DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SAN WOJTYLA. I cardinali hanno riconosciuto le virtù eroiche di Giovanni Paolo II. Ed entro il 2010 lo dichiareranno Beato della Chiesa. Ecco perché

GIANCARLO ZIZOLA

«NON è difficile
essere santi»
gli diceva Jan
Tyranowski,
il sarto che
durante la guerra insieme agli
abiti cuciva in mente a quel ragazzo
il catechismo. Da lui Karol
Wojtyla imparava anche i
mistici, le pagine infuocate di
San Giovanni della Croce e di
Santa Teresa di Gesù. Ora che
anche per Giovanni Paolo II si
avvicina l’aureola di Beato della
Chiesa (possibile entro il
2010, dopo il riconoscimento
delle virtù eroiche appena deciso
dai cardinali) la domanda si
pone: perché un altro papa sugli
altari e perché con tanta rapidità?
In un’ora di crisi dell’ecumenismo,
rafforzare la figura
del papa di Roma, anzi farlo oggetto
di culto è una buona soluzione?
La risposta che si raccoglie
in Vaticano è che, prima che
papa, Wojtyla era un cristiano
che amava il mondo e spalancava
frontiere all’umanità.
«Se potessi, farei il papa da
qui» mormorò una mattina
sconvolto dopo essere passato
tra i corpi disfatti della Casa dei
Moribondi di Madre Teresa, a
Calcutta. Un altro caso di santità
al naturale, che trascende e
precede gli schemi della santità
canonica. Da viva era già venerata
da indù, musulmani, anche
da non credenti, semplicemente
per il suo amore senza
misura. Poteva valere per lei il
tipo di santità che Simone Weil
era pronta a riconoscere a
quanti anche se atei «posseggono
allo stato puro l’amore per il
prossimo e l’accettazione della
sventura». Wojtyla non ebbe
dubbi ad aprire a Madre Teresa
la via degli altari, appena due
anni dopo che era morta, invece
del minimo di cinque stabiliti
dalla regola.
spesso disteso sul pavimento, facendo
assumere al suo corpo la
forma della croce. Nel 1944 seminarista
in clandestinità era in
questa postura quando la casa
venne invasa da squadre naziste
alla caccia di imboscati. Nemmeno
si accorsero di lui appiattito a
terra. Fu la preghiera in quella riproduzione
crocifissa a salvarlo.
Per Svidercoschi fu un trauma
una sera nella cappella dell’appartamento
privato, dove Wojtyla si
era ritirato alla notizia del ritrovamento
del corpo massacrato di
don Popielusko. In ginocchio, alle
spalle del papa, aveva chiuso gli occhi
anche lui per concentrarsi. Li
riaprì e ciò che vide di fronte a lui
“mi privò letteralmente della preghiera”
ricorda. “Lo vedevo di spalle,
curvosulsuosilenzio, sullosfondo
dell’altare. Sapevo che era in costante
dialogo con Dio. Ma non
avevo mai sentito prima di allora
quanto fosse reale la sua intimità
con lui. Sprigionava una forza di attrazione
cui non si poteva resistere.
Assorbiva anche le nostre modeste
preghiere nella sua”.
Fuperchécredevanellaforzaanche
politica della preghiera che
riunìadAssisinel1986ilprimosummit
delle religioni mondiali per la
pace. Gorbaciovlohadichiarato: ad
abbattere il Muro furono anche le
sue preghiere. ”Una mano ha sparato,
un’altrahadeviatoilcolpo” era
lasuaspiegazionedell’attentatodel
13 maggio 1981, festa della Madonna
di Fatima. E niente provava
quanto la realtà trascendente fosse
per lui chiave della storia e crocevia
necessariodellapoliticacomeladecisione
di andare a Fatima un anno
dopolosparodiAgcaaconficcarela
pallottola nel diadema della statua
dellaVergine. Masiassicuracheprima
dell’attentato egli non sapeva
quasinulladel“terzosegreto”, sene
fece portare le carte all’ospedale e
solo allora comprese il senso profetico
di quell’evento.


JOAQUÍN NAVARRO-VALLS

LA BEATIFICAZIONE
di Giovanni Paolo II ,
ci dicono, potrebbe
essere addirittura
nell’autunno del
prossimo anno, anche se non è
ancora certo. Non posso dire
che mi abbia colpito la notizia
del procedere spedito dell’iter
previsto. Cardinali e teologi
della Congregazione per le cause
dei santi hanno aperto il passo
per il decreto sulle virtù eroiche
di Karol Wojtyla. E questa
tappa rilevante mi fa tornare alla
mente i tanti anni in cui ho
avuto la possibilità di vedere da
vicino il modo d’essere e di fare
di Giovanni Paolo II, e di poter
toccare con mano quello che
adesso sarà sanzionato come
santità. Certamente, delle sue
virtù sapremo qualcosa di
esauriente quando usciranno
gli atti nella loro interezza, e potremo
leggere così il resoconto
delle testimonianze. Ma il ricordo
personale, inevitabilmente
parziale e soggettivo, si accompagna
talmente tanto alle notizie
relative ai talenti intellettuali
e morali che ho visto presenti
nella persona, che mi pare quasi
impossibile non parlarne.
La ricostruzione delle virtù di
Giovanni Paolo II apre la domanda
fondamentale su che
cosa sia stata in lui la santità. È
una domanda legittima, perché
non esiste santità in generale.
Non esiste una santità cioè senza
la singolarità di ogni santo, e
senza le virtù normali e visibili
attribuibili a qualcuno. Il carattere
individuale si mescola al
lento lavoro di raffinamento
che si compie in lui per tutta la
vita, fino a costituire un capolavoro
concreto ed esemplare, a
noi non sempre del tutto chiaro
e decifrabile.

La risposta specifica alla
domanda relativa alla
santità di Giovanni Paolo
II direi che non si allontana
molto dell’idea che la gente si
è formata di lui. Karol Wojtyla era
nel privato esattamente come lo
si vedeva in pubblico: un uomo
innamorato, un cristiano che
guardava oltre se stesso. Perciò,
non è difficile argomentare in
suo favore.
La sua peculiarità personale appariva
principalmente nel suo
rapporto diretto con Dio. Per questo
la sua spiritualità era attraente
e magnetica, quasi normalmente
apostolica e costantemente convincente.
Sia che soffrisse e sia che
ridesse — e delle due cose era
ugualmente maestro ed allievo eccellente
— egli non aveva un rapporto
speculativo con una divinità
distante e trascendente. Nella sua
giornata stare con Dio era la più
grande passione, la più intensa
priorità e, insieme, la cosa più normale
del mondo. Come affermava
già San Giovanni della Croce —
non a caso autore da lui sempre
molto apprezzato — la relazione
tra Dio e l’anima è quella di due
amanti.
Dio non è un codice in cui esprimere
una credenza, ma una Persona
a cui credere, in cui sperare e
con cui vivere un amore intenso,
fedele, reciproco, per tutta la vita.
A Dio si può affidare la propria esistenza.
Ad un codice morale neanche
una giornata. Questa straordinaria
concretezza, congeniale al
suo modo d’essere molto diretto
ed immediato, è la vera essenza
della sua religiosità cristiana, della
sua santità di vita. L’architrave
del castello era la vita ordinaria, interamente
inserita in Dio e intensamente
scandita dalla presenza
di Dio. Operativa e orante, sotto il
medesimo riguardo.
In Wojtyla non vi era la minima
manifestazione di manierismo e
di retorica pseudo mistica. Non
c’erano nelle sue devozioni altro
che il rigore della carità, la dedizione
consapevole e partecipe della
persona a quanto conta veramente
per lei. A Giovanni Paolo II non
premeva apparire buono. Forse
avrebbe preferito — se si può parlare
così, cosa di cui non sono del
tutto sicuro — non esserlo piuttosto
che fingere. Benché sapesse di
essere osservato dal mondo, il suo
impegno costante era aprire tutto
il suo cuore alle richieste che venivano
direttamente da Dio. Come
ha spiegato Sant’Agostino nel De
magistro«colui che viene chiamato
e che insegna è Cristo che abita
nell’uomo interiore». In Wojtyla
questa sicurezza non è mai venuta
meno nelle tante difficoltà — e
nelle tante gioie — che si è trovato
ad affrontare.
Credo di aver capito realmente
quale debba essere il rapporto cristiano
con Gesù, quando ho visto
il modo in cui egli si rivolgeva al
Crocifisso, nella concreta sicurezza
di un guardarsi spirituale reciproco.
Dio non era per lui l’autore
distaccato di un’anima estranea e
indifferente, ma una Persona che
ha creato la propria persona —
quella di Giovanni Paolo II; una
Persona con cui poter parlare personalmente
e a cui dire perfino
«Alle volte non ti capisco!». Una
Persona, però, da cui non potersi
— né volersi — separare, perché
legata da un rapporto più intimo
con l’anima di quello che ciascuno
ha con se stesso.
Una volta, credendo di essere
solo nella sua cappella, l’ho visto
cantare mentre fissava lo sguardo
sul Tabernacolo. Non intonava,
certamente, un tema liturgico, ma
stornellava in polacco canzoni popolari.
Mi è venuto in mente di
nuovo Sant’Agostino, il quale affermava
che «cantare è pregare
due volte».
Nonostante tutto, non voglio
assolutamente dire che vi fosse
dell’ingenuità o, peggio ancora,
della ritualità banale nel rapportarsi
con tale spontaneità a Dio.
Semmai, vi era concretezza e coinvolgimento
anche sentimentale
nella sua devozione. Mi sembrava
— almeno questo veniva alla mia
mente — che in lui trasparissero,
al contempo, la ricchezza intellettuale
di un teologo e l’innocenza
spontanea di un bambino. Queste
due dimensioni non erano due
tappe distinte di un diverso cammino,
ma un’unica melodia composta
da suoni diversi armoniosamente
fusi in un solo atteggiamento
e in una sola espressione di
amore.
Un lato peculiare del suo atteggiamento
spirituale mi ha sempre
colpito. Giovanni Paolo II non era
un ascetico moralista, e neanche
un esibizionista di eroismi accessori
e inutili. Il suo modo di fare
non era l’arduo itinerario apatico
di uno stoico. Le sue mortificazioni
erano solo il modo stimolante
ed efficace di unirsi alla passione
di Gesù, di partecipare insieme a
Lui alle gioie e ai dolori che chiunque
ama condividere con la persona
che seriamente ama nel
profondo. La sua accortezza sembrava
insegnare che è meglio soffrire
con Dio che rallegrarsi da solo.
Molto spesso per Giovanni
Paolo II si trattava soltanto di profittare
di qualche occasione offerta
dalle vicende quotidiane per offrire
a Dio qualche piccolo o grande
sacrificio. Rifiutare in aereo il
letto preparato per lui nei lunghi
viaggi intercontinentali, e dormire
invece sul sedile; diminuire il cibo
di un pasto, con apparente
noncuranza. Oppure, talvolta, rinunciare
a bere senza dir nulla e
senza dare giustificazioni, unendo
pudore e rinuncia in una delicata
discrezione personale, che
evita strane domande impertinenti.
Il fine di tutte queste accortezze
sensibili era garantire alla sua anima
la perfetta unione con Cristo,
la totale disponibilità ad ascoltare
il richiamo interiore di Dio, assecondandone
la volontà in piena libertà.
Mi è capitato, in qualche rara
occasione, di trovarlo perfino disteso
per terra a pregare. Bastava
guardarlo per capire che non vi era
un annichilimento di se stesso davanti
all’infinita maestà del Creatore,
ma il forgiarsi di una sottile
analogia, con la quale la grandezza
della creatura diveniva tutt’uno
con Dio mentre la miseria della
creatura pure si univa al Creatore.
Se Egli mi si avvicina e si apre a me
— sembrava dire la sua vita — è
perché io possa rivolgermi a lui allo
stesso modo e con la stessa confidenza.
Ecco, in Giovanni paolo II l’amore
per Dio aveva questo volto
nitido, estremamente consueto
ed estremamente inconsueto al
tempo stesso. Uno sguardo penetrante
e profondamente cristiano,
regolarmente saturo di santità.

La Repubblica 19 Novembre 2009 di Joaquìn Navarro-Valls - Giancarlo Zizola