Articolo di Michele Brambilla, pubblicato da La Stampa.
A Verona l’altra sera c’erano mille persone in una sala pubblica per sentire il vescovo Giuseppe Zenti e l’astrofisica Margherita Hack impegnati in duello su un tema non proprio da niente: esiste Dio? All’esterno c’erano almeno altre cinquecento persone che avrebbero voluto assistere al confronto tra il monsignore e la scienziata atea.
E che hanno dovuto accontentarsi di ascoltare in qualche modo da un altoparlante.
Chi scrive aveva l’incarico di moderare i due contendenti; e soprattutto di moderare il pubblico, equamente diviso tra i cattolici veronesi e i militanti della Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti, dei quali la Hack è presidente onorario) venuti in pullman da mezza Italia. Il timore era che la temperatura salisse come ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini. Invece, proprio sotto gli occhi della professoressa Hack, che ai miracoli non crede, è avvenuto un miracolo. Rispetto reciproco, toni garbati, accettazione da parte del pubblico dell’invito a non interrompere con applausi o contestazioni. Solo alla fine c’è stato un lungo, quasi interminabile applauso a entrambi i «contendenti», un applauso la cui intensità è sembrata significare un «grazie per averci parlato di questi temi».
Naturalmente - e ci mancherebbe - nessuno dei due ha cambiato idea. Però nessuno dei due ha preteso che la propria fosse tale da imporsi con l’evidenza dei fatti e della ragione. Margherita Hack si è ben guardata dal fare come alcuni suoi colleghi e (se ci si passa il termine) «correligionari» i quali pretendono di affermare che uno scienziato non può credere in Dio, e che c’è contrasto tra scienza e fede. «La scienza - ha detto - non può dare risposte alla domanda sull’esistenza o sull’inesistenza di Dio. Infatti ci sono scienziati atei, agnostici e credenti. Io non credo, ma non ho una ragione scientifica per non credere. Semplicemente penso che, di fronte al Mistero dell’Universo e della Vita, l’idea di un Dio creatore sia una risposta un po’ facilona. Anch’io sono meravigliata nel constatare che da una zuppa primordiale di particelle elementari si sia sviluppata una vita così complessa. Ma mi accontento di spiegarlo con l’esistenza della materia. Sono atea, ma ammetto che anche il mio ateismo è una fede non dimostrabile».
Monsignor Zenti ha replicato che «la materia non spiega tutto, basta osservare l’uomo, le cui attività sono in gran parte immateriali: il pensiero, le emozioni, i sentimenti». E ha spiegato che la sua fede deriva da un’esperienza: «È la vita che mi dimostra che Dio c’è ed è in relazione con me». Non sono mancati i colpi di fioretto: «L’uomo si è inventato Dio anche per esorcizzare la paura della morte», ha detto la Hack. Affermazione alla quale un credente potrebbe replicare che l’ateismo è la tentazione dell’uomo di sentirsi padrone di decidere da sé che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Discussioni che potrebbero continuare all’infinito.
Ma che l’altra sera hanno avuto l’inedito sapore del rispetto e dell’umiltà, facendo da lezione a un Paese dove pare che ogni discussione sia una battaglia all’ultimo sangue, e dove nessuno si vuole discostare di un millimetro dalla propria fazione di appartenenza: berlusconiani contro anti-berlusconiani, craxiani contro anti-craxiani, feltriani e finiani, Bossi e Casini, Fede e Santoro, Inter e Milan, tutti siamo ormai abituati a litigare partendo da una aprioristica scelta di campo.
La folla di Verona dell’altra sera è pure il segno di quanto fossero sbagliate le previsioni di coloro che volevano l’uomo del Duemila indifferente alla questione religiosa. Anche nel mondo delle cybercomunicazioni e dell’ingegneria genetica, la domanda sull’esistenza o meno di Dio resta la stessa dei primi passi dell’umanità; e la sola destinata ad appassionare per sempre. Perché non è una domanda che riguardi solo il Cielo (è abitato o no?), questione della quale potremmo anche infischiarcene. Riguarda ciascuno di noi, la nostra origine e il nostro futuro. Siamo figli di un Progetto destinati all’Eternità? Oppure, come diceva amaro Petrolini, «siamo pacchi senza valore che l’ostetrica spedisce al becchino?». Il grande pubblico di Verona è anche, se ci è permesso, una lezione per tanto clero, che da tempo - forse nell’illusione di «seguire il mondo» - parla più spesso e volentieri di politica e di sociologia, trascurando il suo core business, l’unico che possa riempire nuovamente le chiese.