La Chiesa fa iniziare l’anno nel segno di Maria, “Madre di Dio”. A far difficoltà e a generare incomprensioni, persino fra i cattolici, è soprattutto l’idea della verginità perpetua della Madre di Gesù, che da molti viene vista come effetto di una certa non so qual “sessuofobia”. In realtà, almeno per i primissimi cristiani che delle vicende di Gesù e Maria han fatto memoria, l’accusa non ha alcun senso: non v’è traccia di sessuofobia nella predicazione di Gesù, tantomeno nei vangeli canonici (mentre ricorre abbondantemente nel più tardo vangelo copto di Tommaso, con la sua visione gnostica). Un discorso diverso va fatto per Paolo, che al capitolo settimo della sua prima lettera ai Corinzi esplicita un suo personalissimo desiderio, ch’è anche in qualche modo un consiglio. Dopo aver fatto richiesta agli sposi cristiani, col realismo che gli era consueto, di non «privarsi l’uno l’altro, se non di comune accordo, temporaneamente, per attendere alla preghiera; poi tornate insieme, perché satana non vi tenti per la vostra incontinenza», l’apostolo scrive infatti: «Vorrei che tutti fossero come me [cioè non coniugati]; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo chi in un altro. Ai non sposati e alle vedove dico che è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno contenersi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere!». Paolo, che qui sembra echeggiare la parola di Gesù sugli “eunuchi per il Regno dei cieli” (Mt 19,12), pospone qualunque incombenza umana alla fedeltà al Regno di Dio, alla sequela di Cristo, ma lo fa in termini che risultano assolutamente equilibrati, senz’alcun eccesso ascetico: «ciascuno – egli afferma più avanti – rimanga nella condizione nella quale è stato chiamato». Siamo agli inizi della Chiesa: chi non è sposato, si adoperi con tutte le proprie forze a seguire Gesù, se vi riesce; chi ha già messo famiglia, viva il tempo presente in modo conforme alla Grazia, al suo statuto di “nuova creatura”. Non c’è ombra di sessuofobia.
Altro discorso vale per i secoli successivi, che ereditarono il disprezzo per i piaceri della carne (molto meno subdoli, peraltro, rispetto alle tentazioni puramente spirituali) dalle varie tradizioni ascetiche del mondo antico, anche in forme non ortodosse, travasando temi e prospettive non sempre compatibili con una visione genuinamente cristiana della realtà. Che non venne comunque soffocata. Celebre è il caso di Agostino, che pur in una prospettiva sostanzialmente platonica, si trovò a difendere la dignità del matrimonio di fronte a Elvidio, il monaco che voleva subordinarlo alla condizione verginale, giudicata più aderente alla “perfezione”. Anche riflessioni non sospettabili di apologia del cristianesimo, come l’ambigua Storia della sessualità di Michel Foucault, hanno d’altronde dimostrato che la sessuofobia è un prodotto dell’epoca moderna, di derivazione puritana più che cattolica, legato allo sviluppo dell’idea di “decoro” nelle “società borghesi”: esattamente come la sessuomania che pare affliggere il nostro tempo, che altrettanto moralisticamente condanna qualunque visione precedente della sessualità, come non “liberata”. L’uomo moderno è più o meno disposto ad ascoltare il dott. Freud, quando indica il naturalissimo legame fra sessualità, generazione e morte, ma rifiuta il discorso se a farlo è un monaco del V secolo, magari con maggior serenità e meno pruriti.
Tornando alla dottrina sulla verginità perpetua di Maria, da un punto di vista storico essa appare avvinta alla formulazione del dogma dell’Incarnazione, del quale costituisce una sorta di corollario: come scrive il Catechismo della Chiesa cattolica, tale concezione indica infatti che «Gesù è stato concepito nel grembo della Vergine per la sola potenza dello Spirito Santo, senza intervento dell’uomo», salvaguardandone in tal modo la doppia natura, divina ed umana, altrimenti riducibile (§§ 495-507). Non è questione secondaria, che riguardi i rapporti fra la giovane Maria e il suo sposo Giuseppe. E comunque, da un punto di vista teologico, si potrebbe obiettare ai molti cristiani che la pongono in dubbio che non è meno “assurdo” credere in un Dio fatto uomo, morto e risorto, rifiutando poi il concorso d’una vergine, financo “perpetuamente” tale. Perché limitare a nostro arbitrio l’azione della Grazia di Dio, per il quale «niente è impossibile» (Lc 1,37)?
Va detto in ogni caso che l’esame dei testi evangelici riserva non poche difficoltà. La prima che vien fatta notare, e per la quale sono spesi ancor oggi fiumi d’inchiostro, è quella relativa alla notizia che i vangeli canonici apparentemente ci offrono in merito ai “fratelli di Gesù”, e al suo essere figlio “naturale” di Giuseppe. Nel vangelo di Luca e in quello di Matteo, dopo un discorso compiuto da Gesù nella sinagoga di Nazaret, la gente stupita comincia ad esempio a domandarsi: «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), «Non è forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?» (Mt 13,55). Mentre in Marco l’interrogativo suona: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria e fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono qui tra noi?» (Mc 6,3). Nel vangelo di Giovanni ci imbattiamo in una situazione analoga: la scena si svolge in Galilea, a Cafarnao, e «i Giudei mormoravano di lui (…) e dicevano: “Non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?”» (Gv 6,41-42). Giovanni, in precedenza, riferisce anche della reazione del discepolo Filippo alla richiesta di Gesù di seguirlo: «Filippo trova Natanaele e gli dice: “Quello di cui hanno scritto Mosè nella legge ed i profeti, noi l’abbiamo trovato: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret”. “Da Nazaret – gli disse Natanaele – può mai venire qualcosa di buono?”. Gli dice Filippo: “Vieni e vedi!”» (Gv 1,45-46).
Possiamo tralasciare per il momento la questione dei fratelli e delle sorelle del Signore, sulla quale torneremo. Com’è noto, almeno fino a Gerolamo (IV-V sec.), molti Padri della Chiesa accolsero la notizia riportata dall’apocrifo Protovangelo di Giacomo (9,2), che riferiva di un precedente matrimonio di Giuseppe, permettendo in tal modo di conciliare la verginità di Maria e la presenza di fratelli e sorelle di Gesù. Gerolamo impose in seguito la spiegazione basata sull’ambiguità del termine ebraico e aramaico per “fratelli”, che generalmente indicava anche i parenti prossimi (cugini). Ma quest’ultima soluzione si scontra con ulteriori difficoltà, e abbisogna di approfondimenti: come mai Paolo, che scrive in greco, utilizza pacificamente il termine adelphós (inequivocabilmente “fratello”, non “cugino”) per indicare Giacomo? Un’ipotesi potrebbe essere che “fratello del Signore” fosse un vero e proprio titolo d’onore, utilizzato per designare l’unico fra i Dodici a vantare una vicinanza parentale col Maestro. A sostegno di quest’idea c’è l’incipit della canonica Lettera di Giuda, ove l’autore, che a rigor di logica sarebbe dovuto essere anche lui un “fratello del Signore”, si autodesigna invece come «servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo». L’intera questione è stata affrontata, con profondo equilibrio, da John P. Meier, nel primo volume del suo monumentale lavoro su Gesù, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, ove si passano in rassegna tutte le ipotesi formulate finora (pur non approdando ad una tesi univoca; per ulteriori spunti di riflessione, con un “pizzico” di apologetica, vedere qui, qui e qui).
Da parte nostra, riteniamo decisivo cercare di capire quello che pensavano gli evangelisti stessi, al di là di ciò che noi vogliamo leggere in essi. In tutti i brani sopra citati, appare evidente ch’essi riferiscono l’opinione della gente di Galilea, non condividendola. Lo si evince dalla genealogia matteana, che usa per tutti gli antenati la formula «Abramo generò… Davide generò…», una sorta di ritornello che si interrompe alla comparsa di Giuseppe: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo» (Mt 1,16): è chiaro che il narratore vuole evitare in tutti i modi di attribuire la generazione di Gesù a Giuseppe. Analogamente Luca, che apre la sua genealogia dicendo che «Gesù incominciava (il suo ministero) all’età di trent’anni circa, e tutti pensavano che fosse figlio di Giuseppe» (Lc 3,23).
Per Giovanni, che d’altra parte nel suo vangelo designa sempre Maria come “madre di Gesù” (cf. Gv 2,1.3.5.12; 19,25), la verginità di Maria parrebbe addirittura coinvolgere non soltanto il concepimento (virginitas ante partum), ma anche la generazione (virginitas in partu). Tutto ciò emergerebbe da una variante testuale di un verbo di Gv 1,13 (in un passaggio tra i più complessi del Prologo), che i più antichi manoscritti, sparsi per tutto il Mediterraneo (Africa settentrionale, Roma, Gallia, Egitto, Siria), leggevano al singolare (egennéthē), in luogo del plurale mantenuto anche dalla versione italiana C.E.I.:
[A quanti però l’hanno accolto (il Verbo)
ha dato potere di divenire figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,]
i quali non da sangui (ex aimàton),
né da volere di carne,
né da volere di uomo (androu),
ma da Dio sono stati generati (egennéthesan)
(Gv 1,12-13).
I primi testimoni del plurale egennéthesan si trovano tutti – secondo la critica testuale – in Egitto, e ciò confermerebbe il contesto anti-gnostico cui pare alludere la variante, un contesto notato da autori come Tertulliano e Ireneo di Lione (II-III sec.), secondo i quali sarebbero stati alcuni gnostici valentiani ad introdurre il plurale, per dar credito alle loro speculazioni sulla nascita divina degli uomini spirituali (ex Deo nati sunt). Secondo lo studioso belga Ignace de la Potterie, che fu tra i massimi esperti del testo giovanneo, «la lezione al singolare ek theou egennéthe non è soltanto la più antica. Essa è anche molto più conforme allo stile e alla teologia di Giovanni. Un parallelo molto significativo si trova in 1Gv 5,18: “chiunque è nato da Dio non pecca più, ma il Generato da Dio (ho gennethèis ek tou theou) lo custodisce…”. Se in Gv 1,13 si trattasse veramente, come spesso si pretende, della rigenerazione spirituale dei cristiani, non si comprenderebbe più il tono polemico della triplice negazione (“non da sangue… né da volere d’uomo”), che si riferisce esplicitamente ad una nascita corporale» (I. de la Potterie, La concezione e la nascita verginale di Gesù secondo il quarto vangelo, in Studi di cristologia giovannea, Genova 1992³, pp. 58-67: p. 62).
Il fatto che qui Giovanni pensasse ad una prima descrizione dell’Incarnazione di Gesù come Verbo (Logos) è confermato da Ireneo di Lione (Adv. Haer. 3,21,5-7), che si appoggia a questi due versetti per ribadire che è solo Maria (senza Giuseppe suo sposo) ad aver cooperato al disegno e alla volontà di Dio. Ma la triplice negazione «non da sangue, né da volere di carne, né da volere d’uomo (maschio)», nasconderebbe un’allusione ancor più delicata e di difficile interpretazione: il testo originale, infatti, non parla di sangue al plurale, ma di sangui. A dispetto di molti commentatori moderni, che spiegano l’insolito plurale facendo appello a teorie fisiologiche del tutto aliene agli antichi (“sangui” indicherebbe il sangue del padre e il sangue della madre), l’espressione «non ex sanguinibus» suscitò perplessità persino ad Agostino, che nel suo splendido commento a Giovanni annotò recisamente: «Sanguina non est latinum» (In Jo. 2,14). La spiegazione, molto probabilmente, si trova nel retroterra giudaico di Giovanni (come per l’idea di Logos): con la parola “sangui”, il quarto evangelista non indicherebbe le perdite mestruali, ma il sangue del parto (che rendeva ugualmente la donna impura), e una prova la si potrebbe reperire accostando il passo ai versetti del Levitico dedicati alle norme rituali cui deve sottoporsi la puerpera, «per essere purificata dal flusso del suo sangue (letteralmente: dalla sorgente dei suoi sangui)» (Lv 12,7; cfr. le norme di purità per la donna durante il ciclo mestruale, affrontate invece nella sezione di Lv 15,19-24). Un plurale che troviamo anche nella Confutazione di tutte le eresie, un’opera del III sec. in passato attribuita ad Ippolito, che stravolge la formula di Gv 1,13 per applicarla all’impurità (morale) dell’eresiarca Simon Mago, storico rivale di Pietro e Paolo negli Atti (anche apocrifi), considerato da molta letteratura cristiana dei primi secoli come il padre di tutte le “eresie gnostiche”: «Egli era un uomo… nato da sangui e dal desiderio carnale, come gli altri» (Ref. 6,9,5).
Se ci atteniamo a queste indicazioni, ne consegue che Giovanni affermerebbe per Cristo una nascita senza effusione di sangue: e questo, in altri termini, lascerebbe supporre ch’egli credesse alla virginitas in partu di Maria: e dunque non soltanto alla concezione, ma anche alla nascita di Gesù in modo verginale.