente» (p. 150). In queste affermazioni è contenuto un pizzico di verità, ma condito con esagerazioni mastodontiche e scorrettezze di fondo. Per accostarsi in maniera adeguata al fenomeno, bisogna partire dalla realtà oscura della magia che mira ad ottenere degli effetti sovrumani tramite il ricorso a potenze occulte, legate all’intervento di demoni. Questa pratica, purtroppo oggigiorno di nuovo abbastanza diffusa, trova una esplicita e severa condanna già nell’Antico Testamento, dove si prevede la pena capitale per la stregoneria (pene gravissime sono contemplate dalla legge mosaica anche per tanti altri reati: cfr. Esodo 22,17). Questa punizione è del resto una di quelle previste già dal Codice di Hammurabi, verso il 2000 a.C, nell’antica Babilonia. La stregoneria non è una realtà tipicamente femminile, ma coinvolge uomini e donne. Chi segue le indagini recenti sul fenomeno e ha cognizione delle esperienze degli esorcisti, non può negare che la stregoneria esista tuttora con tutti i suoi effetti nefasti, che possono essere combattuti efficacemente dai mezzi spirituali della Chiesa.
Naturalmente bisogna fare attenzione a non confondere interventi reali del maligno con la superstizione e con la credulità della gente, che vede la coda del diavolo dove in verità non c’è. La deplorata «caccia alle streghe» non fu causata semplicemente dalla credenza nella stregoneria, ma da un’isteria collettiva scatenatasi all’inizio dell’epoca moderna, e dai metodi assolutamente inaccettabili impiegati per individuare streghe e stregoni. La tortura portava infatti a delle «confessioni» di reati fantomatici, suggeriti dagli accusatori stessi. La responsabilità diretta dell’aver mandato al rogo presunti malèfici va all’autorità statale. L’isteria collettiva (che culmina negli anni 1550-1650), imperversava soprattutto nei paesi germanici e slavi, molto meno invece nell’ambito mediterraneo.
Recenti ricerche hanno ridimensionato le cifre relative alle persone giustiziate come streghe: secondo lo studioso danese Gustav Henningsen, nel corso di quattro secoli (quando si praticava la persecuzione attiva della stregoneria) furono uccise circa 50.000 persone (e non 5 milioni, come sostiene Brown), di cui circa il 20 per cento erano maschi. La cifra è stata inferiore in genere nei paesi cattolici, non minati dalla riforma protestante: in Spagna, Italia e Portogallo – dalla metà del sec. XVI fino alla fine del sec. XVIII – ci furono 12.000 processi contro presunti streghe e stregoni; soltanto 36 persone, in queste migliaia di processi, furono sottoposte alla pena capitale. A Roma morirono meno di cento persone per il delitto di stregoneria: il primo caso a noi noto fu nel 1426, l’ultimo nel 1572; la stragrande maggioranza dei processi dell’Inquisizione romana si concluse per mancanza di prove. Durante i processi rivolti contro le streghe furono commessi errori tremendi, ma ciò non giustifica sul piano storico la diffusione di una leggenda nera, alla maniera di Brown, che veda come unico responsabile «la Chiesa».
Dan Brown accusa inoltre la Chiesa di aver provocato il passaggio dal «matriarcato» al «patriarcato». C’è qualcosa di vero in questo?
Don Hauke: Secondo la rivelazione biblica, l’originario rapporto armonioso esistente tra l’uomo e la donna è stato distrutto dal peccato originale. La fiducia reciproca rischia allora di cedere ad un antagonismo interno alla coppia, che va spesso a scapito della donna (cfr. Genesi 3,16). L’oppressione della donna, fatto sicuramente da vituperare, non va confusa con la speciale responsabilità spettante al marito il quale, secondo le affermazioni dell’apostolo Paolo, è il «capo» della famiglia (cf 1 Corinzi 11,3; Efesini 5,21-33). Questo compito, nella spiegazione che ne dà l’apostolo, discende dalla creazione e deve misurarsi sull’amore di Cristo che si è sacrificato per la sua Chiesa. Quanto indicato dalle fonti bibliche trova riscontro nel dato incontrovertibile che le più diverse funzioni di guida, in tutta la storia umana, sono state affidate con più frequenza a uomini che a donne. Questo vale persino per i paesi marxisti che miravano ad annullare la differenza sociale tra uomo e donna. Un matriarcato, inteso nel senso di una guida dell’intera società come prerogativa delle donne, non è di fatto mai esistito. È quindi scorretto parlare di un passaggio dal «matriarcato» al «patriarcato» e imputarlo al cristianesimo, come sostiene Brown (cfr. p. 149).
In che senso Dan Brown segue le correnti femministe?
Don Hauke: Nel femminismo radicale troviamo delle correnti diverse, spesso tra di loro contrapposte. C’è un approccio che minimizza la differenza tra uomo e donna, propugnando un ideale androgino: è il femminismo egualitario. L’altra tendenza esaspera la distinzione tra i sessi, dichiarando però la donna superiore all’uomo. In ambito religioso, questo femminismo «ginocentrico» (concentrato sulla donna) si manifesta nella venerazione di una «dea» ( Goddess feminism). Brown anche in questo caso presenta una strana e insostenibile mescolanza tra le due correnti: da una parte elogia l’ideale androgino, dall’altra difende una preponderanza della «dea», ponendo all’origine della storia umana un matriarcato. Ambedue i femminismi non si accordano con una sana antropologia: il femminismo egualitario non rispetta la differenza tra uomo e donna, pur rivendicandone l’uguale dignità, mentre il femminismo ginocentrico nega proprio l’ugual valore dei sessi, pur esaltandone la differenza. Il punto che risulta deficitario in entrambi gli approcci è la concomitanza tra uguale dignità e complementarità, tipica dell’antropologia cristiana.
Ma non pensa che anche nella Chiesa ci sono state ingiuste discriminazioni delle donne?
Don Hauke: Il rapporto tra uomo e donna si fonda sulla creazione, che è cosa buona, ma è anche continuamente insidiato dalle conseguenze del peccato. Per questa ragione, anche all’interno della Chiesa, ci sono state (e a volte ci sono ancora) delle ingiuste discriminazioni nei confronti delle donne. Ne ha parlato, tra l’altro, Giovanni Paolo II, nella sua Lettera alle donne: «Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali. Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni. Ma se in questo non sono mancate, specie in determinati contesti storici, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente. Tale rammarico si traduca per tutta la Chiesa in un impegno di rinnovata fedeltà all’ispirazione evangelica, che proprio sul tema della liberazione delle donne da ogni forma di sopruso e di dominio ha un messaggio di perenne attualità, sgorgante dall’atteggiamento stesso di Cristo. Egli, superando i canoni vigenti nella cultura del suo tempo, ebbe nei confronti delle donne un atteggiamento di apertura, di rispetto, di accoglienza, di tenerezza. Onorava così nella donna la dignità che essa ha da sempre nel progetto e nell’amore di Dio» ( Lettere alle donne, n. 3).
Non ha però l’impressione che l’immagine biblica di Dio sia connotata prevalentemente da simboli «maschili»?
Don Hauke: Direi di sì, benché siano riscontrabili anche dei tratti «femminili» quando ad es. l’azione di Dio viene paragonata alla tenerezza di una madre (cfr. Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»). L’accento «maschile» posto nell’immagine di Dio si fonda, per il cristianesimo, sulla rivelazione di Gesù che parla del nostro «Padre nei cieli» (e non di «nostra Madre in terra»). Il Figlio di Dio si è incarnato nel sesso maschile, un fatto destinato a permanere anche nella corporeità trasfigurata. Lo Spirito Santo invece porta in sé alcuni tratti che, dal punto di vista simbolico, potrebbero essere avvicinati ad aspetti femminili, benché questi aspetti non possano venire esagerati in una rappresentazione «femminile», fuorviante, dello Spirito Santo.