DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Facebook è un dispositivo persuasivo e omologante


Voglio iniziare a fare il punto su Facebook, perché ci abito ormai da tempo, e… più ci sto… più osservo che si tratta di un dispositivo che è:

a) apparentemente socialche bello conosco gente e siamo tutti “amici”
b) sicuramente di successoma come… non sei su Facebook ?!?

ma anche:

c) fortemente persuasivo - nel senso che induce in noi utenti comportamenti automatici e standard (ci vuole tutti veri e social)
d) e decisamente omologante – nel senso che induce in noi utenti assetti identitari, modalità di interazione e di narrazione che ci rendono “seriali” e “simili”

E allora? Comunque ci si diverte! Sì, senza dubbio. Solo che è meglio sapere che si è manipolati, che si è fortemente costituiti da un dispositivo omologante. E’ meglio sapere come funziona il gioco… per giocare meglio. Io voglio usare Facebook non solo per essere “una faccia” per lo più uguale alle altre di uno stesso libro, ma anche per esserci in modo critico e consapevole e per fare un uso creativo e formativo di una piattaforma che offre mille potenzialità.

Segnamoci un paio di appunti, prima di riaccedere al nostro affollato account di Facebook.

Su Facebook, a differenza che nel blogging, le cogenze del dispositivo rendono più standardizzati i processi di soggettivazione. Su Facebook si è più soggetti costituiti, che soggetti costituenti.

Partiamo dalla considerazione che, come già è stato detto per i blog, la decisione di aprire un account Facebook “costituisce una pubblicizzazione del sé, una sorta di promozione identitaria che, come per i marchi, passa attraverso una strategica proposta di un’identità visiva”.[1] Il social network Facebook accentua, d’altra parte, fin dal nome, la rilevanza assegnata alla promozione di un’identità visiva del sé: è il libro delle facce.[2]

Solo che, rispetto alla libertà espressiva che il blog ci consente (pensate alle mille possibilità di scegliere un template personalizzato, di organizzare gli spazi per i propri contenuti, di scegliere l’impostazione grafica, i colori dello sfondo, la testata, etc.) fin dai primi atti che noi facciamo, nel momento in cui siamo chiamati a produrre un’immagine di noi stessi, Facebook ci persuade a seguire un preciso regime di visibilità che non è esplicitamente prescritto ma che si articola su una serie di ingiunzioni.[3] Nel momento in cui costruiamo il nostro account, ci viene chiesto di inserire il nostro nome-cognome, la data di nascita, un indirizzo mail, una descrizione di noi stessi e ci viene ingiunto di caricare un’immagine di noi stessi, il nostro “avatar”, il nostro doppio digitale: “Upload a profile picture.”

È l’ingiunzione che tutti noi riceviamo. Possiamo scegliere di non far vedere a nessuno o di condividere solo con gli amici, alcuni dei nostri dati sensibili, quali la data di nascita o l’indirizzo mail. Quel che invece non possiamo in alcun modo nascondere è il nostro nome e cognome – il nostro nome utente - e la nostra immagine. Se decidiamo di non caricare alcuna immagine, comparirà nel nostro account un’immagine poco attraente, con l’ingiunzione a caricarne una: un punto interrogativo che in calce riporta l’ingiunzione Upload a profile picture.

Ora: non si dice né che siamo obbligati a farlo, né tantomeno che dobbiamo mettere una foto “vera” di noi stessi: ma, se non lo facciamo, saranno i nostri stessi “amici” a invitarci a farlo, perché tutti su Facebook hanno una loro immagine!

Quel che è specifico di questo dispositivo rispetto ad altri, è proprio il fatto che la quasi totalità degli utenti utilizza il proprio nome e cognome anagrafico e pubblica una propria foto. In questo senso la promozione visiva di sé risponde alle finalità del dispositivo stesso, che non lascia eccessivi margini ad una articolazione creativa della propria immagine, ma che ci vuole tutti presenti in un certo modo, un po’ come nella nostra carta d’identità, con i dati anagrafici veri.

Nei “Principi di Facebook” [4] che tutti noi utenti accettiamo nel momento in cui vogliamo iscriverci al Social Network si dice con chiarezza che la trasparenza e la sicurezza sono tra le finalità prioritarie del dispositivo:

“Abbiamo ideato Facebook per rendere il mondo più aperto e trasparente, nella convinzione che ciò possa creare una maggiore comprensione e migliorare le comunicazioni. Facebook promuove l’apertura e la trasparenza offrendo agli utenti un’ampia libertà di condivisione e di contatto e si propone di raggiungere tali scopi sulla base di alcuni principi”.

Trasparenza quindi come principio base della connessione. Il tutto è meglio dettagliato nella “Dichiarazione dei diritti” al punto 4 relativo alla Registrazione e sicurezza dell’account:

“Gli utenti di Facebook forniscono il proprio nome e le proprie informazioni reali e invitiamo tutti a fare lo stesso”. E ancora: “Per quanto riguarda la registrazione e al fine di garantire la sicurezza del proprio account, l’utente si impegna a non fornire informazioni personali false su Facebook o creare un account per conto di un’altra persona senza autorizzazione”. Al comma 5, inoltre, l’utente si impegna ad “Assicurarsi che le proprie informazioni di contatto siano sempre corrette e aggiornate.”

Facebook insomma ci vuole veri e reali in quanto individui: per dirla in termini filosofici Facebook induce processi di soggettivazione individualizzanti, basati cioè sulla singolarità: vorrebbe in qualche modo farci tornare ad una visione monolitica e coesa dell’identità vietandoci in modo esplicito di giocare con riposizionamenti del Sé creativi nel momento in cui ci chiede di non utilizzare un nome falso o di assumere l’identità altrui.

Questo aspetto del dispositivo, tuttavia, potenzia enormemente l’effetto di somiglianza con il reale del nostro doppio virtuale: così come noi siamo indotti a dare di noi stessi un’immagine “vera”, assegniamo anche agli altri “avatar”, ai doppi virtuali dei nostri amici, una consistenza che in altri luoghi della rete non possiede la stessa forza persuasiva.

Questo spiega come mai il falso account di Alessandro Baricco abbia potuto essere scambiato per lo scrittore Alessandro Baricco in persona da molti utenti come ci ha ampiamente raccontato Giorgio Cappozzo su L’Espresso (leggete il suo articolo, è davvero illuminante!). I poteri dell’immagine, lungi dall’essere rimossi, ritornano con forza a governare le dinamiche di un dispositivo che ci mette nelle condizioni di credere “vere” le interazioni dei nostri doppi virtuali.

Il che è perfettamente in linea con la finalità originaria di Facebook che voleva semplicemente mettere in rete persone – gli studenti dei College americani – che si conoscevano off-line o che quantomeno frequentavano la stessa scuola.

Rigido è anche il regime discorsivo che regolamenta lo status: con un massimo di 420 caratteri, spazi inclusi, sono indotto a rispondere sempre alla stessa domanda che incessantemente si rigenera: “cosa pensi in questo momento?”. La gabbia è a tal punto cogente che impone all’utente, nella risposta, l’uso della terza persona singolare perché in modo automatico fa iniziare la frase sempre con l’iterazione del proprio nome-cognome: la mia risposta, non appena pubblicata, oltre che comparire sul mio profilo, viene immeditamente resa pubblica nella bacheca in cui tutti i miei “amici” possono leggere che “Maddalena Mapelli in questo momento sta scrivendo un articolo su Facebook”.

Se seguissi in modo puntuale le prescrizioni e le ingiunzioni del dispositivo, mi limiterei quindi, a produrre brevi narrazioni standardizzate, all’interno di una “casa comune” accogliente e per tutti uguale anche dal punto di vista grafico, in cui i miei contenuti vengono condivisi con i miei amici: in cui la mia identità viene ulteriormente rafforzata dalle appartenenze che scelgo attraverso l’iscrizione a gruppi con cui condivido interessi o a pagine di personaggi famosi di cui voglio diventare fan.

Ma forse, proprio perché Facebook è un dispositivo fortemente persuasivo e omologante, proprio perché pone vincoli e regole precise, può essere potenzialmente molto più formativo e creativo di altri, nel momento in cui, a partire dal mio account, riesco a trovare le vie per aggirarne gli interdetti e creare dei contro-spazi discorsivi e di visibilità che mi facciano riflettere sul dispositivo stesso.
Per questo è importante parlare di Facebook, discuterne. E forzare il dispositivo Facebook in tutti i modi. Fino a farsi, come succede a tanti miei amici, bannare, cioè fino a produrre la disattivazione del proprio account. Che tra l’altro, si può subito riaprire, con lo stesso nome-cognome! La sperimentazione di un dispositivo passa anche attraverso linee di rottura dello stesso.

Sono solo appunti.

Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensate…


[1] Si veda, Festi G., Catepol a segno, in Mapelli M., Margiotta U., Dai blog ai social network, Mimesis, Milano 2009, p. 27.

[2] “Il nome Facebook si riferisce agli annuari con le foto di ogni singolo membro (facebooks) che alcuni college e scuole preparatorie statunitensi pubblicano all’inizio dell’anno accademico. Fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, studente presso l’università di Harvard, conta attualmente oltre 160 milioni di utenti in tutto il mondo”. (da Wikipedia) E’ evidente che la finalità originaria (mettere in connessione gli studenti di una scuola) è ora profondamente cambiata vista la scala planetaria degli utenti potenzialmente connessi.

[3] Fogg B.J., Picture Persuasion in Facebook, Corso alla Stanford University, California, su Psychology of Facebook, September 17, 2007: “At the point we posted our mugshot, our friends could all see we said yes to “Upload a profile picture.” Ah, the joy of social complicity! But even more important, this simple act changes us, deep inside. Our relationship with Facebook gets cozier. Facebook is no longer a stranger; it’s a friend. And as such, we become much more likely to agree to future requests on Facebook. Yes, the picture compliance seems small, but the timing is ideal for training us well. That’s the genius of Facebook. The pattern of persuasion is established early and often. Indeed, this pattern has made Facebook, Inc., enormously wealthy” find the whole thing fascinating. Facebook is a persuasive technology. By this I mean that Facebook is a interactive system designed to change human behaviors. I’ve investigated persuasive technology at Stanford since 1993. I can say that during this year, in 2007, no other technology system has been more powerfully persuasive than Facebook.” http://credibility.stanford.edu/captology/notebook/archives.new/2007/09/picture_persuas_1.html

[4] Facciamo riferimento alla “La regolamentazione dell’uso di Facebook”, secondo l’ultima versione messa a disposizione degli utenti il 28 agosto 2009 (u. v. 10 gennaio 2010) che si articola in “Principi di Facebook” (10 articoli) e nella “Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità” che è stata estratta dai Principi di Facebook e regola la nostra relazione con gli utenti e con chiunque interagisca con Facebook.

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