DA B ANGKOK S TEFANO V ECCHIA
P ressioni, ingiunzioni ed embargo internazionale scivolano sopra il regime birmano, non sembrano intaccarne arroganza e capacità di controllo sul Paese. La giunta militare al potere dal 1962, cambiando (pochi) nomi e volti, continua a trovare proprio all’estero i fondi di cui necessita, malgrado la sdegno mondiale per la repressione del sangue della protesta del 2007, di cui furono protagonisti i monaci buddhisti. Quintuplicati nell’anno fiscale 20082009 rispetto a quello 2007-2008 (da 172,72 milioni di dollari a 985 milioni, secondo i dati del ministero per la Pianificazione nazionale e per lo Sviluppo economico), gli investimenti stranieri compensano ampiamente quanto sottratto dalle sanzioni internazionale. Tuttavia, mentre queste ultime colpiscono a volte indiscriminatamente, e gli aiuti arrivano con sempre maggiore difficoltà alla popolazione proprio per la diffidenza e anche il disinteresse del mondo verso il Myanmar dei generali, gli investimenti finiscono nelle tasche del regime.
Ultimi in ordine di tempo, quelli previsti dal contratto firmato il 27 novembre dal colosso dell’ingegneria marittima Swiber, con base a Singapore: 77 milioni di dollari per costruire, in compartecipazione con un’azienda locale, 150 chilometri di gasdotto sottomarino al largo della costa birmana. Il progetto partirà nel primo trimestre del 2010 e sarà completato in sei mesi. «Siamo onorati e eccitati di avviare questa attività di installazioni offshore in Myanmar», ha detto Raymond Goh, di Swiber Holdings presentando l’iniziativa. Un’ulteriore dimostrazione di come le posizioni politiche dei governi dei Paesi dell’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, di cui anche Singapore e Myanmar fanno parte) contrastino con i loro interessi economici.
Se dietro a Than Shwe e agli altri gerarchi birmani non vi fossero 'grandi protettori' come la Cina, che finalmente ha trovato uno sbocco ai 'mari caldi'; la Russia, che alimenta di tecnologia e di infrastrutture un paese scivolato nel medioevo; l’India, che si vuole esempio di democrazia e non si fa scrupolo di cercare buoni affari e buoni approdi in cambio del silenzio sulla democrazia negata ai birmani; la Corea del Nord, che qui può dislocare parte della propria tecnologia nucleare, vendere missili e cannoni, scavare basi e tunnel nella remota capitale Naypiydaw..., Myanmar sarebbe ancora Birmania e i suoi 56 milioni di abitanti probabilmente artefici del proprio destino.
Va tuttavia riconosciuto che sempre più il fiume di denaro che affluisce nelle casse della giunta militare e lascia solo le briciole a una popolazione passata, dal 1962, da un’esistenza dignitosa alla disperazione, non arriva dai tradizionali protettori o da nuovi alleati. I miliardi di dollari che sostengono il regime provengono dalle frequentatissime aste di pietre preziose che ignorano l’embargo, dalla vendita del legname pregiato, dal controllo della produzione e del traffico di oppio e di droghe sintetiche. E anche dal traffico di armi.
Nella prospettiva post-elettorale del prossimo anno, quando i generali si saranno riciclati in politici e imprenditori, a fare gola sono soprattutto i giacimenti di petrolio e gas, in buona parte ancora inutilizzati e la forza dei fiumi da imbrigliare inondando le terre ancestrali delle minoranze. Una ricchezza che per essere sfruttata richiede tecnologia e investimenti stranieri.
Difficile accettare che il governo di un Paese che ha il più basso livello di spesa sociale in Asia, e che quindi continua a dipendere dagli aiuti internazionali per sanità, istruzione, assistenza sociale, cultura, abbia nascosto in conti all’estero (Singapore, soprattutto) 3,5 miliardi di euro di denaro pubblico, in buona parte derivante dalle concessioni minerarie. Operazioni spregiudicate, soprattutto quando provengono da aziende con origine o sede in Stati che partecipano al meticoloso ma inefficace reticolo di sanzioni imposte sul regime.
Proprio su questo giornale ( Avvenire ,
11 settembre 2009) si è scritto dell’impegno della francese Total e della statunitense Chevron nello sfruttamento dei giacimenti di gas offshore di Yadana, iniziativa che per altri 30 anni dovrebbe rendere 19 milioni di metri cubi di gas al giorno, mentre già oggi fornisce il 60 per cento delle esportazioni di gas verso la Thailandia. Oltre al rilevo economico, Yadana è il simbolo del comportamento ambivalente di aziende occidentali verso il regime. Mentre i loro governi premono sulle sanzioni, le loro aziende fanno buoni affari ammantandoli di beneficenza.
Nel 2007, la Total, aveva comunicato che la sospensione delle attività birmane non era praticabile, anche per ragioni umanitarie. Oltre a propiziare l’arrivo di altri investitori «meno sensibili sul piano etico », infatti, una chiusura dei suoi impianti «porterebbe a maggiori difficoltà per la popolazione ». Un posizione discutibile, ma che ha una componente di verità. Tuttavia, la maggioranza delle aziende petrolifere coinvolte nelle prospezioni o nello sfruttamento delle 16 concessioni terrestri e nelle 29 marittime sono asiatiche: cinesi, malesi, coreane le cui nazioni di provenienza non aderiscono al regime delle sanzioni e sono intenzionati a giocare la carta dello sviluppo della futura 'democrazia' birmana – un futuro in doppiopetto sopra le divise – a loro beneficio.
Avvenire