DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

IL DOLORE E IL GRIDO E NOI APRIAMO LE NOSTRE PALME VUOTE

DAVIDE RONDONI
L
a tragedia di Haiti lascia senza fiato. Gigantesca. Più di quanto si immaginava. Il numero delle vit­time imprecisato, si parla di decine e decine di migliaia. In una parte di un’isola già povera e provata da mi­seria e fatica di vivere, si è abbattu­ta una sventura che lascia attoniti. Come se a sventura si aggiungesse sventura in un baratro senza fon­do. Haiti, nome esotico e di buia mi­seria. Nome di terra lontana. Di po­polo provato e povero. E il fiato non si sa dove prenderlo. Se metti la fac­cia tra le mani, il respiro non torna. E se anche ti volti da un’altra parte, il respiro non torna. E se ancora ma­ledici i terremoti, non torna. Come non tornano le decine di migliaia di innocenti. I bambini e le donne. Come non tornano i sepolti vivi.
Un raddoppiamento di male. Di sventura. Un raddoppiamento di catastrofe. Una insistenza del dolo­re e della mancanza di fiato. Come se nessun 'perché' gridato in fac­cia a nessuno e nemmeno gridato in faccia al cielo potesse esaurire lo sconforto, e la durezza che impie­trisce davanti al disastro e alle im­magini di disastro. Nessun 'perché' rigirato nelle mani, nessuna do­manda ricacciata in gola, può e­saurire l’inquietudine. Una doppia ingiustizia. Una moltiplicata sven­tura. Anche il cuore più sordo sen­te il grido di questa sventura. An­che il cuore più duro si crepa da­vanti alla morte che domina così a­pertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe.
Quasi non si arriva nemmeno alla domanda, lecita, urgente di cosa si può fare, di fronte a questa tragedia. Quasi non si arriva a formulare nes­suna domanda su cosa fare, perché si rimane inchiodati a una doman­da più forte, più radicale: cosa pos­siamo essere? Sì, insomma, cosa si è, cosa è essere uomini davanti a questi eventi? Perché sembra qua­si che ogni forza nostra, ogni uma­na dignità siano annullate. Radiate. Come se esser uomini davanti a ta­li tragedie sia quasi una cosa grot­tesca. Tappi di sughero nel mare in tempesta. Formiche in balìa della strage, come diceva Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore.
Da dove riprendere fiato, umanità, dignità davanti a tale strage? Non c’è altra possibilità: davanti a que­sto genere di cose, o si prega o si maledice Dio. O si è credenti o si di­venta contro Dio. Una delle due. E se il cristiano dice di esser quello che prega, invece di esser l’uomo che maledice, non lo fa per senti­mentalismo. Non lo fa per como­dità. Anzi, è più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero. Perché quando il mistero della vita sovra­sta – nella sventura come nelle grandi gioie – è più vero aprire le palme vuote, o piene di calcinacci o di sangue dei fratelli e dire: tieni­li nelle tue braccia. Tienili nel Tuo cuore. Perché noi non riusciamo a conservare nemmeno ciò che a­miamo. Perché la vita è più grande di noi, ci eccede da ogni parte, e la morte è un momento di ecceden­za della vita. Un momento in cui la vita tocca fisicamente il suo miste­ro.
La natura non è Dio. In natura esi­stono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti. Ma la natu­ra non è Dio. Non preghiamo la na­tura, che ha pregi e difetti, come o­gni creatura. Preghiamo Dio crea­tore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fra­telli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sere­no nel proprio letto. Che ci ricor­dano, nel loro dolore, che non sia­mo padroni del destino.

Avvenire 14 gennaio 2010