di Francesco Agnoli
Il professor Roberto de Mattei, vicepresidente
nazionale del CNR, reo
di aver organizzato un convegno a
Roma con alcune personalità scientifiche
piuttosto critiche verso l’ideologia
darwinista, ha subito l’ennesimo
processo dalle colonne del periodico
giacobino Micromega. A fare da inquirente,
il violentissimo Telmo Pievani,
un personaggio che dietro le
teorie di Darwin, ammantandosi del
titolo di difensore della ragione e
della scienza, nasconde il suo ateismo
dogmatico e assolutista e il suo
rancore e disprezzo per il pensiero
cattolico e teista, ben espresso nel
suo “Creazione senza Dio”.
Pievani è uno di quelli che non
possono sopportare alcun rilievo,
piccolo o grande che sia, nei confronti
di Darwin e del suo pensiero, non
per una reale attenzione alla sua
opera, quanto per personali motivi
ideologici: il naturalista inglese è infatti
per lui, come lo fu per Marx ed
Engels, o per Stalin, la “dimostrazione”
scientifica della inesistenza di
Dio (vedi appunto il titolo del suo libro).
Questo nonostante Darwin stesso
non si sia mai definito ateo, e, al
contrario, abbia in più occasioni fatto
dichiarazioni di questo tipo: “L’impossibilità
di pensare che questo
grandioso e meraviglioso universo,
insieme a noi esseri coscienti, sia nato
per caso, mi sembra il principale
argomento a favore dell’esistenza di
Dio”, salvo poi aggiungere però che
“l’intera questione si trova al di là
della portata dell’intelletto umano”
(Randal Keynes, Casa Darwin, Einaudi).
La polemica tra il dotto ed equilibrato
professore del CNR e lo scomposto
Pievani, perfetta espressione
di un certo mondo poco amante del
libero dibattito sull’opinabile, ci dà
la possibilità, in chiusura dell’anno
darwiniano, di ricordare anche un altro
personaggio importante, quel sir
Alfred R. Wallace, che è ricordato, insieme
a Darwin, come lo scopritore
della selezione naturale, e la cui memoria,
pur essendo egli un evoluzionista,
non farà forse un gran piacere
al nostro Pievani.
Qual è il nucleo del pensiero di
Wallace? Wallace entra in discussione
con l’amico Darwin a proposito
dell’unicità umana. Non che neghi la
natura anche animale dell’uomo, ma
sostiene che l’unicità umana non può
essere negata, ed è anzi evidente nel
fatto che l’uomo è l’unica creatura
che non è costretta a modificare il
proprio corpo “in relazione alle mutate
condizioni ambientali”, ma al
contrario modifica l’ambiente a seconda
delle proprie necessità. Per
nuotare, nota Wallace, non abbiamo
subito mutazioni genetiche che ci
hanno fatto crescere le branchie, né
per volare ci sono venute le ali, ma
abbiamo inventato le pinne, le maschere,
i sommergibili, le navi e gli
aerei (e gli ospedali, che contrastano
la legge del più forte). Non è dunque
solo la natura ad esercitare il suo potere
su di noi, ma anche noi ad esercitarlo
su di essa.
E questo come si spiega? Occorre,
conclude Wallace, ipotizzare “un Potere
che ha guidato l’attività di tali
leggi (naturali, ndr) in una precisa direzione
e con uno specifico scopo”.
Occorre cioè, per spiegare l’uomo,
una concezione teleologica-provvidenzialistica,
un principio spirituale
che renda conto della sua irriducibile
alterità, ciò che i filosofi chiamano
“anima”; occorre “un qualche altro
potere, diverso dalla selezione naturale”
che sia “stato coinvolto nella
realizzazione dell’uomo”, una “legge
più generale…forse connessa con l’origine
assoluta della vita e dell’organizzazione”.
A queste osservazioni
Darwin, che non condivide l’idea di
riservare all’uomo “un posto a sé
stante nel regno animale”, risponde a
Wallace: “Non capisco la necessità di
tirare in ballo un’ulteriore e diretta
causa riguardo all’uomo”, oltre, evidentemente,
alla legge della selezione
naturale, “la vostra e mia creatura”
(Federico Focher, L’uomo che
gettò nel panico Darwin, pp.155-197,
Bollati Boringhieri, 2006).
Eppure Wallace continua a sostenere
una tesi che è ancora oggi la più
evidente e di buon senso, e che certo
non è mai stata smentita: che nell’uomo
una “forza misteriosa”, la mente,
costituisce “la vera grandezza, l’originalità
dell’uomo” e lo rende “un essere
a sé stante”. L’uomo, per Wallace,
si sarebbe evoluto sino al momento
in cui l’intelletto, raggiunta una soglia
minima di sviluppo, avrebbe reso
inutile le modificazioni del corpo.
Ma cosa “la selezione naturale non
può fare”? Essa, per lui come per
Darwin, non ha “nessun potere di
spingere un qualunque essere molto
più avanti dei suoi simili, se non quel
tanto che basta per permettergli di
sopravanzarli nella lotta per l’esistenza”.
Eppure nell’uomo, nota sempre
Wallace, vi è un evidente eccesso: la
capacità di costruire aerei, o di dipingere,
o di osservare gli astri con un
cannocchiale, non sembra avere alcuno
scopo, alcuna utilità, tanto meno
immediata! Anche la voce umana,
così capace di estensione, di versatilità,
e di dolcezza, “mostra di eccedere
le necessità dei selvaggi” e le nostre:
qual è l’utilità, per la sopravvivenza,
di un soprano o di un tenore,
del gregoriano, o della polifonia?
Tanto più che le immense potenzialità
della voce umana rimangono latenti
anche nella gran parte degli uomini
civilizzati. E l’immensa potenzialità
delle nostre mani? Con esse
l’uomo suona il piano o il violino, costruisce
gioielli e microchip, fa operazioni
chirurgiche o scrive col computer…
Cioè, secondo le parole di
Wallace, “la mano dell’uomo presenta
delle capacità latenti e delle potenzialità
che non vengono utilizzate
dai selvaggi e che devono esserlo state
ancora meno dall’uomo paleolitico
e dai suoi più rozzi antenati. Ha tuttavia
l’aria di un organo predisposto
per essere utilizzato dall’uomo civilizzato,
anzi di un organo necessario
per rendere possibile la civilizzazione”.
Se pensiamo alle facoltà mentali,
la capacità di concepire l’eterno, l’infinito,
l’armonia, il numero, non “influiscono
minimamente” sulla esistenza
individuale o su quelle della
tribù, e quindi è “impossibile che si
siano sviluppate grazie a una qualche
forma di conservazione di forme
di pensiero utili”.
Inoltre la selezione non “ha il potere
di produrre delle modificazioni
in qualche misura dannose per chi le
possiede”, essendo esse adattative. Si
chiede allora Wallace: perché allora
perdere il pelo, là dove sarebbe utile?
Perché la posizione bipede, e le
altre debolezze fisiche dell’uomo,
quali appunto la pelle senza peli, che
un quadrumane non ha? “La pelle
dell’uomo, delicata, nuda, sensibile,
priva completamente di quel rivestimento
di pelo così comune in tutti gli
altri mammiferi- conclude Wallacenon
si può spiegare con la teoria della
selezione naturale. Le abitudini
dei selvaggi dimostrano che essi sentono
il bisogno di questo rivestimento,
assente nell’uomo proprio nei
punti in cui negli animali è più folto.
Non abbiamo alcuna ragione di credere
che il pelo possa essere stato
dannoso, o anche solo inutile, per
l’uomo primitivo”.
Perché la crescita del cervello, se
in primis è solo causa di mortalità alla
nascita e di parti più dolorosi e rischiosi?
Afferma Wallace: quando
“modificazioni nocive o inutili al tempo
della loro comparsa” divengono,
“col tempo estremamente vantaggiose,
e sono ora essenziali per il pieno
sviluppo morale e intellettuale della
natura umana, dovremmo dedurne
l’azione di una mente che prevede e
lavora per il futuro, proprio come facciamo
noi quando vediamo l’allevatore
organizzare il proprio lavoro con il
determinato proposito di produrre un
dato miglioramento nella coltivazione
di una pianta o nell’allevamento di
qualche animale domestico”.
Wallace argomenta poi in questo
modo: la crescita del cervello, il suo
volume, ci differenzia dalle scimmie,
ma la differenza tra il volume dei selvaggi
e quello dei civili è ben misera
(il cervello dei selvaggi è “immensamente
più grande di quello degli animali”;
“la selezione naturale avrebbe
anche potuto dotare il selvaggio di un
cervello non molto superiore a quello
di una scimmia, e invece egli ne
possiede uno di pochissimo inferiore
a quello di un filosofo”).
Eppure il selvaggio non usa moltissime
delle facoltà di cui si serve
l’uomo civile. Ma l’ampiezza del suo
cranio (quello di un nero selvaggio
può anche essere maggiore di quella
di un bianco europeo) dimostra che
il suo cervello “è capace, se coltivato
e sviluppato, di svolgere un lavoro
dal punto di vista sia qualitativo che
quantitativo che va molto al di là di
quello che gli viene normalmente richiesto”.
Tra i selvaggi possiamo trovare
esempi di senso artistico, di altissima
moralità, ecc…, pertanto, “considerato
che tutte le facoltà morali e
intellettuali occasionalmente si manifestano
anche nel selvaggio, possiamo
benissimo concludere che esse
sono sempre latenti e che il suo
grande cervello è sovradimensionato
per le reali richieste della sua condizione
di selvaggio”. Il cervello del
selvaggio sembra cioè “predisposto
per essere completamente utilizzato
via via che egli progredisce nella civilizzazione”.
Ma un cervello così
grande rispetto alle necessità, non
può essere frutto solo della selezione,
che agisce in modo economico,
badando all’utile immediato, portando
ciascuna specie “ad un grado di
organizzazione esattamente proporzionato
alle sue necessità, mai oltre”,
e mai preparando “nulla per il futuro
sviluppo della razza”.
Le facoltà umane della geometria
e dell’aritmetica, come tante altre,
come possono mai essere emerse “in
un epoca in cui non sarebbero state
di nessuna utilità per l’uomo nella
sua primitiva barbarie?” Si tratta infatti
di facoltà “così incredibilmente
lontane dalle necessità materiali degli
uomini selvaggi”; del resto l’ “ipotesi
utilitaristica” (che altro non è
che la teoria della selezione naturale
applicata alla mente) “sembra inadeguata
anche per spiegare lo sviluppo
del senso morale”, in quanto “nella
nostra natura esiste un sentimento,
un senso del giusto e dell’ingiusto,
che è anteriore e indipendente da
esperienze utilitaristiche”.
Come Darwin era partito dallo studio
degli allevamenti artificiali, cioè
dalla selezione operata dall’intelligenza
umana, così l’evoluzionista
Wallace conclude ipotizzando all’origine
del cosmo una “intelligenza superiore”,
analoga a quella, appunto,
dell’allevatore o del coltivatore.
Il Foglio 4 dicembre 2009