DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

DITE A RENZO CHE SONO FELICE. Vita quotidiana delle persone in stato vegetativo al Don Orione di Bergamo. di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

di Alessandro Gnocchi
e Mario Palmaro
Dite a Renzo che io sono felice”.
Renzo è un nome di fantasia,
però questa non è la scena madre di
un romanzo, è un commovente frammento
di realtà. E la realtà, quando
è così intima, va protetta e avvolta almeno
in quello che resta del pudore
al tempo delle leggi sulla privacy.
Renzo e la moglie, che gli ha mandato
a dire la sua felicità, non hanno bisogno
di un separé dietro cui nascondersi,
ma di un luogo in cui chiedere
e ricevere attenzione e rispetto.
Perché lei, che chiameremo Lucia,
gli ha fatto sapere della sua capacità
di amare e di essere felice pur trovandosi
in un letto, in quella condizione
che oggi la medicina chiama
“stato vegetativo”.
Detto più brutalmente, ma con meno
imprecisione di quanto si potrebbe
immaginare, Lucia è una delle
ventiquattro Eluana Englaro di cui attualmente
si occupa il dottor Giambattista
Guizzetti al Centro Don Orione
di Bergamo. Qui, dal 1996, è attivo
un reparto che accoglie malati in stato
vegetativo, stato di minima responsività
e locked in syndrome. Qui,
Eluana Englaro sarebbe stata magari
compagna di stanza di Lucia, appena
uscita da quel letargo che la medicina
ha esplorato solo in minima parte.
Sarebbe stata curata, rispettata e
amata come tutti gli altri pazienti. Su
questo, il dottor Guizzetti è chiaro.
“Qui i malati come Eluana trovano
posto e assistenza. Il suo caso non era
più grave di altri che assistiamo. Abbiamo
malati immobilizzati in un letto
e apparentemente inconsapevoli di
ciò che li circonda e malati in grado
di stare su una sedia a rotelle, di seguire
un discorso e farsi intendere.
Abbiamo persino avuto pazienti che
sono migliorati al punto tale da poter
tornare a casa”.
Tutto ciò Guizzetti lo spiega per venire
incontro allo stupore di chi,
quando si parla di stato vegetativo,
immagina corpi tenuti in vita artificialmente
e poi, con sorpresa, scopre
persone vive, in cui il soffio vitale, l’anima,
continua testardamente a dare
forma al corpo. Perché è proprio questo
che colpisce chiunque entri per la
prima volta in questo reparto del Don
Orione. E Guizzetti, che alterna linguaggio
e gesti professionali alla ruvidità
di un cattolicesimo bergamasco
sopravvissuto alla burocrazia invadente
dei piani pastorali, è lì ad
aspettare la constatazione che, puntualmente,
si disegna sulla faccia dell’interlocutore:
niente macchinari,
persone che spesso riescono a muoversi,
guardano, ascoltano o che, se
pure mostrano di non guardare o di
non ascoltare, vivono senza l’aiuto di
alcunché di artificiale. Testimoni di
un attaccamento così radicale tra anima
e corpo da mostrare che alla vita
umana esiste una sola alternativa: la
morte. Un attaccamento così intimo
da rendere palpabile che alla vita
umana non si contrappone alcuna sua
gradazione, alcuna “zona grigia”. Dopo
aver fatto il giro del reparto accompagnati
da Guizzetti, dopo aver visto
i suoi pazienti, i loro familiari, il
personale che li assiste, si comprende
che, anche nelle circostanze più dolorose
della vita, ci si può trovare davanti
solo a un uomo o a un cadavere:
tertium non datur. Una verità tanto
più palpabile davanti al letto di ognuno
dei pazienti del Don Orione di
Bergamo: quelli capaci di relazioni
evidenti come quelli raccolti in un silenzio
indecifrabile.
A causa della confusione terminologica
in materia, nel 1994 la “Multi-
Society Task Force” sullo stato vegetativo
persistente ha definito i criteri
necessari per diagnosticarlo. Una sequela
di definizioni in fondo alla quale
rimane sempre la sagacia del medico
a decidere. “E in ogni caso –
spiega Guizzetti – la questione dello
stato di coscienza, intesa come consapevolezza
di sé e come capacità di
sperimentare sensazioni, è molto controversa,
in quanto solleva questioni
etiche di grave importanza. Tutti i ragionamenti
che si fanno attorno a
questi malati, e in particolare quello
che vorrebbe riconosciuta la liceità
morale della sospensione dell’idratazione
e dell’alimentazione, si basano
su due affermazioni non dimostrate:
che in nessun momento questi pazienti
sono consapevoli di sé e dell’ambiente,
e che mai sono in grado di
provare dolore o sofferenza”.
Ed è qui che racconta la storia di
Lucia. Una campionessa di ciclismo
ricoverata dopo una caduta. Ospedale,
coma, poi stato vegetativo e, dunque,
dimissione da un luogo non attrezzato
per assisterla e curarla. “Per
capire fino in fondo quella dichiarazione
di felicità – spiega il medico –
bisogna raccontare un antefatto. Durante
una delle periodiche riunioni
con i familiari, una giovane volontaria
si è alzata e ha fatto un discorso
molto bello, ma sicuramente molto
difficile da accettare, parlando del
desiderio di felicità che permane nel
cuore di questi malati. Aveva sorpreso
persino me. Tanto che quando alcuni
rappresentanti del personale sono
venuti a dirmi che si trattava di un
discorso senza senso sbattuto in faccia
a gente che soffre ho dovuto rifletterci
un bel po’. Poi, durante la
settimana, abbiamo accompagnato
Lucia in un ospedale di Brescia per
tentare una cura che avrebbe contribuito
a rilassare la sua muscolatura
dandole sollievo. E lì è accaduto il fatto.
Inaspettatamente, Lucia ha ripreso
a parlare. E, ancora più inaspettatamente,
ha dato ragione a quella ragazza
che molti avevano scambiato
per una pazza insensibile alle ragioni
dei malati e dei loro familiari”.
“Dite a Renzo che io sono felice”.
Che non significa negare il dolore, ma
avergli trovato un posto nella propria
esistenza e chiedere che trovi un posto
anche in quella dei propri cari. E,
a ben guardare, è molto più duro, più
faticoso, più doloroso sulla bocca di
Lucia che su quello della giovane volontaria:
come lo è sempre la messa
in pratica di una teoria rispetto alla
sua enunciazione.
Se poi ci si avvicina a Lucia, se la
si vede sofferente – mentre i suoi familiari
spiegano: “Questa mattina era
allegra, faceva un sacco di battute,
adesso è stanca…” – si comprende
quanto sia eroico e insieme umanissimo
quel: “Dite a Renzo che io sono
felice”. E si tocca con mano quanto
sia straordinario quel composto di
anima e corpo e che è l’uomo. Dove
l’anima, intimamente legata alla materia
di cui è forma, contemporaneamente
ne è indipendente e non risente
delle sue condizioni. Sempre
presente a se stessa, intimità tanto
con un corpo in perfetta efficienza,
quanto in quello di una Eluana Englaro
o in quello di un nonno che dimentica
il proprio nome e non riesce
a maneggiare il telefonino.
Eppure, il pensiero moderno si è
dato il compito di separare anima e
corpo, ha fatto della creatura umana
un angelo o una bestia, ma non un uomo.
Ed è chiaro che, quando anima e
corpo non sono più legati, se ne può
fare quello che si vuole. Ma se l’anima
è imprendibile, il corpo può essere
imprigionato in qualsiasi lager:
quelli in cui viene segregato, torturato,
ucciso, e quelli in cui viene manipolato,
abortito, eutanasizzato.
In questo reparto della bella periferia
bergamasca che guarda verso le
colline della Maresana, il dottor Guizzetti
si occupa dei corpi proprio perché
sa che non possono sussistere
senza l’anima. Non è un laico che fa
onestamente il medico, ma un medico
che fa onestamente il cattolico. Per
questo non si pone obiettivi standard
in base ai quali decidere della sorte
di un suo simile, ma fa tutto quanto
gli è possibile come medico e come
credente perché i suoi malati stiano
ogni giorno il meglio possibile. “Nel
malato in stato vegetativo – dice – raramente
si può ottenere la guarigione.
E sappiamo bene che, col passare
del tempo, un tale esito diventa sempre
più improbabile. Nonostante questo,
utilizzando i mezzi ordinari a nostra
disposizione, cerchiamo di alleviare
la sofferenza e migliorare la
qualità della vita. Non si può sempre
guarire, evento raro in queste situazioni,
ma sempre si può ‘prendersi cura’.
Io penso che questo il medico lo
possa fare al meglio quando abbia risolto
e chiarito a se stesso il significato
del suo essere mortale, della sua finitezza.
Quando un uomo comprende
di essere una canna che si può spezzare
in ogni momento, comprende pure
che, davanti a un malato, non può
mai dire: non c’è più niente da fare.
Non c’è mai un momento nell’assistenza
ad un essere umano in stato
vegetativo in cui possiamo dire: basta
adesso possiamo fermarci. Si tratta
semplicemente di trovare la cosa giusta
da fare. L’etica del prendersi cura
si traduce nella ricerca e nell’applicazione
delle cose giuste, continuando
a stare vicino al paziente senza cadere
nell’errore dell’accanimento o
dell’abbandono terapeutico”.
E che cosa impara un uomo che vive
ogni giorno a fianco di suoi simili
in queste condizioni? “Vivendo qui –
risponde Guizzetti – ho compiuto una
scoperta straordinaria. Mi sono reso
conto che se io ho sete posso alzarmi
e bere un bicchiere d’acqua, se ho
caldo posso farmi aria con un foglio
di carta, se ho fame posso andare in
cucina a prendermi un panino. Io lo
posso fare e questi malati no. Questa
banalissima constatazione mi ha fatto
capire quanto gusto abbiano un bicchiere
d’acqua, un poco d’aria, un
pezzo di pane. Diventano regali meravigliosi
se penso che potrei non
averli più o che avrei potuto non averli
mai. Ho dovuto trovarmi davanti a
questi malati per capire di essere una
creatura a cui è stato donato tutto, anche
il frammento più piccolo di ciò
che ha e di ciò che è”.
Eccolo il centuplo promesso già su
questa terra a chi lascia tutto in nome
del Signore. Non consiste nella moltiplicazione
degli averi, ma nella moltiplicazione
del gusto per ciò che si è
disposti ad abbandonare e si ritrova.
Tutto diventa straordinario, se si pensa
che avrebbe potuto non esserci, così
come è straordinario tutto ciò che
si salva da un naufragio. E le creature
sono proprio questo, degli esseri
salvati dal naufragio del nulla. Se solo
capissero questo, se solo non si incaponissero
nell’idea di essere i facitori
di se stessi, se solo si abbandonassero
all’idea di non poter disporre
del proprio essere rimettendolo nelle
mani di chi lo ha tratto dal niente, sarebbero
in grado di gustare la propria
vita per il centuplo.
“Dite a Renzo che io sono felice”:
sette parole che riassumono il senso
di ogni esistenza, anche di coloro che
non hanno neppure un raffreddore. E
lì, a raccoglierle ci può essere chiunque,
tanto un medico come Guizzetti,
quanto qualcuno che non ne comprende
il senso. In ogni caso, sono
dette: “Dite a Renzo che io sono felice”.
Sette parole che hanno avuto la
possibilità di essere pronunciate solo
perché qualcuno si è chinato su un
corpo apparentemente inanimato e lo
ha curato.
Bisogna passare almeno qualche
ora, magari come volontario, qui ai
piedi dei colli bergamaschi della Maresana.
Può fare solo bene, specialmente
ai giovani, che per loro ardimentosa
natura sono portati ad ammirare
il fisico eccezionale che stabilisce
il primato mondiale dei cento
metri piani piuttosto che ad accarezzare
quello del compagno di classe ridotto
su una sedia a rotelle. Ma farà
sicuramente bene anche agli adulti di
ogni età. Oltre a essere un meritorio
atto di carità, una visita a luoghi e
persone come questi può indurre
pensieri cha aiutano a mutare il proprio
orizzonte.
Qui, per esempio, si può intuire
quanto sia vero che, per amare completamente
Dio, un’anima ha bisogno
di tutto l’aiuto del corpo di cui è forma.
Ma, quel corpo, come insegna san
Bernardo di Chiaravalle, deve essere
privo di angustie, deve avere trovato
anch’esso compimento nella gloria.
Davanti al lavoro quotidiano di medici,
infermieri e volontari del Don
Orione diviene evidente che la cura
di un corpo malato, in qualche modo,
è la figurazione di quanto ci è necessario
per la vera beatitudine: la pacificazione
amorosa di un corpo e dell’anima
che lo abita.
Ma tutto questo, si obietterà, è mistica,
è qualcosa che ha poco a che fare
con la vita dei poveri mortali. E’ vero,
è la descrizione del quarto grado
dell’amore, quello supremo, che san
Bernardo racconta nel “De diligendo
Deo”. E’ mistica, ma proprio per questo
è qualcosa di molto concreto e riguarda
tutti.

Il Foglio 13 gennaio 2010