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Uno sguardo profetico sugli eventi

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"Maria, lo sai?". La canzone di Natale che accende il web: Pentatonix canta la Vergine Maria


Ammetto che non avevo mai sentito parlare del quintetto Pentatonix . Ora so che sono texani, che hanno vinto la terza stagione di The Sing-Off , NBC, e un premio su YouTube Music Awards. Sono informazioni essenziali in margine al successo incredibile degli oltre 9 milioni di persone hanno visto il video del loro favoloso canto di Natale. Come si può intuire, un successo virale clamoroso.

Il testo della canzone (composto nel 1984 da un compositore protestante, commissionato da un pastore per un gioco) è un bel pezzo lirico con domande alla Madre di Dio, la Vergine Maria. Non è la prima volta che qualcuno la interpreta, ma la prima che qualcuno lo fa così bene, a cappella, e con tale successo clamoroso (il video è stato caricato il 11 novembre e il 23 ha aggiunto esattamente 9.334.518 visualizzazioni). Il video è questo 






¿María sabías?

María, ¿sabías que tu bebé caminaría un día sobre el agua?
María, ¿sabías que tu bebé salvaría a nuestros hijos e hijas?
¿Sabías que tu bebé vino para hacerte nueva?
¿Que ese niño que tú diste a luz, pronto te traería a la luz? 
María, ¿sabías que tu bebé dará la vista a un hombre ciego?
María, ¿sabías que tu bebé calmará una tormenta con su mano?
¿Sabías que tu bebé ha caminado por donde los ángeles pisaron?
¿Que cuando besabas a tu pequeño niño besabas el rostro de Dios? 


¿María, sabías? ¿María, sabías?

Los ciegos verán, los sordos oirán,
los muertos volverán a vivir,
los paralíticos saltarán,
los mudos hablarán las alabanzas del Cordero.

María, ¿sabías que tu bebé es el Señor de toda la creación?
María, ¿sabías que tu bebé gobernará un día las naciones?
¿Sabías que tu bebé es el Cordero Perfecto del cielo?
¿Que el Niño dormido que sostienes es el Gran YO SOY?


L'attualità del canto gregoriano Melodiare pallido e assorto

di Alberto Turco

La definizione esatta del gregoriano, estendibile ovviamente anche agli altri repertori liturgici antichi dell'Occidente, come l'ambrosiano, è quella di "monodia della Parola rituale".
Il gregoriano è, anzitutto, una monodia legata inscindibilmente a dei testi; nello specifico a testi latini in prosa, desunti, per la maggior parte, dalla Bibbia, specialmente dal libro dei Salmi. Un "canto", dunque, e non "musica" o "melodia pura"; un canto rituale, quello "proprio" della liturgia della Chiesa romana, che ha la qualità primaria di essere preghiera, sia quando si fa annuncio della Parola di Dio nella proclamazione delle letture o azione di grazie nella solenne preghiera eucaristica, sia quando diventa voce orante della comunità ecclesiale, che sente l'anelito di dialogare con Dio, per manifestargli l'ossequio della riconoscenza e per implorare da lui la benedizione.
Al gregoriano va riconosciuta una profonda religiosità: fino a oggi, è il solo canto che abbia incarnato lo spirito più genuino della fede cristiana occidentale, frutto di una matura esperienza di comunicazione con la divinità e di pratica corale. Per queste due ragioni fondamentali e peculiari, la Chiesa cattolica ha sempre dichiarato come suo canto proprio la monodia gregoriana.
Una delle disposizioni innovatrici del concilio Vaticano ii in materia liturgica è stata l'ammissione delle lingue vive e parlate nelle celebrazioni. In seguito a ciò, il gregoriano, per il fatto di essere strettamente legato al testo latino, ha subito una forte recessione, nonostante che, nello spirito della costituzione conciliare, il latino sia considerato la lingua ufficiale della liturgia: "l'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum concilium, 36).
Nell'istruzione Musicam sacram della Congregazione dei Riti (1967), per l'applicazione delle norme conciliari, si fa presente che "nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina: a) Al canto gregoriano, come canto proprio della liturgia romana, si riservi, a parità di condizioni, il primo posto. Le melodie esistenti nelle edizioni tipiche si usino nel modo più opportuno. b) Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici ad uso delle chiese minori. c) Le composizioni musicali di altro genere, a una o più voci, appartenenti al patrimonio tradizionale, o contemporanee, siano tenute in onore, si incrementino e si eseguiscano secondo le possibilità". E ancora, nella costituzione conciliare sulla liturgia si afferma che: "per conservare il patrimonio della musica sacra e per favorire debitamente le nuove forme del canto sacro "si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati e negli studentati dei Religiosi e delle Religiose, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche" (Sacrosanctum concilium, 115), specialmente presso gli Istituti superiori creati a questo scopo". Pertanto, "si incrementi prima di tutto lo studio e l'uso del canto gregoriano che, per le sue caratteristiche, è una base importante nella educazione alla musica sacra" (Musicam sacram, 52).
L'introduzione delle lingue vive e parlate non è da valutare negativamente a causa dei riflessi che ha avuto sul canto gregoriano. È giusto che epoche e culture diverse contribuiscano alla realizzazione di repertori liturgici, come è stato per il passato. Inoltre, bisogna ricordare che una buona parte del repertorio gregoriano non è stata composta per una qualsiasi assemblea liturgica, ma per gruppi specialistici, come la schola e le comunità monastiche. L'aver preteso, in questi ultimi decenni, di affidare a tutti l'esecuzione del Graduale Romanum, ha portato a delle realizzazioni poco edificanti sul piano culturale e religioso.
Per evitare il ripetersi di tale inconveniente la Chiesa ha provveduto, coerentemente alle disposizioni conciliari, all'edizione del Kyriale simplex e del Graduale simplex, in sostituzione del Graduale Romanum: "Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese minori" (Sacrosanctum concilium, 117). Con tali disposizioni si è provveduto efficacemente alla valorizzazione del canto gregoriano: a ogni assemblea viene offerta, senza alcuna imposizione, la possibilità di accedere a un repertorio rispondente alle proprie capacità interpretative.
Al di là delle considerazioni di carattere liturgico-pastorale, nessuno mette in discussione il fatto culturale rappresentato dal gregoriano. Esso costituisce un monumento e un patrimonio di inestimabile valore. Centinaia di manoscritti, sparsi nelle principali biblioteche d'Europa, sono i depositari quasi esclusivi della primitiva notazione musicale. Migliaia di testi latini, da quelli creati per ornare le forme musicali del repertorio classico, fino a quelli dei tropi, delle sequenze e degli inni, formano una tale eredità culturale che la storia della letteratura classica latina non conosce. Monumento e patrimonio di inestimabile valore, il canto gregoriano ha maturato l'espressione artistica più genuina della cultura musicale europea.
La perfetta simbiosi fra testo e melodia, espressa dall'ornamentazione dei vari generi melodici, la tecnica ritmica desunta dall'articolazione delle sillabe nel contesto della parola e della frase, e il melodiare ricco e possente, semplice e naturale attraverso i meandri di molteplici strutture modali, offrono una sintesi creativa raffinata e affascinante del gregoriano, frutto di esperienza religiosa e di maturità artistica. E, a mettere in luce questi aspetti fondamentali del gregoriano, hanno contribuito, in modo determinante, in questi ultimi decenni, gli studi improntati alle scienze della semiologia e della modalità.


(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)

ROCK AROUND THE POPE. Prima i Beatles, poi Springsteen, M. Jackson, gli U2 e Guccini L’imprevedibile compilation vaticana dello “Sdoganatore Romano"

di Paolo Rodari
Non è colpa soltanto del fatto che
essendo l’Osservatore Romano
un giornale di idee e che predilige il
dibattito delle idee – così lo vuole il
direttore Gian Maria Vian in scia ad
auspici espressi tempo addietro da
uno che di giornalismo ci capiva parecchio,
ovvero Papa Paolo VI, figlio
di Giorgio Montini, direttore del Cittadino
di Brescia – la musica pop ha sul
giornale vaticano un posto di rilievo.
E’ anche colpa, se di colpa si può parlare,
dei cronisti che Vian ha in redazione
se ogni tanto il quotidiano del
Pontefice che ama Mozart, Bach,
Beethoven, Palestrina, Berlioz, Händel
e Liszt, sdogana, critica, boccia e
riabilita ora questo ora quel cantante
della musica contemporanea.
C’è Marcello Filotei, giornalista e
insieme compositore, che vanta una
conoscenza musicale variegata tanto
che in via del Pellegrino dov’è la sede
del giornale lo chiamano “il maestro”.
Filotei, tra l’altro, è un raffinato
conoscitore di musica elettronica,
il sogno futurista di anticipare i rumori.
Ci sono il segretario di redazione
Gaetano Vallini e il capo del servizio
internazionale Giuseppe Fiorentino
che sono appassionati di musica poprock.
C’è il vicedirettore Carlo Di Cicco
che pur prediligendo la classica
ama il rock ma anche Fabrizio De André.
Poi, certo, ci sono gusti più sobri
come quelli dell’assistente alla direzione
Marilia D’Addio che predilige
la lirica. E, infine, quelli decisamente
più eclettici come sono le passioni
musicali di Vian il quale, come disse
lui stesso in un’intervista rilasciata
più di un anno fa, spazia “dal gregoriano
a Peppino Di Capri, da Frank
Sinatra ai Blues Brothers, polifonia e
oratori barocchi compresi”.
Cos’è la musica? Quell’arte normale
che coglie verità attraverso la bellezza,
disse Benedetto XVI il 10 agosto
del 2008 incontrando il clero a
Bressanone. E l’Osservatore, quest’arte,
la scandaglia in lungo e in largo incurante
di quei mugugni che inevitabilmente
riecheggiano tra le mura
della curia romana quando sotto un
pezzo che rende noto un discorso del
Papa ce n’è un altro che informa del
valore musicale di una stella del rock.
L’infatuazione principale dell’Osservatore
è per i Beatles. Lo si è capito da
più indizi. Nel novembre 2008 il quotidiano
vaticano dedica un pezzo a John
Lennon, di fatto assolvendolo per
quella frase pronunciata quarant’anni
prima: “I Beatles sono più famosi di
Gesù Cristo”. E successivamente, lo
scorso 10 aprile, in occasione del quarantennale
dello scioglimento della
band, sono Vallini e Fiorentino a tornare
sul tema rilevando il “fiuto” epocale
della band inglese. L’Osservatore
ripercorre “i sette anni che sconvolsero
la musica” mettendo in pagina un
notevole repechage. Perché i Fab four
non hanno pari. “Le loro bellissime
melodie hanno cambiato per sempre
la musica leggera e continuano a regalare
emozioni”. Dopo di loro, “musicalmente,
nulla è più stato come prima”.
E ancora: “E’ vero, hanno assunto sostanze
stupefacenti; travolti dal successo
hanno vissuto anni scapestrati e
disinibiti; in un eccesso di spacconeria
hanno detto persino di essere più famosi
di Gesù; non sono stati il migliore
esempio per i giovani del tempo, ma
neppure il peggiore”. E poi “ascoltando
le loro canzoni tutto questo appare
lontano e insignificante. A quarant’anni
dal turbolento scioglimento restano
come gioielli preziosi le loro bellissime
melodie che hanno cambiato per
sempre la musica leggera e continuano
a regalare emozioni”. E poi il finale
agiografico: “Attraverso la loro musica
quei quattro ragazzi di Liverpool,
splendidi e imperfetti, sono stati capaci
di leggere e di esprimere i segni di
un’epoca che a tratti hanno persino indirizzato,
imprimendovi un marchio
indelebile. Un marchio che segna lo
spartiacque tra un prima e un dopo. E
dopo, musicalmente, nulla è più stato
come prima”.
Parole importanti. Una dichiarazione
d’amore in piena regola. Che
però non viene corrisposta. “Ha saputo
che l’Osservatore Romano vi ha riabilitati?”
chiede un giornalista della
Cnn al batterista dei Beatles, Richard
Starkey, in arte Ringo Starr. “I
couldn’t care less”, e cioè “non me ne
potrebbe fregare di meno” risponde
Ringo. “Ma come?” dice il batterista.
“Eravamo satanici e adesso ci perdonano?
Credo che la Santa Sede abbia
altre cose di cui parlare”. Ma l’Osservatore
non si dà per vinto e spiega
che in realtà il suo giornale non ha
riabilitato nessuno. Già nel 1966 l’Osservatore
dedicò un pezzo ai Beatles
i quali, per primi, spiegarono che dicendo
d’essere più famosi di Cristo
intendevano soltanto deplorare l’atteggiamento
della gente nei confronti
del cristianesimo. “Non ho mai detto
che i Beatles siano migliori di Dio o
di Gesù”, disse Lennon.
Quanto a satana, Ringo Starr non
ha tutti i torti. Già nel 2000 Joseph
Ratzinger parlava della musica rock
e pop, i cui raduni sono sostanzialmente
“pratiche di redenzione la cui
forma è apparentata a quella della
droga e che sono fondamentalmente
opposte alla fede cristiana nella redenzione”.
“Perciò è coerente con
tutto ciò – diceva Ratzinger – che ora
in quest’ambito dilaghino sempre più
anche culti satanici e musiche sataniche,
la cui potenza pericolosa, in
quanto scientemente finalizzata alla
rovina e alla distruzione della persona,
non è ancora presa sufficientemente
sul serio”.
Oltre ai Beatles, anche Bruce
Springsteen e la sua E Street Band. E’
il luglio del 2009. The Boss è a Roma
per un concerto. L’Osservatore lo segue.
Manda i suoi cronisti ad assistere
alla performance: “Tra badlands e
terra promessa in scena l’essenza del
rock” è il titolo che il quotidiano decide
di dedicare al pezzo. I concerti di
Springsteen sono “una garanzia” che
“difficilmente lascia delusi” si legge
nell’articolo. Il concerto del cantante
statunitense sono “tre ore di buon
rock, con la grinta e la bravura di
sempre”. E ancora: “La carica che
riesce a trasmettere, nonostante i
quasi sessant’anni, è pari alle emozioni
che la musica e i testi comunicano”.
E giù elogi. Ammiccamenti che
sembrano lontani dalle parole che
ancora il cardinale Ratzinger disse
nel 1996: il rock “è espressione di passioni
elementari, che nei grandi raduni
di musica hanno assunto caratteri
cultuali, cioè di controculto, che si oppone
al culto cristiano”.
La riabilitazione più impegnativa
dell’Osservatore è stata probabilmente
quella di Michael Jackson. La vita
sregolata e piena di eccessi dell’autore
di “Thriller” non scalfisce il riconoscimento
artistico che l’Osservatore
vuole tributargli. “'Ma sarà morto
davvero?” si chiede il quotidiano della
Santa Sede lo scorso giugno. E ancora:
“Ci sarebbe poco da stupirsi se
tra qualche anno venisse riconosciuto
in una stazione di servizio di
Memphis, magari assieme all’ex suocero
Elvis Presley, un altro di quei
miti che, come Janis Joplin, Jim Morrison,
Jimi Hendrix o John Lennon,
non muoiono mai nell’immaginazione
dei loro fan. E un mito del pop è
sicuramente Michael Jackson, morto
ieri all’età di cinquant’anni”. L’articolo
fa il giro del mondo. E arriva sulle
scrivanie dei principali attori neoconservatori
americani. Tra questi il
direttore di “Crisis” Deal Hudson
che commenta l’articolo dicendo che
oramai l’Osservatore ha intrapreso
una “spirale discendente”.
Il 2009 è un anno particolare quanto
al rapporto tra Osservatore e musica
rock. In febbraio il quotidiano vaticano
sorprende. A poche ore dall’inizio
del Festival di Sanremo pubblica
un “piccolo prontuario di resistenza
musicale”. Si tratta di un decalogo
formato da una serie di direttive e indicazioni
ritenute utili per difendersi
dalla valanga sonora in arrivo. A essere
proposte come valida alternativa
all’onda canora che “inonderà implacabile
l’etere fino alla prossima estate”
sono pietre miliari della storia
della musica, ossia “alcuni dischi di
cui non si può fare a meno per ritemprare
gli esausti padiglioni auricolari
dell’uomo mediatico”. Al primo posto
della classifica dell’Osservatore, ovviamente,
i Beatles con “Revolver”
(1966), “un Cd che segnò l’inizio di una
nuova epoca musicale, quella contemporanea”.
Al secondo posto David
Crosby con “If I could only remember
my name” (1971), nato dalla collaborazione
con grandi musicisti, come Joni
Mitchell e Neil Young. “The dark side
of the moon” dei Pink Floyd è al terzo
posto del prontuario di buona musica,
mentre al quarto posto c’è “Rumours”
dei Fleetwood Mac (1977). Al
quinto posto ecco “The nightfly” di
Donald Fagen, (1982), mentre al sesto
e settimo posto vengono segnalati rispettivamente
“Thriller” di Michael
Jackson e “Graceland” di Paul Simon.
A chiudere la classifica sono gli U2
con “Achtung baby” (1991), gli Oasis
con “(What’s the story) Morning
glory?” (1995), e “Supernatural” di
Carlos Santana (1999). In coda Bob
Dylan, per la “grande vena poetica
che sconfina spesso nel visionario e,
dopo la conversione, nel messianico”.
O forse, chissà, perché fu una delle
poche star ammesse a cantare davanti
a Giovanni Paolo II.
Non tutta la musica italiana per
l’Osservatore merita d’essere stroncata.
Lo scorso gennaio, infatti, il giornale
vaticano anticipa in pagina un’intervista
a Francesco Guccini che pochi
giorni dopo esce sulla rivista “Vita
e Pensiero”, il bimestrale dell’Università
cattolica del sacro cuore.
L’“agnostico” Guccini, come “in genere”
si definisce lui, spazia sulle pagine
del giornale del Papa dal senso religioso
della vita che “può essere l’avere
una morale che hai assunto fin
da quando eri bambino: poi si è modificato
con certe conoscenze, certi incontri
e certe cose, ma grosso modo è
quello”, alla Bibbia che, dice, “è un
grande libro, assolutamente da leggere”.
Perché? “E’ pieno di storie affascinanti,
di testi poetici. Da ragazzetti
si leggeva soprattutto il Cantico dei
Cantici, che era così erotico. Certo,
quando t’imbatti nel Levitico o in
quelle interminabili genealogie di
personaggi più o meno sconosciuti,
l’entusiasmo tende inevitabilmente a
scemare, e li salti a piè pari. Amo in
particolare, naturalmente, la Genesi e
l’Apocalisse, e sono convinto che ci
possa essere una lettura di questi libri
non necessariamente confessionale”.
Peggior fortuna ha sull’Osservatore
un altro italiano: Giovanni Allevi.
Questi non canta. Non suona musica
rock. Semplicemente compone col
piano. O così sembrava ai più prima
che l’Osservatore dicesse la sua: “Giovanni
Allevi non è affatto ‘strambo’ –
scrive il giornale del Papa –, è costruito
con una cura assoluta ed è la rappresentazione
oleografica del compositore,
così come se l’aspetta chi non
ha molta consuetudine con le sale da
concerto”. E ancora: “Il compositore
marchigiano arriva e offre al pubblico
quello che già conosce. E questa è
la forza culturalmente pericolosa dell’operazione
Allevi: convincerci che
tutto quello che non capiamo non vale
la pena di essere compreso. Rassicurati
sul fatto che ‘non siamo noi
ignoranti, sono loro che non sanno
più scrivere una bella melodia’, potremo
finalmente andare fieri di non
avere mai ascoltato Stravinskij”.
Allevi definisce la sua musica
“classica contemporanea”. E questa,
a differenza del rock contemporaneo,
non piace al quotidiano vaticano. Così
si conclude l’articolo: “In un paese
come l’Italia dove c’è chi, come Alessandro
Baricco, arriva a scrivere e dirigere
film per spiegare che Beethoven
è sopravvalutato, è abbastanza
frequente che si cada nel tranello
dell’artista svagato. Certo non è colpa
dell’artista in questione, ma di un sistema
scolastico fatto di flauti dolci e
Fra Martino campanaro che spesso
non fornisce gli strumenti per distinguere
Arisa da Billie Holiday, figuriamoci
Puccini da Allevi”.
Dall’Italia si torna fuori i patri confini.
Fino in Irlanda, a Dublino, la
città degli U2. E’ Vallini a condurre
un’indagine su Bono. E il risultato
sorprende. E’ Bono a essere uno degli
artisti più credenti, almeno a giudicare
dalla quantità di riferimenti e allusione
ai testi sacri presenti nei testi
che scrive per gli U2. Dice l’Osservatore
che i testi di Bono hanno in più
di una occasione dei risvolti religiosi.
Nel brano “Gloria”, presente nell’album
del 1981 “October”, Bono e gli altri
sembrano essere alla ricerca di
Dio: “I try, I try to speak up / But only
in you I’m complete”. E anche negli
ultimi lavori come in “No Line On the
Horizon”, la valenza liturgica della
band non sembra aver perso forza.
Nella “litaniante” “Magnificent” (che
già nel titolo fa capire l’antifona del
brano) “l’esplorazione sembra essere
andata davvero troppo avanti”, mentre
in “Unknown Caller” “tutto sembra
essere tornato sulla retta via”.
Le pagine dell’Osservatore dedicate
alla cultura sono fatte così: si trovano
tante cose diverse tra loro. Le invasioni
nel campo musicale non sono
capite da tutti ma comunque si fanno
notare. E sorprendono. Come sorprese
nel luglio del 2008 una chicca:
un’intervista a Dolores Hart, che in
“Loving you” fu la prima attrice a baciare
Elvis Presley sul grande schermo
e nel ’63 diede l’addio alle scene
per chiudersi in un convento di clausura.
Il titolo è azzeccato: “Love me
tender di un amore più grande”. E’
l’amore per Dio che porta Dolores a
entrare in clausura. E’ l’amore per la
musica, anche per il rock profano,
che spinge l’Osservatore a scriverne.

© Copyright Il Foglio 1 maggio 2010

Joseph Ratzinger. Beethoven e la scintilla di Dio; Schubert, i Lieder della speranza

La IX sinfonia suscita sempre di nuovo la mia meraviglia: dopo anni di auto-isolamento e di vita ritirata, in cui Beethoven aveva da combattere con difficoltà interne ed esterne che minacciavano di soffocare la sua creatività artistica, il compositore ormai totalmente sordo, nell’anno 1824, sorprende il pubblico.
Con una composizione che rompe la forma tradizionale della sinfonia e, nella cooperazione di orchestra, coro e solisti, si eleva ad uno straordinario finale di ottimismo e di gioia.
Che cosa era accaduto?
Per ascoltatori attenti, la musica stessa lascia intuire qualcosa di ciò che sta alla base di questa esplosione inaspettata di giubilo. Il travolgente sentimento di gioia trasformato qui in musica non è qualcosa di leggero e di superficiale: è un sentimento conquistato con fatica, superando il vuoto interno di chi dalla sordità era stato spinto nell’isolamento – le quinte vuote all’inizio del primo movimento e l’irrompere ripetuto di un’atmosfera cupa ne sono l’espressione.
La solitudine silenziosa, però, aveva insegnato a Beethoven un modo nuovo di ascolto che si spingeva ben oltre la semplice capacità di sperimentare nell’immaginazione il suono delle note che si leggono o si scrivono. Mi si affaccia alla mente, in questo contesto, un’espressione misteriosa del profeta Isaia che, parlando di una vittoria della verità e del diritto, diceva: «udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro \; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno». Si accenna così ad una percettività che riceve in dono chi da Dio ottiene la grazia di una liberazione esterna ed interna.
Così, allorché il Coro e Orchestra della Radio Bavarese, in occasione della caduta del muro fra Berlino Est e Ovest nel 1989, eseguendo sotto la guida di Leonard Bernstein la sinfonia appena ascoltata, modificarono il testo dell’Ode alla gioia in «Libertà, bella scintilla di Dio», espressero ben più della semplice emozione del momento storico: la vera gioia è radicata in quella libertà che, in ultimo, solo Dio può donare. Egli – talvolta proprio in tempi di vuoto e di isolamento interiori – vuole renderci attenti alla sua muta presenza non solo «sopra la volta stellata», ma anche nel più intimo di noi stessi. È lì che arde la scintilla dell’amore divino, il quale può liberarci a ciò che siamo veramente.

Schubert, i Lieder della speranza

Questo concerto ci ha dato l’occasione di vedere il felice accostamento della poesia di Wilhelm Müller alla musica di Franz Schubert in un genere melodico a lui caro. Sono in effetti oltre seicento i Lieder che Schubert ci ha lasciato: il grande compositore, non sempre compreso dai suoi contemporanei, fu, com’è noto, il «principe del Lied». Egli, come recita il suo epitaffio, «fece risuonare la poesia e parlare la musica». Poc’anzi abbiamo potuto assaporare il capolavoro della liederistica schubertiana: Die Winterreise (Il viaggio d’inverno). Ben 24 Lieder composti su liriche di Wilhelm Müller, nei quali Schubert esprime un’intensa atmosfera di triste solitudine, da lui particolarmente avvertita dato lo stato d’animo di prostrazione causatogli dalla lunga malattia e dal susseguirsi di non poche delusioni sentimentali e professionali. È un viaggio tutto interiore, che il celebre compositore austriaco scrisse nel 1827, solo un anno prima della prematura morte, che lo colse a 31 anni.
Quando Schubert fa calare un testo poetico nel suo universo sonoro, lo interpreta attraverso un intreccio melodico che penetra nell’anima con dolcezza, portando anche chi l’ascolta a provare lo stesso struggente rimpianto avvertito dal musicista, lo stesso richiamo di quelle verità del cuore che vanno al di là di ogni raziocinio. Nasce così un affresco che parla di schietta quotidianità, di nostalgia, di introspezione, di futuro. Tutto riaffiora lungo il percorso: la neve, il paesaggio, gli oggetti, le persone, gli eventi, in un fluire struggente di ricordi. In particolare, è stata per me un’esperienza nuova e bella ascoltare quest’opera nella versione che ci è stata proposta, cioè con il violoncello al posto della voce umana. Non sentivamo le parole della poesia, ma il loro riflesso ed i sentimenti in esse contenuti espressi con la «voce» quasi umana del violoncello.
Presentando Il viaggio d’inverno agli amici, Schubert ebbe a dire: «Vi canterò un ciclo di Lieder che mi hanno coinvolto più di quanto non mi sia mai successo prima. Mi piacciono più di tutti, e piaceranno anche a voi». Sono parole a cui possiamo assentire anche noi, dopo averli ascoltati nella luce della speranza della nostra fede. Il giovane Schubert, spontaneo ed esuberante, è riuscito a comunicare anche a noi questa sera ciò che egli ha vissuto e sperimentato. Meritato è pertanto il riconoscimento che universalmente viene tributato a questo illustre genio della musica, che onora la civiltà europea e la grande cultura e spiritualità dell’Austria cristiana e cattolica.

© Copyright La Stampa, 29 aprile 2010

Joseph Ratzinger e le sette note mortificate La musica? Una questione di educazione. di Riccardo Muti

È in uscita il volume Lodate Dio con arte (Venezia, Marcianum Press, 2010, pagine 264, euro 24) che raccoglie scritti e discorsi di Joseph Ratzinger - precedenti e posteriori alla sua elezione al soglio pontificio - dedicati all'arte e in particolare alla musica e al canto. Ne anticipiamo l'introduzione.

di Riccardo Muti

Senza dubbio non è necessario essere Papa per frequentare il mondo della musica come fa Papa Ratzinger che, alla sua veneranda età e con tutti gli impegni che suppongo comporti il suo alto incarico di Pastore di tutta la Chiesa, non disdegna mettersi lui stesso al pianoforte e alimentare il suo spirito suonando i suoi autori preferiti. È però un grande dono per l'umanità e per la Chiesa all'inizio del terzo millennio avere un Papa che rivendica spazio e rispetto nella Chiesa e nella società civile per quest'alta espressione umana.
Ha cominciato da bambino a frequentare e ad amare la musica e il canto fin dai bei tempi - lo ricorda lui stesso - in cui, grazie a suo fratello, poté integrarsi nella famiglia dei Domspatzen, i piccoli cantori di Ratisbona, che facevano servizio liturgico nella cattedrale. È stata un'esperienza che ha segnato la sua vita, come ha segnato la vita di tanti di noi musicisti. L'esperienza della musica, infatti, arricchisce l'esistenza umana e le apre orizzonti che sconfinano nell'infinito e nell'eterno. "Cantare è quasi un volare - confida il Papa in occasione di un concerto dei Domspatzen - un sollevarsi verso Dio, un anticipare in qualche modo il canto dell'eternità". Chi impara a cantare da piccolo, poi canta tutta la vita e tutta la vita diventa per lui canto.
Ha ragione il Papa quando in più circostanze lamenta il basso livello della musica da consumo, in particolare della musica e dei canti eseguiti nelle chiese in questi ultimi decenni soprattutto da noi in Italia. Ma la causa è l'inadeguatezza dell'educazione musicale. Quello che si fa nelle scuole è troppo poco e le attività alternative o sussidiarie sono solo per pochi fortunati. Nelle parrocchie, poi, almeno in Italia, l'educazione al canto dei cristiani penso sia una delle ultime preoccupazioni pastorali dei nostri parroci e forse anche dei nostri vescovi.
I libri di testo delle scuole primarie sono pieni di belle dichiarazioni d'intenti e di interessanti indicazioni metodologiche e programmatiche. Ma agli italiani delle ultime generazioni non sembra sia stata data un'adeguata educazione musicale. Musica e canto in Italia sono ancora lasciate per lo più all'iniziativa privata. Sono solo per chi ha predisposizione e talento, ha i mezzi finanziari per frequentare una scuola di musica privata o ha la fortuna di trovare un posto in un conservatorio.
Nel nostro Paese bisogna far da sé. Anche per la musica e il canto bisogna purtroppo "arrangiarsi". Più volte, in tantissime occasioni, l'ho denunciato. In una società evoluta l'educazione musicale non può essere trattata in questo modo. Significa non rispettare il valore culturale della musica. Soprattutto significa non riconoscere e non rispettare il valore antropologico del canto nella formazione di persone chiamate a vivere in società, a stare e a comunicare con gli altri. La pratica corale e strumentale, come la pratica dello scrivere e del leggere, dovrebbero accompagnare tutto l'arco della scolarità, dalla scuola materna alle superiori. Come l'educazione all'espressione scritta e orale accompagna dall'inizio alla fine l'itinerario scolastico di una persona, arricchendosi gradualmente di elementi culturali differenti che forniscono le cose da dire e da scrivere per comunicare, non si capisce perché non debba avvenire la stessa cosa per l'educazione all'espressione musicale attraverso il canto e gli strumenti musicali.
Se si facesse qualcosa in questo senso, probabilmente si invertirebbe la tendenza a considerare la musica come un'attività per pochi eletti, uno dei possibili sbocchi professionali, una merce da vendere o semplicemente un passatempo. Sicuramente anche nelle nostre chiese si canterebbe di più e si canterebbe meglio.
Perciò non sarà di troppo auspicare anche da queste pagine un'educazione musicale che non solo non emargini nessuno dalla fruizione della musica e dal piacere dell'ascolto, ma soprattutto favorisca in tutti lo sviluppo della percezione di sé, che raggiunge il massimo di espressione e di autocomprensione proprio nel cantare insieme. Non sarà mai di troppo chiedere un'educazione musicale che non solo insegni ad ascoltare la musica, a decodificare i linguaggi e i messaggi e a farne un bagaglio culturale di valore; non solo insegni a leggere uno spartito e a suonare almeno uno strumento musicale, ma insegni soprattutto a cantare insieme, incarnandone con l'esercizio assiduo le regole e le esigenze, per riuscire a far coro anche nella vita.
Sono davvero grato al Papa per aver riportato al giusto posto, anche attraverso questo libro, l'attenzione alla musica dentro e fuori della Chiesa, ponendola semplicemente come fattore essenziale nella vita degli uomini. I suoi studi sono illuminanti soprattutto per la musica sacra. Sgombrano il terreno da equivoci e assolutizzazioni fondamentaliste pro e contro, che in questi anni hanno creato scontro piuttosto che dialogo e ricerca comune per il bene della Chiesa e della sua liturgia. Rendono ragione del disagio che tanti provano andando a messa la domenica. Ma fanno anche sperare in una ripresa dell'arte musicale che faccia un buon servizio alla liturgia e alla vita di questo nostro mondo.
Condivido totalmente quanto Sua Santità afferma: "Se la Chiesa deve trasformare, migliorare, "umanizzare" il mondo, come può far ciò e rinunciare nel contempo alla bellezza, che è tutt'uno con l'amore ed è con esso la vera consolazione, il massimo accostamento possibile al mondo della Risurrezione? La Chiesa dev'essere ambiziosa; dev'essere una casa del bello, deve guidare la lotta per la "spiritualizzazione", senza la quale il mondo diventa il "primo girone dell'inferno". Si cerchi pure ciò che è adatto alla liturgia e alla partecipazione dei fedeli, ma si faccia di tutto perché ciò che è adatto sia anche bello e degno della più importante azione ecclesiale in cui viene usato" (p. 33).
"Giustamente una Chiesa che faccia soltanto "musica d'uso" cade nell'inutile e diviene essa stessa inutile", afferma ancora il Papa. La Chiesa ha e deve svolgere un'incombenza molto più alta: "Essa dev'essere luogo della "gloria" e così anche luogo in cui i lamenti dell'umanità sono portati all'orecchio di Dio. Essa non può appagarsi di ciò che è ordinario e utile: deve destare la voce del cosmo glorificando il Creatore, svelare la di lui magnificenza al cosmo, e rendere il cosmo stesso glorioso, e quindi bello, abitabile, amabile". E poi ancora: "L'arte musicale è chiamata, in modo singolare, a infondere speranza nell'animo umano, così segnato e talvolta ferito dalla condizione terrena. Vi è una misteriosa e profonda parentela tra musica e speranza, tra canto e vita eterna: non per nulla la tradizione cristiana raffigura gli spiriti beati nell'atto di cantare in coro, rapiti ed estasiati dalla bellezza di Dio. Ma l'autentica arte, come la preghiera, non ci estranea dalla realtà di ogni giorno, bensì a essa ci rimanda per "irrigarla" e farla germogliare, perché rechi frutti di bene e di pace" (p. 124).
Indubbiamente la rivoluzione culturale avvenuta nel secolo scorso ha messo in crisi anche i tradizionali codici di riferimento che, convenzionalmente, servivano a stabilire ciò che è bello e ciò che è brutto in musica. Il sistema tonale, eletto per secoli a rappresentare la complicità naturale tra il mondo dei suoni e la coscienza dell'uomo, è stato sistematicamente abbandonato e nuove strade sono state percorse e certamente si percorreranno in futuro; la musica, specialmente negli ultimi decenni del secolo scorso, ha assunto le caratteristiche di un fenomeno estremamente vario e variabile. È avvenuto un rinnovamento e un ampliamento del linguaggio musicale come c'è stato un rinnovamento teologico, liturgico, culturale ed esistenziale. È decaduta l'idea e la pretesa di un unico modello culturale e musicale e ne sono nati infiniti altri. La musica ha cessato di essere una pratica ecclesiastica o del salotto borghese, asservita all'idea religiosa e politica dominante. Ogni idea ha la propria musica e ogni musica pretende il proprio spazio e il proprio riconoscimento alla pari di tante altre espressioni culturali. Giudicarne il valore non è possibile se non si entra nella dinamica umana e religiosa che la ispira e la esprime. E le dinamiche sono molte. Variano da popolo a popolo, da gruppo a gruppo. Spesso perfino da uomo a uomo. Producono una grande varietà di espressioni e di stili, il cui obiettivo non è la trasgressione delle regole convenzionali o naturali, ma la composizione di musiche che meglio esprimano ciò che si vuole dire, pur essendo altro rispetto a quello che l'orecchio è abituato a sentire. Non si può formulare un giudizio di valore senza tener conto di questa pluralità di stili. Non esiste uno stile che possa vantare il primato sugli altri e al quale tutti gli altri debbano adeguarsi per essere legittimamente usati nella liturgia. Tutti gli stili hanno diritto di cittadinanza nella cultura contemporanea e, oserei dire, anche nella liturgia, almeno se si pensa che dietro ogni stile non c'è solo il lavoro a tavolino del musicista, ma ci sono soprattutto degli uomini o addirittura dei popoli, che in quel determinato modo esprimono se stessi, la loro vita e la loro fede. Non sarebbe proprio giusto fare una selezione. Vorrebbe dire selezionare gli uomini e l'immagine di sé e di Dio, che essi coltivano e intendono comunicare. Tuttavia, pur nella complessità del tempo presente e delle sue espressioni plurali, tutte legittime, oso sperare che mai vengano oscurati o dimenticati i principi ispiratori dell'autentica bellezza, evocati dal Papa, nel rispetto dei quali è stato creato quel patrimonio musicale che appartiene alla nostra cultura e alla nostra storia come un tesoro inestimabile e che riesce ancora in maniera esemplare a parlare al cuore e allo spirito dell'uomo contemporaneo, comprese le giovani generazioni.


(©L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010)

Solesmes. Dov’è rinato il gregoriano

di Lorenzo Fazzini
È
conosciuta in tutto il mondo per il canto gregoriano, studiato e custodito nel silenzio della loro clausura.
Ma i monaci che ci abitano si considerano, alla stregua di quanto voleva san Benedetto (il santo che
ne ha forgiato la regola), semplicemente degli umili «cercatori di Dio». Citare Solesmes è dire «il» gregoriano, il canto cattolico-romano per eccellenza negli uffici liturgici.
Perché fu in questo austero monastero francese, adagiato sulle rive della Sarthe, situato a 250 km a sudovest da Parigi, a metà strada tra le città di Le Mans e Angers, che il gregoriano rinacque nel corso dell’Ottocento dopo secoli di oblio. Solesmes taglia quest’anno il significativo traguardo dei 10 secoli di vita. Un millennio, infatti, è trascorso da quel 12 ottobre 1010 quando Raoul de Beaumont, visconte della Maine, cedette al fratello Geoffroy il terreno su cui sorse l’abbazia secondo il volere dello stesso Raoul. Il 12 ottobre di un millennio fa avvenne la dedicazione della chiesa intitolata a San Pietro, il nome che ancora oggi designa l’abbazia. La quale, nei suoi primi due secoli, visse in prosperità, salvo iniziare la sua parabola discendente nel 1375 allorché venne intaccata dalla Guerra dei cent’anni.
Per poi subire una vera e propria rovina con la distruzione perpetrata dagli invasori inglesi nel 1425. Una ripresa si ebbe tra il XV e il XVI secolo, con la costruzione del bassorilievo della tomba di Nostro Signore, l’erezione del campanile, l’abbellimento della chiesa con alcune volte, la decorazione della Cappella bella che si chiuse nel 1553. Nel 1664 il monastero si aggrega alla Congregazione di San Mauro. Il ciclone della Rivoluzione arriva anche a toccare i monaci di Solesmes: all’inizio del 1791, a seguito del
divieto della Costituzione repubblicana degli ordini religiosi, i monaci devono disperdersi: tra i 7 padri, uno si ritira nella sua diocesi di origine, gli altri sono decisi a resistere nella loro casa di preghiera. La risposta delle autorità non si fa attendere: alcuni vengono imprigionati a Le Mans, altri a Rennes, altri deportati a Jersey. Curiosamente lo stabile del monastero viene venduto dallo Stato che l’ha incamerato, ma l’acquirente non si presenta. Nel 1792 e nel ’94 i contadini del paese traggono in salvo dal monastero le reliquie della corona di spine ivi conservata. Intorno agli anni Trenta del XIX secolo a Solesmes e dintorni si diffonde la notizia che l’antico monastero sarebbe stato abbattuto.
Tale notizia sollecita lo zelo di dom Prosper Guéranger, un giovane sacerdote nativo proprio di Sablé, il paese di Solesmes, di cui è un piccolo borgo. Da ragazzo durante le sue passeggiate Prosper aveva subito il fascino di quella chiesa e della sua tradizione. E nel 1831 reagisce con una scelta di vita alla possibilità che quella testimonianza di fede possa andare letteralmente in frantumi.

C
on alcuni amici riesce a raccogliere una somma economica sufficiente per affittare l’abbazia; incoraggiato dal vescovo di Mans, vi si insedia con 3 amici: è l’11 luglio 1833. Dom Guéranger ha 28 anni, diventa il superiore della nuova comunità benedettina che riceve il placet da Roma 4 anni dopo quando emette i suoi voti solenni nella basilica di San Paolo fuori le Mura.
E mentre vuole restaurare la tradizione monastica in questo lembo di terra, dom Guéranger trova nel gregoriano la chiave di volta del suo progetto: in poco tempo mette
insieme una preziosissima collezione di manoscritti gregoriani da diverse abbazie d’Europa, che oggi formano la collezione della Paleografia musicale di Solesmes, studiata da ricercatori di tutto il mondo. Al contempo inizia, paziente, la pratica del gregoriano come canto liturgico secondo una modalità molto stretta: Guéranger chiede ai suoi confratelli di rispettare il primato del testo, insistere sulla pronuncia e l’intelleggibilità della frase. E lo sforzo filologico di Solesmes fu riconosciuto a livello della Chiesa universale: l’allora nunzio a Parigi, Angelo Roncalli, soggiornò spesso nelle celle monastiche di Solesmes; Paolo VI nominò l’allora abate Jean Prou presidente di una congregazione del Concilio e si rese attento ai suoi consigli in tema di riforma liturgica. Oggi i monaci di Solesmes – 60, più 6 novizi – si dedicano anche alla tecnologia: ogni anno, dal 1958 (e in questo pionieristici) pubblicano un cd di canti. E il carisma benedettino di Solesmes prospera anche all’estero: nel 1961 apre una fondazione monastica a Keur Moussa, nella diocesi di Dakar, in Senegal; nel 1996 è stato fondato un monastero in Lituania, nelle settimane scorse il chiostro di Our Lady of the Annunciation, nell’Oklahoma, è stato elevato al rango di abbazia. In tutto sono 23 i monasteri che si rifanno a questo luogo di fede e storia nella terra della laïcité.

© Copyright Avvenire 21 marzo 2010

Il Papa: Quando l'arte comunica una bellezza che è anche verità

'opera di Joseph Haydn Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce è "un esempio tra i più sublimi, in campo musicale, di come si possano sposare l'arte e la fede". Lo ha detto il Papa al termine del concerto eseguito in occasione della sua festa onomastica venerdì pomeriggio, 19 marzo, nella Sala Clementina.

Cari amici,
al termine di un ascolto così intenso e spiritualmente profondo, la cosa migliore sarebbe conservare il silenzio e prolungare la meditazione. Tuttavia, sono molto lieto di rivolgervi un saluto e ringraziare ciascuno di voi per la vostra presenza nel giorno della mia festa onomastica, in modo particolare quanti mi hanno offerto questo graditissimo dono. Esprimo la mia cordiale riconoscenza al Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, per le belle parole che mi ha indirizzato. Saluto con affetto gli altri Cardinali, il Cardinale Decano Sodano, Presuli e Prelati presenti. Un grazie speciale va poi ai musicisti, a partire dal Maestro José Peris Lacasa, compositore strettamente legato alla Casa Reale Spagnola. A lui va il merito di aver elaborato una versione de Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce di Franz Joseph Haydn che riprende quella per quartetto d'archi e quella in forma di oratorio, scritte dallo stesso Haydn. Mi congratulo poi con il Quartetto Henschel per la pregevole esecuzione, e con la Signora Susanne Kelling, che ha messo la sua voce straordinaria al servizio delle parole sante del Signore Gesù.
La scelta di quest'opera è stata davvero felice. Infatti, se da una parte, la sua bellezza austera è degna della solennità di san Giuseppe - di cui lo stesso insigne compositore portava il nome - dall'altra il suo contenuto è quanto mai adatto al tempo quaresimale, anzi, ci predispone a vivere il Mistero centrale della fede cristiana. Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce è, infatti, un esempio tra i più sublimi, in campo musicale, di come si possano sposare l'arte e la fede. L'invenzione del musicista è tutta ispirata e quasi "diretta" dai testi evangelici, che culminano nelle parole pronunciate da Gesù crocifisso, prima di rendere l'ultimo respiro. Ma, oltre che dal testo, il compositore era vincolato anche da precise condizioni poste dai committenti, dettate dal particolare tipo di celebrazione in cui la musica sarebbe stata eseguita. Ed è proprio a partire da tali vincoli così stringenti che il genio creativo ha potuto manifestarsi in tutta la sua eccellenza: dovendo immaginare sette sonate di carattere drammatico e meditativo, Haydn punta sull'intensità, come scrisse egli stesso in una lettera del tempo: "Ogni sonata, o ogni testo, è espresso con i soli mezzi della musica strumentale, in modo tale che esso susciterà necessariamente l'impressione più profonda nell'anima dell'ascoltatore, anche il meno avvertito" (Lettera a W. Forster, 8 aprile 1787).
Vi è, in questo, qualcosa di simile al lavoro dello scultore, che deve costantemente misurarsi con la materia su cui opera - pensiamo al marmo della "Pietà" di Michelangelo -, e tuttavia riesce a far parlare quella materia, a far emergere una sintesi singolare e irripetibile di pensiero e di emozione, un'espressione artistica assolutamente originale ma che, al tempo stesso, è totalmente al servizio di quel preciso contenuto di fede, è come dominata da quell'avvenimento che rappresenta - nel nostro caso dalle sette parole e dal loro contesto.
C'è qui nascosta una legge universale dell'espressione artistica: il saper comunicare una bellezza, che è anche un bene e una verità, attraverso un mezzo sensibile - un dipinto, una musica, una scultura, un testo scritto, una danza, eccetera. A ben vedere, è la stessa legge che ha seguito Dio per comunicare a noi se stesso e il suo amore: si è incarnato nella nostra carne umana e ha realizzato il massimo capolavoro dell'intera creazione: "l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" - come scrive san Paolo (1 Tm 2, 5). Più è "dura" la materia, più sono stretti i vincoli dell'espressione, e maggiormente risalta il genio dell'artista. Così sulla "dura" croce Dio ha pronunciato in Cristo la Parola d'amore più bella e più vera, che è Gesù nel suo donarsi pieno e definitivo: è Lui l'ultima Parola di Dio, in senso non cronologico, ma qualitativo. È la Parola universale, assoluta, ma è stata pronunciata in quell'uomo concreto, in quel tempo e in quel luogo, in quell'"ora" - dice il Vangelo di Giovanni. Questo vincolarsi alla storia, alla carne, è segno per eccellenza di fedeltà, di un amore talmente libero da non avere paura di legarsi per sempre, di esprimere l'infinito nel finito, il tutto nel frammento. Questa legge, che è la legge dell'amore, è anche la legge dell'arte nelle sue espressioni più alte.
Cari amici, forse mi sono spinto un po' oltre con questa riflessione, ma la colpa - o forse il merito! - è di Franz Joseph Haydn. Ringraziamo il Signore per questi grandi geni artistici, che hanno saputo e voluto misurarsi con la sua Parola - Gesù Cristo - e con le sue parole - le sacre Scritture. Rinnovo il mio grazie a quanti hanno ideato e preparato questo omaggio: il Signore ricompensi ciascuno con larghezza.
Sehr herzlich danke ich nochmals allen, die diesen Abend ermöglicht haben. Mein besonderer Dank gilt dem Henschel Quartett und dem Mezzosopran Frau Susanne Kelling, die uns mit ihrer ausdrucksvollen Darbietung die Worte des Erlösers am Kreuz in musikalischer Form näher gebracht haben. Vielen lieben Dank!
[Ringrazio sentitamente ancora una volta tutti coloro che hanno reso possibile questa serata. Rivolgo un ringraziamento particolare al Quartetto Henschell e al mezzosoprano, signora Susanne Kelling, che, con la sua espressiva esibizione, ci ha avvicinato in forma musicale alle parole del Salvatore sulla Croce. Molte grazie!].
Saludo muy cordialmente al Maestro José Peris Lacasa, autor de una lograda reelaboración de las Siete últimas Palabras de Cristo en Cruz, de Haydn, y que hoy hemos tenido el gusto de escuchar. Saludo también a los que han venido de España para esta ocasión. Muchas gracias.
[Saluto molto cordialmente il Maestro José Peris Lacasa, autore di una riuscita rielaborazione delle Sette ultime Parole di Cristo sulla Croce, di Haydn, che oggi abbiamo avuto il piacere di ascoltare. Saluto anche quanti sono venuti dalla Spagna per questa occasione. Grazie.].
A tutti rinnovo un saluto cordiale con l'augurio di seguire Gesù da vicino, come la Vergine Maria, per vivere in profondità la Settimana Santa, e celebrare in verità la Pasqua ormai vicina. Con questa intenzione, imparto a voi e ai vostri cari la mia Benedizione.

(©L'Osservatore Romano - 20-21 marzo 2010)

I Dialoghi delle Carmelitane, un canto contro il terrore







Francis Poulenc (1899-1963), compositore francese dalla produzione eclettica, nei primi mesi del 1953 si mise a scrivere l’opera Dialoghi delle Carmelitane, di cui nel 2007 cadeva il 50° anniversario della prima rappresentazione, e che è tratta da una vicenda storica la quale può essere esemplare per comprendere a quali atrocità arrivò il furore rivoluzionario contro la Chiesa Cattolica.

di Tommaso Scandroglio

Durante la Rivoluzione Francese il secco schiocco della ghigliottina risuonò migliaia di volte in centinaia di piazze, facendo ruzzolare nel paniere le teste non solo di aristocratici, ma anche di borghesi, di popolani, di sacerdoti e di religiosi. Forse solo in questo la rivoluzione fu davvero “democratica”, non facendo per nulla discriminazioni di ceto. È comunque indubitabile che il terrore giacobino prediligeva una categoria molto invisa alle menti illuminate di allora: la categoria del clero e dei religiosi.

Voto di martirio

Il 15 dicembre 1789 l’Assemblea Nazionale vietò a tutti gli ordini religiosi di pronunciare nuovi voti e molti conventi furono fatti sfollare. Questa sorte toccò anche alle carmelitane di Compiègne, piccolo borgo a nord est di Parigi, le quali nel 1792 furono obbligate ad andarsene dal convento e smettere gli abiti da religiose.

Ma dato che il loro proponimento era quello di “vivere e morire da carmelitane”, si risolsero di continuare ad incontrarsi per pregare in comune, nonostante ciò fosse vietato. Così, divise in tre gruppi e alloggiate in abitazioni tra loro vicine, si trovavano quotidianamente per pregare di nascosto.
In una di queste riunioni segrete, su proposta della Superiora, fecero voto di martirio, un «atto di consacrazione per il quale la comunità si offre in sacrificio affinché cessino i mali che affliggono la Chiesa e il nostro Regno infelice», come si può leggere nei documenti di archivio.

Morire cantando le lodi al Redentore

Nel giugno del 1794 le carmelitane furono scoperte e arrestate «per aver tenuto conciliaboli antirivoluzionari, mantenuto corrispondenze fanatiche e conservato scritti liberticidi». Dapprima furono incarcerate nel locale convento della Visitazione e poi tradotte nella stessa prigione parigina dove fu detenuta Maria Antonietta. In questo luogo rimasero quattro giorni, tempo sufficiente affinché Suor Giulia componesse un inno al martirio da cantarsi sulla linea melodica della Marsigliese. I versi iniziali della prima strofa suonano così: «Disponiamo i nostri cuori all’allegrezza / Il giorno della gloria è arrivato / (…) Prepariamoci alla vittoria».

Giunte davanti al tribunale rivoluzionario, la Madre Superiora cercò di addossarsi tutte le colpe, ma il suo tentativo fu vano. Dal tribunale furono subito fatte salire su un carro che le avrebbe condotte al patibolo.

Durante il tragitto intonarono in coro il Miserere, il Salve Regina ed infine il Te Deum. La folla che assisteva al loro passaggio – di solito abituata ad inveire contro i condannati – rimase ammutolita per il coraggio dimostrato da costoro.
Arrivate al patibolo, ai piedi di esso, cantarono il Veni Creator. Poi furono chiamate una ad una per essere giustiziate. Sedici volte la lama scese per compiere, su quell’altare laico, un sacrificio di sangue così simile a quello sofferto da Cristo sul Calvario.

Dalla prima all’ultima esecuzione le sorelle non cessarono mai un istante di cantare il salmo Laudate Dominum omnes gentes. Il canto, man mano che l’eccidio si compiva, si affievoliva sempre più dato che le religiose non ancora giustiziate diminuivano progressivamente di numero.
L’ultima a trovare la morte fu la Madre Superiora che aveva chiesto al boia di essere giustiziata per ultima, affinché potesse sostenere le sue consorelle in quell’ora tremenda. Il canto con essa si spense definitivamente qui sulla terra, ma continuò in cielo per sempre. Infatti nel 1906 la Chiesa Cattolica beatificò le sedici martiri.

Una conversione

La vicenda delle carmelitane di Compiègne per più di un secolo rimase sconosciuta, dal momento che costituiva cattiva pubblicità ai falsi ideali della Rivoluzione Francese e stonava non poco con il famigerato motto “Liberté, Égalité, Fraternitè”. La prima ad interessarsi di quei fatti madidi di sangue fu appunto Santa Romana Chiesa e poi il martirio delle carmelitane attirò anche l’attenzione della scrittrice Gertrud Von Le Fort che nel 1931 compose una novella dal titolo L’ultima al patibolo.

Successivamente, nel 1948, Georges Bernanos pubblicò il romanzo Dialoghi della Carmelitane, da cui prese spunto Poulenc per il suo dramma utilizzando il testo di Bernanos come libretto (nel ’59 e nell’83 furono girati anche due film sullo stesso canovaccio).
Il compositore fino all’età di 37 anni era rimasto abbastanza indifferente alla pratica cristiana; ma nel 1936, in seguito alla morte in un incidente stradale di un suo caro amico, Pierre Ferroud, volle recarsi in pellegrinaggio presso il santuario della Vergine Nera a Rocamadour.

Lì, per sua stessa ammissione, fece ritorno alla fede dell’infanzia, e sempre lì, ai piedi della Vergine Nera, successivamente pose sotto la protezione di Maria diverse sue opere tra cui i Dialoghi. La morte dell’amico non fu solo il detonatore che innescò la sua conversione, ma costituì una sorta di presagio e fonte di ispirazione per la realizzazione dei Dialoghi, opera che incominciò a scrivere solo 17 anni dopo. Infatti il suo amico, nell’incidente, morì decapitato.

La forza di Bianca

Poulenc rispettò sostanzialmente lo svolgersi dei fatti storici avvenuti nell’ultimo decennio del 1700, ma inserì nella trama un personaggio di fantasia, Bianca de la Force, già presente nello scritto della Von Le Fort. Bianca, decisa ad entrare in convento perché terrorizzata dal mondo, sperava di trovare tra quelle mura una vita protetta e sicura. La Seconda Guerra Mondiale era terminata da pochi anni e il musicista vedeva in Bianca la personificazione dell’uomo sopravvissuto a tale conflitto, smarrito e desideroso di pace interiore, atterrito ed anelante ad un vivere tranquillo e sereno. L’autore la descrive così: «l’incarnazione dell’angoscia umana posta di fronte a un’era che stava avanzando inesorabilmente verso la sua fine».

Quando entra nel Carmelo, quasi presaga del suo destino futuro, sceglie di prendere come nome da religiosa Suor Bianca dell’Agonia di Cristo. Anche lei aderirà al voto di martirio perché, come si legge nel libretto, «la preghiera è un dovere, il martirio una ricompensa. […] Non si muore mai ciascuno per sé, ma gli uni per gli altri, ed anche gli uni al posto degli altri».

Dopo che i commissari rivoluzionari hanno evacuato il convento, Bianca si rifugia nella casa paterna, ma apprende che il genitore è stato ghigliottinato, la casa ceduta e i nuovi inquilini decidono di tenerla presso di loro come serva. Intanto le carmelitane vengono arrestate e arriva il giorno dell’esecuzione della sentenza capitale. Tutte le monache salgono al patibolo intonando il Salve Regina (e non il Laudate Dominum come avvenne in realtà) e ricevendo dal cappellano l’assoluzione.

Bianca però non è tra loro, si nasconde tra la folla. È atterrita, ma ad un certo punto tutto cambia in lei e si fa avanti continuando il canto della consorella Costanza, canto interrotto dalla lama della ghigliottina.
Ecco le ultime battute del libretto in cui si descrive il martirio di Bianca, alla quale la ghigliottina troncherà sulle labbra la parola “Amen”: «(Bianca, con il viso spoglio di ogni timore, si apre un varco nella folla tra la quale è confusa) Costanza: “O clemens…”. (Costanza la scorge. Il suo volto si fa radioso di gioia. Si ferma un breve istante. Riprendendo la sua marcia verso il patibolo, ella sorride dolcemente a Bianca). Costanza: “O pia, o dulcis Virgo Ma…”. (Incredibilmente calma, Bianca si fa strada tra la folla stupita, e sale al supplizio). Bianca: “Deo Patri sit gloria/ Et filio qui a mortuis/ Surrexit ac Paraclito/ In saeculorum secula…”. (Improvvisamente, la voce tace, come hanno fatto, ad una ad una, le voci delle Suore. La folla si disperde lentamente)».


(RC n. 32 - Febb/Marzo 2008)

Tutta la mia musica, per il Vexilla Regis!



L’inno gregoriano Vexilla Regis è un canto di penitenza e di gloria al tempo stesso, come lo è il tempo di Quaresima, che prepara la Pasqua, nel quale viene cantato.

Le parole dell’inno infatti sono un’esaltazione della Croce, strumento di passione e di salvezza.

Sono opera di un grande poeta della tarda latinità, Venanzio Fortunato (530-609).

Hanno una grande importanza sia come preghiera, che come composizione letteraria.

Da quest’ultimo punto di vista, la poesia segna il passaggio dalla metrica latina classica, fondata sulla quantità delle sillabe e relativi piedi, a quella nostra moderna, fondata sugli accenti tonici e sul numero delle sillabe.

Artisticamente è un capolavoro, per la bellezza e la potenza delle immagini, per lo splendore dei concetti.

I vessilli di Cristo avanzano vittoriosi, dopo il mortale duello con la morte stessa, che viene sconfitta. “Vexilla Regis prodeunt, fulget Crucis mysterium”, "qua vita mortem pertulit et morte vitam reddidit".

E il commosso saluto della strofa finale diventa un grido di esultanza: “O Crux, ave spes unica!”

La vibrante melodia gregoriana, nel suo incedere processionale e solenne, segue alla perfezione l’andamento dell’inno, che appare perciò nel suo complesso un inno stupendo, opera geniale di fede e di arte.

Non per niente Giuseppe Verdi disse che avrebbe dato tutta la sua musica in cambio del Vexilla Regis.


Vexilla Regis

Avanzano i vessilli del Re, risplende il mistero della Croce, e in questo patibolo l’autore della carne fu appeso nella carne.

Dopo essere stato ferito dalla punta crudele di una empia lancia, per lavarci dal peccato versò acqua e sangue.


O nobile e luminoso albero, tinto di porpora regale, eletto a toccare così sante membra con il tuo degno tronco!


Beato albero, ai cui bracci fu appeso il prezzo del mondo, fu bilancia del corpo e sottrasse la preda all’inferno.


Salve altare, salve vittima di gloria della passione, per cui la vita sopportò la morte, e con la morte ci ridonò la vita.


Ti saluto o Croce, unica speranza! in questo tempo di passione, accresci la grazia ai giusti e cancella le colpe ai peccatori.


O Trinità, fonte di salvezza, Ti lodi ogni spirito, proteggi per sempre quelli che salvi con il mistero della Croce. Amen.


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"In cosa consiste questo su cui sto costruendo la festa della mia vita?". Il 2°movimento della VII di Beethoven, la sinfonia dell'umana esistenza


vorrebbe un tempo Allegretto




Quando nella storia della musica si dice tempo Allegretto viene subito in mente il II Movimento della VII Sinfonia di Beethoven (1813).

È questo l’Allegretto per eccellenza, con il suo ritmo ben scandito, con il suo crescendo inarrestabile, con la sua linea melodica trascinante.

La VII Sinfonia è gioiosa forza vitale che prorompe irresistibile e si esprime in ritmi di danza.
La stessa tonalità di La Maggiore in cui è scritta, la tonalità della gioia più luminosa, ci fa capire che Beethoven vuole erigere un monumento alla vita stessa.

E ci riesce perfettamente.

L’Allegretto, incastonato tra movimenti più vivaci, è come una pausa riflessiva, annunciata dall’accordo inziale di La minore, che sembra dare un tono di velata tristezza.

In realtà il ritmo e il crescendo fanno capire che si tratta di una progressiva conquista della gioia e della pace interiore. Il peso del negativo viene superato in una vittoriosa ascesa verso la luce.

Era un brano particolarmente amato da D. Lorenzo Milani, che lo ascoltava in particolare quando il dolore della sua malattia si faceva maggiormente sentire.

In effetti, l’ascolto del brano dà profonda serenità interiore.

Il video purtroppo è carico di pubblicità (di suo); ma ho scelto questo perché, nonostante tutto, è una registrazione accettabile.


Un vagito che parla al cuore. Natale tra musica e poesia. di Gianfranco Ravasi

"Dio ha abbandonato la gloria ed è venuto a me. / Ha vissuto con gli esseri insignificanti come me. / Per me, e in vece mia, si è rassegnato / a prendere su di sé vergogna e umiliazioni. / Essere oggetto di attenzioni simili! / Chi sono io? / Per me il Re è morto versando il suo sangue. / Chi sono io? / Egli ha pregato per me". No, non è un autore spirituale all'origine di queste righe dedicate al tema teologico dell'Incarnazione. Sorprenderà un po' tutti, ma questi sono i versi della canzone Chi sono io? di un mito (non solo americano) del rock'n roll, Elvis Presley, morto come è noto da più di trent'anni, eppure sempre celebrato, amato e fin idolatrato. Non si deve, infatti, dimenticare che il suo tessuto testuale-musicale non intrecciava solo trasgressione e convenzione, esasperazione e stereotipi, protesta e perbenismo, ma anche contaminava il country bianco col rythm and blues nero, i cui temi e motivi avevano spesso echi spirituali. Dopo tutto, recentemente un saggio di Andrea Morandi dedicato agli U2 (In the name of love, Milano, Arcana, 2009, pagine 652, euro 22,00) ha dimostrato l'ibridazione di molti testi biblici (soprattutto salmici) nei testi di questo gruppo irlandese. Scriveva, a proposito, questo critico musicale: "Per Bono (il loro famoso leader) Davide è la prima popstar e i Salmi i primi blues. Lo stesso Bono sembra quasi identificarsi con lui. Davide ha un rapporto difficile con Dio, i suoi sono canti di lode e di lamento, così come molti salmi rock degli U2".
Ma ritorniamo al testo dell'ancor più celebre autore di Heartbreak Hotel, cioè a Presley. Il Cristo che egli canta è delineato quasi sulla base del mirabile inno paolino della Lettera ai Filippesi, un brano che oscilla tra Incarnazione e Glorificazione pasquale. Citiamo solo quanto riguarda la cosiddetta kènosis, quello "svuotamento" che ha il suo abisso non solo nella nascita secondo la carne, ma soprattutto nella morte del Figlio di Dio: "Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (2, 6-8).
Presley dice un po' le stesse cose in modo più popolare e immediato e rivela un'eco di quella fede in cui era stato allevato. Nascendo in mezzo a noi, in una provincia sperduta dell'impero romano, Cristo abbandona la sua gloria per entrare nel nostro orizzonte segnato dall'infelicità, assumendo su di sé la nostra vergogna. Si fa compagno delle nostre lacrime ed è pronto a sacrificarsi per noi. È curioso notare che la scrittrice contemporanea giapponese, Ayako Sono, ha introdotto la canzone di Presley nel suo romanzo Le mani sporche di Dio, nel quale si descrive un quadro che raffigura Gesù col volto divino aureolato di luce, ma con le mani rozze e screpolate di un contadino che lavora la terra. Con questa evocazione del popolare e mitizzato cantante americano, abbiamo voluto aprire un nostro libero e semplificato viaggio, in pochissime tappe, all'interno di un ideale Natale "orante". Cercheremo, cioè, non di ricorrere a testi sacri connessi col mistero centrale dell'Incarnazione (tra l'altro, i citati U2 hanno rimandato nel loro brano Magnificent al cantico di Maria, il Magnificat) e neppure alle infinite riletture letterarie del Natale, spesso raccolte nelle varie antologie "Natale dei poeti", "Natale d'autore" e così via.
Vorremmo, invece, offrire una piccola e un po' casuale selezione di invocazioni non sentimentali o retoriche - questo è, infatti, sovente il rischio del genere natalizio (lo diceva persino Moravia comparando il Natale attuale a un'anfora antica fatta emergere dal mare e piena di incrostazioni, quelle appunto del consumismo e dell'enfasi devozionale) - invocazioni rivolte al "Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nelle umane tenebre", come scriveva Ungaretti nella sua famosa, dolcissima lirica orante presente nella raccolta Il dolore. Partiamo, allora, dal Seicento inglese con uno dei massimi poeti di quell'epoca, l'autore del Paradiso perduto, John Milton. È dalla sua Ode alla natività del Signore che traiamo una strofa. I lettori sentiranno in questa poesia spirituale l'eco di un salmo che la liturgia cristiana usa proprio in chiave natalizia. Lasciamoci condurre dai versi del poeta inglese: "Sì, allora fedeltà e Giustizia / ritorneranno verso gli uomini, / avvolte in un arcobaleno. / Gloriosamente vestita, la Bontà si siederà nel mezzo, / poggiando sul trono di un lampo celeste / e raccogliendo ai suoi piedi scintillanti / un tessuto di nubi. / E il cielo, come per una festa, o Signore, / spalancherà completamente le porte / del tuo grande palazzo". Il fedele sente la necessità che nel suo Natale Gesù ritorni con il corteo di virtù dipinto dal poeta. C'è, infatti, bisogno della Fedeltà e della Giustizia come abitanti del nostro pianeta, ove le ingiustizie e i tradimenti trionfano. È necessario che la Bontà prenda residenza nelle nostre città crudeli e indifferenti al gemito dei poveri. Dicevamo sopra che Milton allude a un salmo. È l'85 che canta così: "Fedeltà e Verità allora si abbracceranno, / Giustizia e Pace si baceranno. / Dalla terra germoglierà la Verità, / dal cielo si affaccerà la Giustizia".
La tradizione ha collocato la nascita di Gesù nella notte sulla base di una libera lettura di un passo del libro della Sapienza: "Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, si slanciò in mezzo alla terra" (18, 14-15). Solo che il passo continuava descrivendo quella parola come "un guerriero implacabile che reggeva, simile a spada affilata, il tuo ordine inesorabile: fermatasi, riempì tutto di morte" (18, 15-16). Si trattava, infatti, dell'angelo sterminatore dei primogeniti egizi nella notte pasquale. Il contrasto "tenebra-luce" è comunque rimasto per definire il Natale ed è valido più che per ragioni cronologiche (i Vangeli non dicono nulla riguardo a una nascita notturna di Gesù) per motivi spirituali, come ci ricorda Giovanni nel prologo al suo Vangelo: "La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno sopraffatta" (si può tradurre anche: "ma le tenebre non l'hanno compresa"). Sul tema ritorniamo con una breve meditazione orante di un importante filosofo irlandese del IX secolo, Giovanni Scoto Eriugena. La desumiamo dalle sue riflessioni sulle gerarchie celesti, che prendevano spunto da un anonimo teologo cristiano del V-VI secolo noto con lo pseudonimo di Dionigi Areopagita: "La luce divina appare nella notte divina, notte che sboccia quando tramontano le luci del mondo. Nella luce divina il chiarore della terra si fa tenebra, il grande si fa piccolo, l'umano diventa Dio, l'ignoto è svelato. La luce divina è amore della sapienza celeste; fissando in essa lo sguardo, Dio si rivela". Il suggerimento implicito è quello che la tradizione cristiana spesso idealmente ripete per rendere più autentica la liturgia: spegniamo le luci materiali, ignoriamo i festoni delle luminarie, cerchiamo invece quella luce che s'accende nella contemplazione di Cristo, luce del mondo, per essere rischiarati nel cammino della vita. Alle soglie del Natale si accendono, infatti, le luminarie della pubblicità commerciale, si riscaldano i buoni sentimenti, si mobilita la retorica di una vaga spiritualità che si alimenta di pastorali, di presepi, di abeti e di neve. Eppure è possibile celebrare il Natale del Signore con tenerezza, pur nella sobrietà e nel rigore che il mistero cristiano dell'Incarnazione esige. Ci aiuta una preghiera-poesia entrata nell'innologia popolare tedesca. Il titolo è generico, Da cantare ogni giorno, l'autore è un poeta molto noto in Germania anche per certe canzoni folcloristiche come Il vino del Reno, quel Matthias Claudius (1740-1815), che si firmava con lo pseudonimo di Asmus. Tra l'altro, una delle sue liriche più famose, La morte e la fanciulla, fu messa in musica da Franz Schubert.
"Io ti ringrazio e mi rallegro, Signore, / come un fanciullo, del dono del Natale, / poiché io esisto, io esisto! / E poiché ho te, bel volto umano, / e il sole, il monte e il mare, / le fronde e l'erba posso vedere, / e di sera camminare / sotto l'esercito delle stelle e la cara luna; / e poiché mi sento felice / come quando, fanciulli, venivamo / e vedevamo ciò che il santo / Cristo ci aveva donato. Amen". Senza alte pretese letterarie, questo breve inno ci ricorda il dono della vita che nel Natale è emblematicamente rappresentato, ma anche la bellezza di esistere in questo mondo ricco di meraviglie. A Dio chiede di conservarci quel cuore di fanciullo che sa ancora stupirsi, come quando sgranavamo gli occhi di fronte ai doni natalizi. Senza enfasi o svenevolezze, è forse necessario ritrovare la purezza e la semplicità dei sentimenti. C'è, infatti, anche una "preghiera del cuore" nella tradizione spirituale. Essa non è melassa sentimentale, ma sincerità e limpidità dell'anima che si apre a Dio. Come diceva un santo monaco del Sinai, il mistico Gregorio, nato attorno al 1255 e morto nel 1347, "solo la preghiera che sgorga dal profondo del cuore è fonte di ogni bene e irriga l'anima come un giardino". E nella Regola dei certosini, i monaci dall'osservanza più severa e rigorosa, si legge l'appello ad "abituarsi all'ascolto tranquillo del cuore, che permette a Dio di penetrarvi attraverso tutte le vie e tutti i percorsi".
Il famoso drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, nonostante il professato ateismo, in una sua poesia immaginava una famiglia di povera gente che in una stamberga attende il Natale. Ebbene, essi aspettano veramente Cristo perché, faceva dire loro Brecht, "tu ci sei veramente necessario". Al di là dei luoghi comuni, il Natale dovrebbe essere soprattutto la celebrazione della fraternità operosa tra gli uomini. Il Cristo che entra nella storia non è quello glorioso delle icone e delle absidi, ma il figlio di una famiglia misera, persino perseguitata e profuga, simile a quella di tanti clandestini o migranti dei nostri giorni. Pietro di Celle, nato attorno al 1147, divenuto monaco benedettino e vescovo, e morto a Chartres nel 1183, ci offre in un suo sermone una semplice e intensa invocazione a Gesù, che viene a noi non nella pompa trionfale, ma nella semplicità che non umilia e non allontana nessuno, anzi tutti attrae a sé: "Vieni Gesù, nell'umiltà delle fasce e non nella grandezza, nella mangiatoia e non sulle nubi del cielo, fra le braccia di tua madre e non sul trono della maestà, sull'asina e non sui cherubini. Vieni verso di noi e non contro di noi, per salvare e non per giudicare, per visitare nella pace e non per condannare nell'ira. Se vieni così, Gesù, invece di sfuggirti, noi fuggiremo verso di te".
È un Dio bambino che non respinge, quello del Natale. È un Dio che si pone al livello ultimo degli uomini per poter accogliere tutti. È un Dio che entra nella nostra carne così fragile, simile all'"erba che germoglia al mattino: all'alba fiorisce, germoglia e a sera è falciata e dissecca" (Salmi, 90, 5-6). Per questo il Natale deve spogliarsi dell'enfasi, dell'eccezionalità, per essere la celebrazione della quotidianità e della semplicità. Il vescovo e scrittore francese François de Fénelon (1651-1715) in una sua meditazione natalizia affermava: "Ho bisogno della semplicità dei bambini. Mentre il Verbo incarnato, la Parola onnipotente del Padre tace, vagisce, piange e geme, posso io continuare a compiacermi dell'elucubrazione del mio spirito e a soffrire se questo mondo non ha un'idea abbastanza alta delle mie capacità? Ho scelto di essere nel silenzio e nell'oscurità per unirmi all'impotenza e ai vagiti del bambino Gesù".
A conclusione di questa piccola e libera antologia di testi oranti natalizi, vorrei porre le parole di uno scrittore più vicino ai nostri giorni che conobbi in vita e del quale celebrai l'addio funebre a Milano nel 2007, pochi giorni prima che io abbandonassi quella città per Roma. Si tratta di Raffaele Crovi, nato nell'hinterland milanese nel 1934 e radicato nella metropoli lombarda ove fu anche una presenza attiva in ambito editoriale. Una sua raccolta poetica è intitolata appunto L'utopia del Natale (1982) e da essa estraiamo questi versi che hanno il sapore antico di una litania, le cui invocazioni sono però moderne e vicine a noi: "A Natale, cometa dei desideri, / a Natale, culla di sogni e di pensieri, / a Natale, di poesia capoverso, / tu nasci e rinasci, Cristo, diverso. / Tu sei la povertà e la carità, / tu sei la legge e la violazione, / tu sei la forza e l'umiltà, / sei la realtà e l'immaginazione. / Nel mondo destinato a finire / tu solo hai saputo unire / il rinascere e il morire".
Come si è detto, sappiamo bene quanto sia facile "incartare" il Natale in una confezione-regalo, con un po' di lustrini, stelline e bacche. Certo, questa data è anche una "culla di sogni" e di desideri, di fantasia e di tenerezza. Ma il cuore deve battere altrove. Ci conduce ove c'è povertà, ci ricorda la carità, ci richiama alla libertà, ci obbliga all'impegno, ci chiede umiltà, esige coraggio, ci invita al cielo, ma ci costringe alla terra, ci offre speranza, ma ci impone la fedeltà. In questa serie di poli ultimi corre il filo luminoso del Natale. Esso, però, è sospeso soprattutto tra due altri estremi, Betlemme e il Calvario, tra il nascere e il morire di Cristo che viene in mezzo a noi diventando uno di noi. Ma il suo nascere è per noi un rinascere e il suo morire un risorgere. Per questo le Chiese d'Oriente considerano il Natale una festa pasquale. Non è solo la dolce memoria della nascita di un Bambino, è la celebrazione della rinascita dell'umanità che "geme interiormente aspettando l'adozione a figli e la redenzione del nostro corpo" (Romani, 8, 23).
Fermiamoci, allora, qui in questo nostro itinerario nel vasto orizzonte delle invocazioni rivolte al Bambino di Betlemme. Chi desidera, invece, uscire dal genere da noi adottato ed entrare nella sterminata letteratura "natalizia" dovrà solo confrontarsi con l'imbarazzo della scelta. Ci permettiamo, però, un consiglio tra i mille possibili, quello di riprendere tra le mani due deliziosi e intensi racconti. Il primo è il bellissimo e popolare Christmas Carol ("Canto di Natale) pubblicato da Charles Dickens nel 1843, e recentemente riproposto in versione cinematografica dalla Disney con la regia di Robert Zemeckis, con l'emozionante conversione "natalizia" del vecchio avaro Scrooge; l'altro è il meno noto ma altrettanto intenso Il dono dei Magi dell'americano O. Henry, pseudonimo di William S. Porter (1862-1910), breve storia di una coppia povera che si scambia un dono "sorprendentemente" inutile, ma straordinariamente emblematico del loro vero amore. Sì, perché il Natale non è una metafora spirituale, ma un segno efficace di grazia e di amore. Il filosofo Ludwig Wittgenstein nei suoi quaderni annotava: "Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo". Un evento che sommuove e feconda il terreno arido della storia.


(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2009)

Canzoni per il tempo di Natale: piae cantiones

Un'altra proposta semplice, tradizionale, e popolare per il Natale e i giorni seguenti:


A questo link testi e spartito di Puer natus in Bethlehem, una delle "piae cantiones" medievali svedesi-finlandesi, poi riprese e divulgate nel periodo protestante (1582) da Jacobus Finno.

http://antoniodipadova.blogspot.com

La musica di Natale.


Da circa 1600 anni, secoli prima di Tu scendi dalle stelle e perfino del recentissimo, benchè in latino, Adeste fideles, i cristiani hanno tra i loro canti di Natale più emozionanti l'inno che anche quest'anno vi ripropongo.
Avevo fatto l'anno passato un post in cui potete trovare approfondimenti, testi e spartiti di A solis ortus, l'inno natalizio di Sedulio, che adesso possiamo ascoltare nell'interpretazione della Schola Gregoriana Monostorinensis, un coro che viene dalla Romania e si impegna anche nella formazione dei ragazzi al Canto gregoriano (come si può leggere nella loro pagina web multilingua, anche in italiano)



Le stesse voci femminili della Schola Gregoriana Monostorinensis ci propongono anche una registrazione molto bella dell'introito della Messa del Giorno del Santo Natale, un classico dei classici: Puer Natus est nobis.



Puer Natus est nobis