di Carlo Panella
Tratto da Il Foglio del 29 gennaio 2010
Tramite il blog di Carlo Panella
Ali Zamani e Arash Rahmanpur sono stati impiccati a Teheran con l’accusa di essere “mohareb”, “nemici di Dio”;
sono le prime vittime della stretta annunciata da Khamenei e Ahmadinejad subito dopo le manifestazioni della Ashura e la loro esecuzione segna un netto salto di ferocia nel regime che ha gia condannatoa morte altri nove oppositori. L’accusa di essere “nemici di Dio” non è soltanto orrenda in sé, intollerabile come motivazione di pena e ancor più di morte, ma è anche uno strumento repressivo micidiale: per essere elevata non necessita infatti di nessuna prova, di nessun riscontro materiale. E’ un puro reato di opinione, ma in Iran porta alla forca. Infatti, Zamani e Rahmanpur, che pare siano membri della Assemblea del Regno, una organizzazione filo monarchica, secondo quanto affermato da Nasrin Sotudeh, legale di Rahmanpur, non hanno neanche partecipato alle manifestazioni che si sono susseguite da giugno in poi, perché erano già in prigione da mesi, ma la colpa che li ha portati al patibolo era di opporsi al regime, e quindi alla volontà di Allah, considerati un unicum inscindibile. L’avvocatessa ha anche aggiunto che Rahmanpur “è stato costretto a confessarsi colpevole per salvare la propria famiglia dalle gravi ritorsioni che erano state minacciate dagli inquirenti”. Tutti gli altri nove condannati a morte, sono membri dell’Assemblea del Regno o dei Mujaheddin del Popolo e sono in attesa dell’esito dell’appello presso la Corte Suprema. Da ieri dunque sui manifestanti che si oppongono al regime di Khamenei e Ahmadinejad, pesa una minaccia mortale: non più solo la brutalità dei pasdaran e dei bassiji, non più solo gli arresti di massa, ma anche la forca per la condanna più infamante nel contesto iraniano. Il regime torna, dopo 30 anni, al clima del Terrore che aveva caratterizzato i suoi primi anni quando questa stessa accusa veniva elevata contro buona parte della direzione rivoluzionaria che Khomeini aveva elevato al governo nel 1979 e che tra il 1981 e il 1982 fu da lui stesso deposta e spesso mandata a morte (il tutto, va detto, con la piena collaborazione di Mir Hossein Mussavi che Khomeini aveva nominato primo ministro e di Rafsanjani che era allora presidente del Majlis). A fronte di questa feroce escalation, il leader dei riformisti, l’ayatollah Khatami ha deciso una mossa clamorosa, che ha spaccato il fronte dei leader dell’opposizione: ha inviato una lettera pubblica all’ayatollah Khamenei in cui afferma che “il fronte riformista è disposto a riconoscere la legittimità dell’attuale governo a patto che questi metta fine alle azioni radicali”. Naturalmente, questo riconoscimento politico toglierebbe ogni ragione e anche legittimità alle manifestazioni di protesta che sono nate e si sono sviluppate proprio per contestare la correttezza di elezioni palesemente piene di brogli e quindi la stessa nomina di Ahmadinejad a presidente. Dunque, una proposta di tregua tutta sulla difensiva, destinata a disarmare in parte il movimento, che è stata condivisa anche dal leader riformista Mehdi Karrubi, che ha accusato Khatami di “tradimento” ma che poi, sia pure “con problemi” ha “riconosciuto Ahmadinejad come presidente”. Anche se suo figlio ha poi precisato che questo riconoscimento non deriva dalla correttezza di un voto che Karrubi continua a ritenere falsato dai brogli: “Poiché la Guida gli ha trasmesso i poteri, mio padre considera Ahmadinejad il capo del governo di questo sistema”). Zahra Rahnavard, moglie di Moussavi si è invece nettamente dissociata da questa sostanziale resa: “ Nessun compromesso dietro le quinte, non riconosceremo il governo di Mahmud Ahmadinejad. Mussavi ed io non riconosceremo il governo di Ahmadinejad formato sulla base dei brogli. Continueremo a perseguire con sincerità le richieste e i diritti del popolo”.