"Dio ha abbandonato la gloria ed è venuto a me. / Ha vissuto con gli esseri insignificanti come me. / Per me, e in vece mia, si è rassegnato / a prendere su di sé vergogna e umiliazioni. / Essere oggetto di attenzioni simili! / Chi sono io? / Per me il Re è morto versando il suo sangue. / Chi sono io? / Egli ha pregato per me". No, non è un autore spirituale all'origine di queste righe dedicate al tema teologico dell'Incarnazione. Sorprenderà un po' tutti, ma questi sono i versi della canzone Chi sono io? di un mito (non solo americano) del rock'n roll, Elvis Presley, morto come è noto da più di trent'anni, eppure sempre celebrato, amato e fin idolatrato. Non si deve, infatti, dimenticare che il suo tessuto testuale-musicale non intrecciava solo trasgressione e convenzione, esasperazione e stereotipi, protesta e perbenismo, ma anche contaminava il country bianco col rythm and blues nero, i cui temi e motivi avevano spesso echi spirituali. Dopo tutto, recentemente un saggio di Andrea Morandi dedicato agli U2 (In the name of love, Milano, Arcana, 2009, pagine 652, euro 22,00) ha dimostrato l'ibridazione di molti testi biblici (soprattutto salmici) nei testi di questo gruppo irlandese. Scriveva, a proposito, questo critico musicale: "Per Bono (il loro famoso leader) Davide è la prima popstar e i Salmi i primi blues. Lo stesso Bono sembra quasi identificarsi con lui. Davide ha un rapporto difficile con Dio, i suoi sono canti di lode e di lamento, così come molti salmi rock degli U2".
Ma ritorniamo al testo dell'ancor più celebre autore di Heartbreak Hotel, cioè a Presley. Il Cristo che egli canta è delineato quasi sulla base del mirabile inno paolino della Lettera ai Filippesi, un brano che oscilla tra Incarnazione e Glorificazione pasquale. Citiamo solo quanto riguarda la cosiddetta kènosis, quello "svuotamento" che ha il suo abisso non solo nella nascita secondo la carne, ma soprattutto nella morte del Figlio di Dio: "Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (2, 6-8).
Presley dice un po' le stesse cose in modo più popolare e immediato e rivela un'eco di quella fede in cui era stato allevato. Nascendo in mezzo a noi, in una provincia sperduta dell'impero romano, Cristo abbandona la sua gloria per entrare nel nostro orizzonte segnato dall'infelicità, assumendo su di sé la nostra vergogna. Si fa compagno delle nostre lacrime ed è pronto a sacrificarsi per noi. È curioso notare che la scrittrice contemporanea giapponese, Ayako Sono, ha introdotto la canzone di Presley nel suo romanzo Le mani sporche di Dio, nel quale si descrive un quadro che raffigura Gesù col volto divino aureolato di luce, ma con le mani rozze e screpolate di un contadino che lavora la terra. Con questa evocazione del popolare e mitizzato cantante americano, abbiamo voluto aprire un nostro libero e semplificato viaggio, in pochissime tappe, all'interno di un ideale Natale "orante". Cercheremo, cioè, non di ricorrere a testi sacri connessi col mistero centrale dell'Incarnazione (tra l'altro, i citati U2 hanno rimandato nel loro brano Magnificent al cantico di Maria, il Magnificat) e neppure alle infinite riletture letterarie del Natale, spesso raccolte nelle varie antologie "Natale dei poeti", "Natale d'autore" e così via.
Vorremmo, invece, offrire una piccola e un po' casuale selezione di invocazioni non sentimentali o retoriche - questo è, infatti, sovente il rischio del genere natalizio (lo diceva persino Moravia comparando il Natale attuale a un'anfora antica fatta emergere dal mare e piena di incrostazioni, quelle appunto del consumismo e dell'enfasi devozionale) - invocazioni rivolte al "Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nelle umane tenebre", come scriveva Ungaretti nella sua famosa, dolcissima lirica orante presente nella raccolta Il dolore. Partiamo, allora, dal Seicento inglese con uno dei massimi poeti di quell'epoca, l'autore del Paradiso perduto, John Milton. È dalla sua Ode alla natività del Signore che traiamo una strofa. I lettori sentiranno in questa poesia spirituale l'eco di un salmo che la liturgia cristiana usa proprio in chiave natalizia. Lasciamoci condurre dai versi del poeta inglese: "Sì, allora fedeltà e Giustizia / ritorneranno verso gli uomini, / avvolte in un arcobaleno. / Gloriosamente vestita, la Bontà si siederà nel mezzo, / poggiando sul trono di un lampo celeste / e raccogliendo ai suoi piedi scintillanti / un tessuto di nubi. / E il cielo, come per una festa, o Signore, / spalancherà completamente le porte / del tuo grande palazzo". Il fedele sente la necessità che nel suo Natale Gesù ritorni con il corteo di virtù dipinto dal poeta. C'è, infatti, bisogno della Fedeltà e della Giustizia come abitanti del nostro pianeta, ove le ingiustizie e i tradimenti trionfano. È necessario che la Bontà prenda residenza nelle nostre città crudeli e indifferenti al gemito dei poveri. Dicevamo sopra che Milton allude a un salmo. È l'85 che canta così: "Fedeltà e Verità allora si abbracceranno, / Giustizia e Pace si baceranno. / Dalla terra germoglierà la Verità, / dal cielo si affaccerà la Giustizia".
La tradizione ha collocato la nascita di Gesù nella notte sulla base di una libera lettura di un passo del libro della Sapienza: "Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, si slanciò in mezzo alla terra" (18, 14-15). Solo che il passo continuava descrivendo quella parola come "un guerriero implacabile che reggeva, simile a spada affilata, il tuo ordine inesorabile: fermatasi, riempì tutto di morte" (18, 15-16). Si trattava, infatti, dell'angelo sterminatore dei primogeniti egizi nella notte pasquale. Il contrasto "tenebra-luce" è comunque rimasto per definire il Natale ed è valido più che per ragioni cronologiche (i Vangeli non dicono nulla riguardo a una nascita notturna di Gesù) per motivi spirituali, come ci ricorda Giovanni nel prologo al suo Vangelo: "La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno sopraffatta" (si può tradurre anche: "ma le tenebre non l'hanno compresa"). Sul tema ritorniamo con una breve meditazione orante di un importante filosofo irlandese del IX secolo, Giovanni Scoto Eriugena. La desumiamo dalle sue riflessioni sulle gerarchie celesti, che prendevano spunto da un anonimo teologo cristiano del V-VI secolo noto con lo pseudonimo di Dionigi Areopagita: "La luce divina appare nella notte divina, notte che sboccia quando tramontano le luci del mondo. Nella luce divina il chiarore della terra si fa tenebra, il grande si fa piccolo, l'umano diventa Dio, l'ignoto è svelato. La luce divina è amore della sapienza celeste; fissando in essa lo sguardo, Dio si rivela". Il suggerimento implicito è quello che la tradizione cristiana spesso idealmente ripete per rendere più autentica la liturgia: spegniamo le luci materiali, ignoriamo i festoni delle luminarie, cerchiamo invece quella luce che s'accende nella contemplazione di Cristo, luce del mondo, per essere rischiarati nel cammino della vita. Alle soglie del Natale si accendono, infatti, le luminarie della pubblicità commerciale, si riscaldano i buoni sentimenti, si mobilita la retorica di una vaga spiritualità che si alimenta di pastorali, di presepi, di abeti e di neve. Eppure è possibile celebrare il Natale del Signore con tenerezza, pur nella sobrietà e nel rigore che il mistero cristiano dell'Incarnazione esige. Ci aiuta una preghiera-poesia entrata nell'innologia popolare tedesca. Il titolo è generico, Da cantare ogni giorno, l'autore è un poeta molto noto in Germania anche per certe canzoni folcloristiche come Il vino del Reno, quel Matthias Claudius (1740-1815), che si firmava con lo pseudonimo di Asmus. Tra l'altro, una delle sue liriche più famose, La morte e la fanciulla, fu messa in musica da Franz Schubert.
"Io ti ringrazio e mi rallegro, Signore, / come un fanciullo, del dono del Natale, / poiché io esisto, io esisto! / E poiché ho te, bel volto umano, / e il sole, il monte e il mare, / le fronde e l'erba posso vedere, / e di sera camminare / sotto l'esercito delle stelle e la cara luna; / e poiché mi sento felice / come quando, fanciulli, venivamo / e vedevamo ciò che il santo / Cristo ci aveva donato. Amen". Senza alte pretese letterarie, questo breve inno ci ricorda il dono della vita che nel Natale è emblematicamente rappresentato, ma anche la bellezza di esistere in questo mondo ricco di meraviglie. A Dio chiede di conservarci quel cuore di fanciullo che sa ancora stupirsi, come quando sgranavamo gli occhi di fronte ai doni natalizi. Senza enfasi o svenevolezze, è forse necessario ritrovare la purezza e la semplicità dei sentimenti. C'è, infatti, anche una "preghiera del cuore" nella tradizione spirituale. Essa non è melassa sentimentale, ma sincerità e limpidità dell'anima che si apre a Dio. Come diceva un santo monaco del Sinai, il mistico Gregorio, nato attorno al 1255 e morto nel 1347, "solo la preghiera che sgorga dal profondo del cuore è fonte di ogni bene e irriga l'anima come un giardino". E nella Regola dei certosini, i monaci dall'osservanza più severa e rigorosa, si legge l'appello ad "abituarsi all'ascolto tranquillo del cuore, che permette a Dio di penetrarvi attraverso tutte le vie e tutti i percorsi".
Il famoso drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, nonostante il professato ateismo, in una sua poesia immaginava una famiglia di povera gente che in una stamberga attende il Natale. Ebbene, essi aspettano veramente Cristo perché, faceva dire loro Brecht, "tu ci sei veramente necessario". Al di là dei luoghi comuni, il Natale dovrebbe essere soprattutto la celebrazione della fraternità operosa tra gli uomini. Il Cristo che entra nella storia non è quello glorioso delle icone e delle absidi, ma il figlio di una famiglia misera, persino perseguitata e profuga, simile a quella di tanti clandestini o migranti dei nostri giorni. Pietro di Celle, nato attorno al 1147, divenuto monaco benedettino e vescovo, e morto a Chartres nel 1183, ci offre in un suo sermone una semplice e intensa invocazione a Gesù, che viene a noi non nella pompa trionfale, ma nella semplicità che non umilia e non allontana nessuno, anzi tutti attrae a sé: "Vieni Gesù, nell'umiltà delle fasce e non nella grandezza, nella mangiatoia e non sulle nubi del cielo, fra le braccia di tua madre e non sul trono della maestà, sull'asina e non sui cherubini. Vieni verso di noi e non contro di noi, per salvare e non per giudicare, per visitare nella pace e non per condannare nell'ira. Se vieni così, Gesù, invece di sfuggirti, noi fuggiremo verso di te".
È un Dio bambino che non respinge, quello del Natale. È un Dio che si pone al livello ultimo degli uomini per poter accogliere tutti. È un Dio che entra nella nostra carne così fragile, simile all'"erba che germoglia al mattino: all'alba fiorisce, germoglia e a sera è falciata e dissecca" (Salmi, 90, 5-6). Per questo il Natale deve spogliarsi dell'enfasi, dell'eccezionalità, per essere la celebrazione della quotidianità e della semplicità. Il vescovo e scrittore francese François de Fénelon (1651-1715) in una sua meditazione natalizia affermava: "Ho bisogno della semplicità dei bambini. Mentre il Verbo incarnato, la Parola onnipotente del Padre tace, vagisce, piange e geme, posso io continuare a compiacermi dell'elucubrazione del mio spirito e a soffrire se questo mondo non ha un'idea abbastanza alta delle mie capacità? Ho scelto di essere nel silenzio e nell'oscurità per unirmi all'impotenza e ai vagiti del bambino Gesù".
A conclusione di questa piccola e libera antologia di testi oranti natalizi, vorrei porre le parole di uno scrittore più vicino ai nostri giorni che conobbi in vita e del quale celebrai l'addio funebre a Milano nel 2007, pochi giorni prima che io abbandonassi quella città per Roma. Si tratta di Raffaele Crovi, nato nell'hinterland milanese nel 1934 e radicato nella metropoli lombarda ove fu anche una presenza attiva in ambito editoriale. Una sua raccolta poetica è intitolata appunto L'utopia del Natale (1982) e da essa estraiamo questi versi che hanno il sapore antico di una litania, le cui invocazioni sono però moderne e vicine a noi: "A Natale, cometa dei desideri, / a Natale, culla di sogni e di pensieri, / a Natale, di poesia capoverso, / tu nasci e rinasci, Cristo, diverso. / Tu sei la povertà e la carità, / tu sei la legge e la violazione, / tu sei la forza e l'umiltà, / sei la realtà e l'immaginazione. / Nel mondo destinato a finire / tu solo hai saputo unire / il rinascere e il morire".
Come si è detto, sappiamo bene quanto sia facile "incartare" il Natale in una confezione-regalo, con un po' di lustrini, stelline e bacche. Certo, questa data è anche una "culla di sogni" e di desideri, di fantasia e di tenerezza. Ma il cuore deve battere altrove. Ci conduce ove c'è povertà, ci ricorda la carità, ci richiama alla libertà, ci obbliga all'impegno, ci chiede umiltà, esige coraggio, ci invita al cielo, ma ci costringe alla terra, ci offre speranza, ma ci impone la fedeltà. In questa serie di poli ultimi corre il filo luminoso del Natale. Esso, però, è sospeso soprattutto tra due altri estremi, Betlemme e il Calvario, tra il nascere e il morire di Cristo che viene in mezzo a noi diventando uno di noi. Ma il suo nascere è per noi un rinascere e il suo morire un risorgere. Per questo le Chiese d'Oriente considerano il Natale una festa pasquale. Non è solo la dolce memoria della nascita di un Bambino, è la celebrazione della rinascita dell'umanità che "geme interiormente aspettando l'adozione a figli e la redenzione del nostro corpo" (Romani, 8, 23).
Fermiamoci, allora, qui in questo nostro itinerario nel vasto orizzonte delle invocazioni rivolte al Bambino di Betlemme. Chi desidera, invece, uscire dal genere da noi adottato ed entrare nella sterminata letteratura "natalizia" dovrà solo confrontarsi con l'imbarazzo della scelta. Ci permettiamo, però, un consiglio tra i mille possibili, quello di riprendere tra le mani due deliziosi e intensi racconti. Il primo è il bellissimo e popolare Christmas Carol ("Canto di Natale) pubblicato da Charles Dickens nel 1843, e recentemente riproposto in versione cinematografica dalla Disney con la regia di Robert Zemeckis, con l'emozionante conversione "natalizia" del vecchio avaro Scrooge; l'altro è il meno noto ma altrettanto intenso Il dono dei Magi dell'americano O. Henry, pseudonimo di William S. Porter (1862-1910), breve storia di una coppia povera che si scambia un dono "sorprendentemente" inutile, ma straordinariamente emblematico del loro vero amore. Sì, perché il Natale non è una metafora spirituale, ma un segno efficace di grazia e di amore. Il filosofo Ludwig Wittgenstein nei suoi quaderni annotava: "Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo". Un evento che sommuove e feconda il terreno arido della storia.
(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2009)