DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

QUA LA ZAMPOGNA. Era goffo, lugubre e un po’ da sfigati. Ora è diventato uno degli strumenti più amati in circolazione.

di Marianna Rizzini
Tu scendi dalle stelle, ed è folla da
concerto rock. Accade, da qualche
anno, che la zampogna riempia
le sale come non mai, forse sull’onda
del fascino profuso dalla musica popolare
tra le folle euforiche nelle
piazze d’agosto (dici “notte della taranta”
e immediatamente arriva un
coro di “stupendo”, “meraviglioso”,
“magico”, “ipnotico”, “irresistibile”).
Accade che la zampogna abbia nuovi
adepti, nuovi suonatori, nuovi costruttori,
una rivista, un festival, alcuni
nemici animalisti (per via della
pelle di capra usata per la costruzione
dello strumento) e soprattutto un
maestro di riferimento, Ambrogio
Sparagna, etnomusicologo, polistrumentista
e direttore dell’Orchestra
popolare dell’Auditorium Parco della
Musica di Roma. Accade tutto questo,
ed è la fine dell’associazione di
idee “zampogna uguale castagna
uguale strada uguale moneta che cade
nel piattino dello zampognaro per
gentile offerta del passante” – cioè la
prima sequela di pensieri che scorre
nella testa quando si sente dire
“zampogna” o quando, in un giorno
di dicembre, con un carico di pacchi
e cartocci in mano, si ode l’antico,
tremulo suono per le vie del centro,
ingombre di luminarie rosse.
Epperò la zampogna à-la-page di
oggi – affiancata da voci note (da
Peppe Servillo a Simone Cristicchi),
adorata da Giovanni Lindo Ferretti,
regina del concerto “La Chiarastella”
(diretto da Sparagna, all’Auditorium,
il 5 e il 6 gennaio prossimi) –
non è diversa dallo strumento che figurava
al collo dell’omino del presepe.
C’era sempre un omino anonimo
con zampogna, nel presepe, e c’era
sempre un nonno che diceva di metterlo
tra l’ultimo re magio e il primo
batuffolo di finta neve attorno alla
capanna di Betlemme. Chi era quell’omino?,
ci si chiedeva senza avere
risposta. Oggi, parlando con Sparagna,
l’omino viene restituito, pian
piano, alla sua storia.
Veniva dal vicino oriente, in origine,
lo zampognaro. Conquistava con
le sue note l’antica Roma (dove si
suonava l’utriculus, e dove Nerone,
pare, si dilettava con zampogne antesignane).
Lo zampognaro era il pastore
errante che suonando viaggiava
dentro se stesso, si smarriva e si
ritrovava diverso. Era un contemplatore
di stelle e di pensieri, un pifferaio
magico della transumanza (la
zampogna, pare, richiamava all’ordine
il gregge). Era un attore di esercizi
spirituali ante-litteram, un mistico
camminatore – perché mistico era
ed è il suono della zampogna: senza
pause, corporeo nella sua creazione
e nella sua emissione, adatto ai
grandi spazi e alla vera solitudine.
Lo zampognaro, al contrario del cantastorie-
suonatore di organetto, facilmente
suonava isolato. Non è stato
da subito il “concertista” da strada
del periodo dell’Avvento. Né da
subito animava le “novene”, i rituali
paraliturgici prenatalizi fatti di canti
e zampognari che, tra il sedici e il
ventiquattro dicembre, arrivano all’alba
davanti alle case dove si fa il
presepe. Le novene, come gli zampognari
dell’immaginario collettivo,
devono la loro fama a Napoli, anzi al
Regno di Napoli, dice Ambrogio
Sparagna all’interlutore non esperto
che non sa distinguere una zampogna
da una cornamusa e da una piva.
Motivo per cui il maestro, tanto
per cominciare, spiega all’interlocutore
“che sono tutti aerofoni a sacco”,
solo che la cornamusa, più nordica,
ha un’unica canna come la sua
bergamasca “cugina” (la piva), mentre
la zampogna, più meridionale, ne
ha due. Al Regno di Napoli ci si arriva
subito dopo, perché non furono
cornamuse ma un’enorme zampogna
gigante, a metà Settecento, a fare da
volano alle preghiere cantate dell’avvocato-
prelato Alfonso Maria de’
Liguori. Funzionava così: Alfonso
Maria de’ Liguori raggruppava i lazzari
in piccoli gruppi di preghiera, le
cosiddette “cappelle serotine”, e faceva
cantare semplici canzoni spirituali
accompagnate dal suono grave
della “zampogna gigante”, suono poi
cercato e imitato nella composizione
delle pastorali per organo. Se i lazzari
impararono così i fondamenti
del cristianesimo, Alfonso Maria de’
Liguori consegnò alla storia il canto
“Tu scendi dalle stelle”, pubblicato
e diffuso su tutto il territorio nazionale
nella seconda metà del Settecento,
tanto da arrivare fino alle
scuole medie dell’Italia unita, più di
due secoli dopo, storpiato sotto Natale
da eserciti di suonatori scadenti,
muniti di stridentissimi flauti di
plastica (il maestro Sparagna evidentemente
non si spaventa, e in
questi giorni insegna ai ragazzi della
scuola media di Ferentino i primi
rudimenti della disciplina “coro con
zampogna”).
La zampogna gigante, dal canto
suo, è finita in scena negli spettacoli
di Sparagna, anche se è alta circa
due metri, e la cosa non stupisce chi
ha visto almeno una volta il maestro
sul palco: che sia taranta o zampogna
o “litania” (così si chiamava il lavoro
sulla musica sacra fatto da Sparagna
con Giovanni Lindo Ferretti), Sparagna
sprigiona energia, balza, cammina,
si piega, si solleva, scatta, si ripiega,
chiude gli occhi, dà con gli occhi
il tempo a tutta l’orchestra – e
qualsiasi strumento abbia in mano,
dall’organetto alla zampogna, fa in
modo di rendere leggera, agli occhi
altrui, la fatica di suonarlo. Accanto
a lui, nelle sue orchestre, ci sono ragazzi
curiosi di musica trovati nei
paesi e nelle campagne, tolti dai bar,
dai muretti e dalla noia, assunti per
prova e tenuti per sempre a suonare
organetti, zampogne, conchiglie. Poi
ci sono gli “alberi di suoni”, musicisti-
costruttori. Molti di loro, racconta
il maestro, hanno appreso e affinato
l’arte della zampogna dal nonno. Altri
si sono appassionati pur senza
aver un antenato suonatore. Gli zampognari
leader dell’orchestra di Sparagna
sono molto giovani e molto
sperimentatori. Marco Tomassi da
Cassino, già ingegnere alla Fiat, cerca
di applicare nuovi parametri
scientifico-tecnologici al metodo tradizionale
di costruzione della zampogna,
basato su parametri empirici
che non riparano sufficientemente
dalla consunzione (prodromo di “stonature”
e “opacità”). Antonio Vasta
da Barcellona Pozzo di Gotto porta
alla zampogna la sperimentazione
musicale della natìa Sicilia. Veronica
Cianciaruso da Chiasso, Svizzera
italiana, ha preso dal padre l’amore
per uno strumento che divenne celebre
anche nel Canton Ticino grazie a
suonatori questuanti in cerca di valuta
pregiata.
Messa sotto osservazione da musicisti
che ne rilanciano il repertorio
pur cercando di renderlo più duttile,
la zampogna, dice Ambrogio Sparagna,
conserva l’aspetto e il suono che
ha in braccio allo zampognaro tipico,
l’uomo con il cappello che si aggira
per la città prima di Natale, vestito
con il costume tradizionale, concentrato
e impermeabile al vociare
esterno, quasi un tutt’uno con quella
spacie di capra che tiene tra le braccia.
“Capra che canta”, così i vecchi
zampognari chiamavano la zampogna
con allusione all’“otre”, la sacca
in cui si immette l’aria, fatta appunto
di pelle di capra. Gli zampognari,
in tempi recenti di revival della zampogna,
hanno fatto subito notare agli
animalisti che il modello alternativo
suggerito dagli animalisti medesimi
– in “copertone” di gomma con rivestimento
in finta pelle – rischiava, alla
lunga, di divenire tossico per il
suonatore. E chissà se la precisazione
ha infine placato gli animi degli
amici della fauna da pascolo.
D’altronde Sparagna è abituato alle
contestazioni – gli capitò anche negli
anni Settanta, quando, fresco di
studi di etnomusicologia, fondò a Roma
la prima scuola di musica popolare,
attirandosi le critiche dei ribelli
antiborghesi duri e puri, convinti
che l’industria musicale si dovesse
contestare anche ridando la tradizione
ai “compagni contadini e operai”
(a suon di canti di lotta e di lavoro).
Sparagna fece notare che la
tradizione c’era, sì, ma era ricca soprattutto
di canti legati alla tradizione
religiosa. Non che il maestro piacesse
al volo a tutti gli uomini di
chiesa. A volte, ha detto in un’intervista
alla rivista 30 giorni, ha riscontrato
“diffidenza”: “La mondanizzazione
contagia il ceto ecclesiastico…
e così quando si organizza una manifestazione
musicale o un concerto si
invitano i divi pop-rock del momento…
di fatto si fa avvizzire una ricchezza
che è frutto della comunità
cristiana che ci ha preceduti nei secoli…
le zampogne dei pastori sono
un organo portatile che ha dato solennità
a tante celebrazioni religiose.
E poi, mi viene da dire, a Betlemme
c’era sì il sublime canto degli angeli
ma anche quello umile e gioioso
dei poveri pastori… i canti che dirigo,
suono e canto in concerto è come
se portassero la firma di quei semplici
testimoni del fatto del Natale”.
Magari poi “si vanno a cercare i gospel”,
era la conclusione del maestro,
“mentre in casa abbiamo questi
tesori inestimabili… E’ come il buon
vino paragonato alla Coca Cola, con
tutto il rispetto”.
Se gli si chiede perché sia andato
a recuperare con tanto incaponimento
la zampogna, Ambrogio Sparagna,
che è stato anche consulente
dell’ex ministro della Cultura Francesco
Rutelli per la musica popolare,
parla di “sinfonicità” spontanea dello
strumento. E’ una citazione, dice,
da Hector Berlioz. Pare infatti che il
grande musicista, arrivando da studente
di musica a Roma, a inizio Ottocento,
fosse rimasto talmente colpito
dai concerti natalizi degli zampognari
da decidere di seguirli per
un mese intero, su per le montagne
d’Abruzzo, nel gelo dell’inverno, per
carpire i segreti delle armonie tramandate
da quegli uomini un po’ zingari
un po’ “bardi girovaghi”, come li
chiamava Giuseppe Gioacchino Belli.
“Dopo allegri e piacevoli ritornelli
a lungo ripetuti”, scriveva Berlioz,
“una preghiera lenta, grave, dal tono
tutto patriarcale, viene a terminare
degnamente l’ingenua sinfonia. Da
vicino il suono è così forte che lo si
può appena sopportare, ma a una
certa distanza questa singolare orchestra
produce un effetto delizioso,
commovente, poetico, al quale anche
le persone meno suscettibili di provare
simili impressioni non possono
rimanere insensibili”.
Prima e dopo Berlioz, chissà perché,
la zampogna ha avuto fama di
strumento goffo e lugubre – i detti
popolari pullulano di gambe “grosse
come zampogne”, gente che russa
“come una zampogna”, “pive nel sacco”
che sottolineano delusioni e disillusioni.
Lo zampognaro è stato
spesso visto come la prova inconfutabile
del freddo che avanza in uno
scenario grigionero da “Nightmare
before Christmas”. La zampogna di
Sparagna salta oltre questo immaginario
di mestizia, torna diretta all’iconografia
del presepe nel deserto
del pastore errante e sorride a Gianni
Rodari – che da fan dello zampognaro
così lo onorò: “Se comandasse
lo zampognaro che scende per il viale,
sai cosa direbbe il giorno di Natale?
‘Voglio che in ogni casa spunti
dal pavimento un albero fiorito di
stelle d’oro e d’argento’”.

Il Foglio 24 dic. 2009