di Marcello Foa
Tratto da Il Giornale del 29 gennaio 2010
Con le parole, Barack Obama ci sa fare. Ed è un eccellente interprete.
Dategli un microfono, una platea e un paio di schermi su cui leggere il discorso, studiato accuratamente, e incanterà tutti. In campagna elettorale interpretò, magistralmente, il ruolo dell’Uomo della Provvidenza; il cavaliere, bello, onesto e idealista, che in un’America sconvolta dalla crisi appariva del nulla promettendo una nuova frontiera.
Poi, eletto, ha recitato la parte dello statista dei buoni sentimenti, che spalanca le braccia al mondo e invita gli americani a superare le divergenze politiche. Democratico, sì ma bipartisan, trasversale, centrista. Un moderato pragmatico capace di citare Gandhi e Martin Luther King, nonché, ovviamente, John Fitzgerald Kennedy.
L’altra notte gli americani hanno riscoperto il terzo Obama, grintoso, arrabbiato, della serie: la rivincita. Sembrava Michael Douglas nel film, «Il presidente, una storia d’amore», quando l’inquilino della Casa Bianca caduto in disgrazia, nel momento di massima difficoltà, si riscattava pronunciando un discorso da grande capo, tutta grinta ed emozione. Un discorso da pelle d’oca. In quel film il «presidente» Douglas, ovviamente, trionfò.
E anche Obama mercoledì sera, a giudicare dai sondaggi ha fatto centro. Gli americani hanno apprezzato il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione. Lo hanno sentito finalmente vicino; sensibile alle loro esigenze, alle loro preoccupazioni. Un leader del popolo, che nel 2008 faceva sognare, mentre ora sa interpretare la rabbia della gente e fustiga i politici corrotti, lo strapotere delle lobby, lo scandaloso comportamento delle banche, l’avidità degli operatori della finanza.
Bravo, bravissimo. Anzi, no. Furbo, furbissimo. Il suo discorso non passerà certo alla storia. Perché le sue belle frasi mirano solo a strappare l’applauso della platea. Dietro c’è il vuoto. O meglio: la solita ricetta. Vaga, equivoca, ambivalente. Senza sostanza. E straordinariamente populista.
Obama si è scagliato contro i miliardi spesi per salvare le banche, osservando che la gente «odia quel provvedimento come una seduta dal dentista», ha fatto propri «i dubbi corrosivi sulla politica di Washington», ha denunciato «la meschinità di Wall Street, che è stata ricompensata, mentre il popolo continua a soffrire» e soprattutto la «smisurata influenza delle lobby».
Accuse plausibili. Di più: fondate. Ma pronunciate da un leader che non può più chiamarsi fuori. Nel 2008 era un outsider e poteva legittimamente pretendere credito. Ora non più. Di quella capitale faziosa e immorale, Obama da un anno è il primo inquilino. E in questi dodici mesi non ha combattuto il malgoverno. Se ne è reso complice. Il suo ministro del Tesoro Tim Geithner e il consigliere Larry Summers sono i rappresentanti di quel mondo bancario che ieri ha fustigato imperiosamente. Il Pentagono è saldamente in mano alle lobby dell’industria della Difesa, mentre non si contano ministri, sottosegretari e funzionari con «interessi particolari». Con Obama presidente, l’influenza delle lobby non è diminuita, forse è persino aumentata.
E il discorso sull’Unione non segnala certo un cambiamento di rotta. Al contrario. Fino a oggi Barack aveva avuto solo due sussulti da vero leader: sulla Sanità, ma non è riuscito a imporsi, e una settimana fa, quando, amareggiato dalla sconfitta elettorale in Massachusetts, si è presentato in tv, affiancato da Paul Volcker, l’unico consigliere economico anticonformista, annunciando un piano per ridurre lo strapotere delle grandi banche. Wall Street si è spaventata. Ma il piano l’altra notte è sparito, l’Obama furioso preferisce «un panel per studiare le riforme appropriate». L’intenzione di punire gli speculatori di Wall Street è già stata annacquata. Com’è nel suo stile.