DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SAN FRANCESCO - «QUID ANIMO SATIS?» La ricchezza della “lieta povertà”

Pigi Colognesi

Una «sequela di Cristo radicale». E la libertà «di dedicarsi all’essenziale». A otto secoli dall’incontro tra il Santo di Assisi e Innocenzo III (e mentre il lavoro su Si può vivere così? riparte proprio da questo tema) Maria Pia Alberzoni, docente di Storia medievale, va alla radice del carisma francescano. Per sorprenderne l’attualità. Al di là delle riduzioni

«Caratteristica dell’animo povero è la letizia, di cui la figura di san Francesco è come l’emblema nella storia del cristianesimo»; così don Giussani a pagina 260 di Si può vivere così?. L’accostamento del Santo di Assisi all’inscindibile binomio povertà-letizia è un dato permanente della nostra cultura. A partire da Dante Alighieri. Quando descrive l’amore di Francesco per Madonna Povertà, la sua poesia si infiamma, raggiungendo vertici indimenticabili: «Ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, com’alla morte, / la porta del piacer nessun disserra; / e dinanzi a la sua spirital corte / et coram patre le si fece unito; / poscia di dì in dì l’amò più forte». Proprio questo grande e “lieto” amore avvinceva chi guardava Francesco e la sua Amata: «La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facìeno esser cagion di pensier santi; / tanto che ’l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, gli parv’esser tardo». Così la povertà si trasforma nel suo, apparente, contrario: «O ignota ricchezza, o ben ferace!».
Di Francesco, in questi mesi, si è parlato molto (complice l’ottavo centenario dell’incontro del Santo con Innocenzo III). Ma della povertà si parla ancora più spesso, anche se quasi sempre in termini riduttivi. Meglio approfondire, quindi. E cercare di capire di più la natura profonda di questa “lieta povertà”. Lo facciamo con l’aiuto di Maria Pia Alberzoni, docente di Storia medievale presso l’Università Cattolica di Milano.

Cos’era la povertà per san Francesco?
Dalla lettura dei suoi scritti risulta chiaro che la povertà è un modo - non l’unico perché Francesco insiste anche sull’obbedienza - per realizzare l’imitazione di Cristo. Egli infatti parla sempre anzitutto della povertà di Cristo; basti pensare alla geniale immedesimazione con Gesù Bambino povero, nel presepe. La sua stima per la povertà è, dunque, desiderio di conformarsi più da vicino a Cristo. È quanto accade all’origine stessa della sua «conversione», quando sente il famoso passo del Vangelo: «Non prendete con voi né bisaccia, né sandali, né niente»; volendo imitare questa posizione, Francesco abbraccia la povertà più radicale.

In che senso, allora, la sua è una novità dopo 1200 anni di cristianesimo?
È una novità come sono novità tutti i carismi. «Nudus nudum Christum sequi», seguire senza nulla Cristo che non aveva niente era da sempre la caratteristica dei monaci, che non avevano alcuna proprietà personale. Essi, però, erano poveri personalmente ma entro una comunità che poteva avere le rendite necessarie per poter vivere. La novità di Francesco è questa: nessun possesso, nessuna proprietà, quindi nessuna ricchezza per la persona, ma nemmeno per la comunità. I primi francescani non hanno una stabile dimora, abitano negli ospizi per i poveri, facendo i lavori più vari. Essi girano per le città predicando e non hanno nessuna necessità di avere delle proprietà.

Quindi l’imitazione di Cristo povero era in funzione della missione?
Si, ma soprattutto del desiderio di seguire il Vangelo «sine glossa», alla lettera. La grande novità di Francesco - che gli ha creato anche difficoltà con l’autorità ecclesiastica - è proprio questa assenza di stabilità, di una collocazione anche sociale per i suoi frati. È una novità dirompente; si narra che una volta Francesco arriva ad Assisi per un capitolo e incontra gente che gli indica una «casa dei frati»; sale sul tetto e comincia a buttar giù le tegole, a distruggere l’edificio e a cacciar fuori tutti i frati. Il cardinale Ugolino, futuro papa Gregorio IX e «protettore» di Francesco, interviene affermando che la casa era di sua proprietà; qui si vede la normale dialettica tra carisma e istituzione (del resto sempre rispettata da Francesco). Il suo carisma, insomma, era veramente nuovo in quanto, attraverso la povertà, toglieva ogni sicurezza esteriore di vita per donarsi a una sequela di Cristo radicale. Una sequela che implica vivere come aveva vissuto lui, senza una pietra dove posare il capo, come dice il Vangelo.

Il carisma francescano ha provocato reazioni anche nel contesto sociale?
Sicuramente molto stupore. Quella del primo Duecento è una società in una fase economica piuttosto florida. Si era creata ricchezza e di conseguenza una nuova forma di disuguaglianza non più legata alla differenza tra nobili e popolo, ma relativa all’entità del capitale posseduto. Lo stesso Francesco appartiene al nuovo ceto dei ricchi, il padre era un facoltoso mercante. La sua sottolineatura della povertà contesta l’eccessiva fiducia riposta nel denaro. Con la sua scelta di vita Francesco chiede ai “nuovi ricchi”: «Qual è la verità dell’uomo? Il denaro che possiede? La sua felicità consiste nell’avanzamento sociale consentito dalla ricchezza?». Non dimentichiamo che lo stesso giovane Francesco sognava di diventare cavaliere (cosa prima permessa solo ai nobili) in forza della potenza economica accumulata dalla sua famiglia.

Quindi Francesco che si spoglia di fronte a suo padre è anche un giudizio sulla società?
Per certi aspetti sì. Però in lui sul giudizio nei confronti del padre prevale il desiderio di imitare Cristo. Inoltre il suo spogliarsi nella cattedrale significa che abbandona lo stato secolare e decide per la vita religiosa.

Come è proseguita nell’ordine francescano la scelta per la povertà?
Qui c’è tutto il problema legato all’eredità di Francesco. L’insistenza un po’ unilaterale sulla povertà è utilizzata da certe correnti francescane in polemica nei confronti dell’ordine, stabilizzatosi su modelli più monastici, secondo l’indirizzo dato dalla sede apostolica. La povertà diventa la bandiera di questi gruppi, prevalentemente intellettuali, che dicono di rifarsi al Francesco originario. Sono piccole comunità che vivono negli eremi e non nelle città dove ormai i conventi francescani sono molto grandi e hanno scuole, biblioteche, chiese. Nascono anche dispute dottrinali piuttosto complesse che porteranno, nel primo 300, alla scomunica di tutta la dirigenza dei frati minori. In questo delicato frangente è decisiva l’azione di san Bonaventura, ben studiata da Joseph Ratzinger nella sua tesi di abilitazione all’insegnamento. Per riunificare un ordine profondamente diviso Bonaventura scrive una nuova biografia di Francesco, che diventa quella ufficiale, impedendo che si continui a rifarsi ad un presunto Francesco delle origini, utilizzato per sostenere le proprie posizioni. La lettura di Bonaventura è profondamente teologica: Francesco è definito «serafico», cioè fa parte dell’ordine angelico dei serafini; ciò vuol dire che lui ha vissuto una perfezione totale. L’ordine francescano, invece, non è ancora a questo livello; esso vive ancora in uno stato «cherubico», essendo i cherubini un ordine angelico inferiore ai serafini. Bonaventura si chiede quindi: «Come l’ordine da cherubico può diventare serafico, quindi raggiungere la perfezione del fondatore?» E risponde richiamando la necessità di un’ampia riforma interna che ha come fondamento la povertà.

Spesso la povertà francescana viene interpretata in termini puramente sociologici.
È una lettura banalizzante. Si è voluto vedere in Francesco un araldo della povertà, senza coglierne il fondamento cristologico e senza tenere conto globalmente del suo carisma. Ridotta ad un particolare impazzito, questa povertà diventa una specie di ideologia in nome della quale si sono taciuti altri aspetti sui quali invece Francesco insiste molto. Insomma, per Francesco la povertà è ciò che permette di non avere preoccupazioni per le cose materiali, diventando liberi di dedicarsi all’essenziale. Da qui deriva anche l’insistenza francescana sulla pace: si litiga e ci si fa guerra perché si contende su un possesso; chi non è attaccato a niente non ha ragioni per fare la guerra. Lo stesso si deve dire per l’amore francescano nei confronti della natura, esplicitato nel Cantico delle creature: chi non ha niente sente una immensa gratitudine per ciò che Dio, attraverso la natura, gli offre.

Quindi siamo ben lontani da pacifismo ed ecologismo.
Infatti. Per Francesco è evidente che la povertà è per un di più. La lode alle creature vien proprio dalla consapevolezza che esse non ti appartengono e ti sono donate.


Tracce N.10, Novembre 2009