DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA COGNIZIONE DEL DOLORE Un mistero che tormenta da sempre filosofi e teologi. Ma solo il poeta che parla con una capra lo può avvicinare

di Maurizio Schoepflin
Per comprendere – oddio, comprendere
forse è troppo! meglio: per
avvicinare – la questione del dolore è
utile e opportuno dialogare con le capre.
Se ne accorse il grande poeta
Umberto Saba, che in una celebre lirica
dedicata a uno di quei miti animali
così verseggiava: “Ho parlato a
una capra./ Era sola sul prato, era legata./
Sazia d’erba, bagnata/ dalla
pioggia, belava./ Quell’uguale belato
era fraterno/ al mio dolore. Ed io risposi,
prima/ per celia, poi perché il
dolore è eterno,/ ha una voce e non varia./
Questa voce sentiva/ gemere in
una capra solitaria./ In una capra dal
viso semita/ sentiva querelarsi ogni altro
male,/ ogni altra vita”.
In effetti, la capra cantata da Saba
ci offre tre preziose informazioni sul
dolore: esso riguarda tutto e tutti, ovvero,
come direbbero i filosofi, è cosmico;
è sempre esistito e sempre esisterà:
il belato caprino ne attesta infatti
l’eternità; infine, esso sembra
possedere una sorta di capacità di affratellamento,
caratteristica che la
saggezza popolare ha intuito nel momento
in cui ha scoperto che una sofferenza
condivisa si trasforma quasi
in una gioia, il mal comune diventa un
mezzo gaudio.
L’universalità del dolore fu chiara
sin dalle origini della civiltà occidentale.
A questo proposito, risulta assai
esplicativo un aneddoto riguardante il
celebre pensatore greco Democrito,
padre del materialismo, vissuto tra il
V e il IV secolo avanti Cristo. All’indomani
della morte della moglie, il potentissimo
re persiano Dario era terribilmente
affranto e si rivolse al filosofo,
il quale gli assicurò che avrebbe
riportato in vita la sua amata consorte
a condizione che il sovrano avesse
soddisfatto tutte le sue richieste. Dario,
che deteneva un immenso potere,
si sentiva sicuro di riuscire a fare ciò
che Democrito gli avrebbe chiesto; ma
non appena il filosofo lo invitò a “scrivere
sulla tomba della morta il nome
di tre i quali fossero vissuti senza aver
mai provato dolore”, si accorse che
non sarebbe assolutamente stato in
grado di soddisfare quel desiderio; al
che, “Democrito, ridendo secondo il
suo costume, gli disse: ‘Perché, o irragionevolissimo
uomo, piangi senza ritegno
come se tu fossi il solo a cui è
toccata una tale sventura, tu che non
potresti trovare tra tutte le passate generazioni
neppure un uomo solo che
sia vissuto senza provare la sua parte
di dolore?’”. Da oltre venticinque secoli,
dunque, l’uomo sa che nessuno
può sfuggire al dolore, e non v’è stato
filosofo che abbia contraddetto questa
certezza: diversi, spesso diversissimi,
sono stati i tentativi di soluzione del
terribile enigma della sofferenza
avanzati dai vari pensatori, ma non
troviamo nella storia del pensiero chi
abbia negato la presenza devastante
del dolore, di un dolore che non risparmia
niente e nessuno.
A mettere particolarmente in luce
tale cosmicità è stato Arthur Schopenhauer,
che nel suo capolavoro “Il
mondo come volontà e rappresentazione”,
pubblicato nel 1818 (con la data
del 1819), scrive tra l’altro: “Già vedemmo
la natura priva di conoscenza
avere per suo intimo essere un continuo
aspirare, senza meta e senza posa;
ben più evidente ci apparisce questa
aspirazione considerando l’animale
e l’uomo. Volere e aspirare è tutta
l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile
sete. Ma la base d’ogni volere
è bisogno, mancanza, ossia dolore, a
cui l’uomo è vincolato dall’origine,
per natura”. Secondo il filosofo di
Danzica, il filo d’erba che a fatica buca
la terra, l’albero che cerca la luce
del sole laddove il bosco è più fitto,
sono spinti dal bisogno e a muoverli è
una volontà universale che è causa di
un dolore infinito; ciò si rende ancora
più tragicamente evidente nel caso
degli animali e degli uomini, tutti
schiavi del medesimo volere che produce
incessante sofferenza: ecco perché
il poeta e la capra si intendono alla
perfezione. Interpretato secondo
prospettive differenti, a volte persino
assorbito e, per così dire, diluito in
una visione complessivamente positiva
della realtà, come, seppur per motivi
assai diversi, accade nella speculazione
di Leibniz e in quella di Hegel,
il dolore l’ha fatta da padrone sulla
scena della filosofia occidentale,
ma – si potrebbe aggiungere – anche
della letteratura e dell’arte in genere.
Schopenhauer lo considerò la realtà
centrale del mondo e dell’uomo, radicalizzando,
ma non smentendo, quella
convinzione che abbiamo visto già
chiaramente delineata in Democrito.
Si potrebbe forse affermare che Friedrich
Nietzsche abbia deragliato rispetto
a questa concezione che riconosce
nel dolore la cifra caratteristica
della vita umana? No di certo. Egli ha
sì messo in atto uno dei tentativi più
drammatici e sconvolgenti di superare
la terribile soglia della sofferenza,
ma certamente non ha negato che essa
esista e sia orribilmente pervasiva:
a questo riguardo, sicuramente non è
casuale che egli stesso, ricordando
più volte l’inizio del suo filosofare risalente
all’età di dodici-tredici anni,
ci informi che il primo problema che
suscitò l’interesse di lui poco più che
bambino sia stato proprio quello dell’origine
del male.
Anche le grandi filosofie della necessità
– si pensi, per esempio, allo
stoicismo e allo spinozismo –, quelle
che hanno affermato che tutto è come
deve essere e tutto deve essere come
è, non hanno negato la presenza e lo
spessore del dolore; esse, piuttosto,
alla luce del presupposto metafisico
secondo il quale niente può essere
cambiato nell’ordine necessario del
mondo, hanno elaborato alcune interessanti
indicazioni etiche finalizzate
ad aiutare l’uomo ad affrontare meglio
l’incontro con la sofferenza e a
non soccombere di fronte a essa. Scrive
nel “De providentia” Lucio Anneo
Seneca, il massimo esponente della
filosofia stoica dell’antica Roma: “Ad
un uomo buono non può accadere
nulla di male: i contrari non si mescolano
mai. Come tutti i fiumi, tutte le
piogge che cadono dal cielo, tutto il
fluire delle sorgenti curative non muta
la salsedine del mare e nemmeno
l’attenua, così l’assalto delle avversità
non piega la costanza dell’uomo forte:
egli mantiene la sua coerenza e valuta
tutto l’accaduto secondo le sue prospettive,
perché è realmente più forte
di ogni evento esterno. Con ciò non
dico che sia insensibile, ma che è superiore
e, abitualmente sereno e tranquillo,
sa ergersi contro quanto lo assale.
Vede in ogni avversità un allenamento”.
Ecco, dunque, che il problema
del dolore diventa il problema
della resistenza a esso e della sua
sopportabilità.
E’ noto che la filosofia ha, in un certo
senso, privilegiato la questione del
male rispetto a quella del dolore, considerando
quest’ultimo una componente
del più vasto e impenetrabile
mysterium iniquitatis. Tuttavia, quando
si sono posti direttamente dinanzi alla
presenza del dolore, lasciando da
parte la dimensione più squisitamente
metafisica del problema per affrontarne
il risvolto etico, ovvero quello
concernente l’atteggiamento che l’uomo
è chiamato ad assumere di fronte
al dispiegarsi della sofferenza, i filosofi
hanno in genere preferito sforzarsi
di intravedere e di proporre vie di liberazione,
antidoti capaci di neutralizzare
la velenosità del dolore, veri e
propri medicamenti che curassero i
mali dell’anima e del corpo (celebre,
a questo riguardo, è rimasta la lezione
di Epicuro che, da buon terapeuta
dello spirito, prescrisse un quadrifarmaco
a suo giudizio capace di scacciare
dolori e paure dal cuore dell’uomo).
Molto acuta appare a tale proposito
la pagina del “Gattopardo” in cui
Tomasi di Lampedusa narra che il
protagonista “Don Fabrizio pensò a
una medicina scoperta da poco negli
Stati Uniti d’America che permetteva
di non soffrire durante le operazioni
più crudeli, di rimanere sereni fra le
sventure. Morfina lo avevano chiamato
questo rozzo surrogato chimico dello
stoicismo pagano, della rassegnazione
cristiana”. Come si è già accennato
e come la capra di Umberto Saba
ci ricorda, la solidarietà e la condivisione
sono sempre state considerate
validi rimedi contro il dolore. Appoggiandosi
all’autorità del filosofo per
eccellenza, Aristotele, lo afferma anche
san Tommaso nella “Somma Teologica”,
ove, rispondendo alla domanda
“se il dolore e la tristezza siano alleviati
dalla compassione degli amici”,
sostiene: “L’amico che compiange
nella tristezza, di suo consola. Il Filosofo
lo prova con due ragioni. La prima
accenna al fatto che la tristezza si
presenta come un peso, dal quale uno
cerca di essere alleggerito, essendo effetto
proprio della tristezza deprimere.
Perciò quando uno vede altri rattristati
dal proprio dolore, ha l’idea
che gli altri portino il suo peso con lui,
nel tentativo di alleggerirlo; e quindi
sente più leggero il peso della tristezza.
La seconda ragione, che è anche la
migliore, accenna al fatto che dalle
condoglianze dell’amico uno si accorge
di essere amato; e questo è piacevole,
come sopra abbiamo detto. Perciò,
siccome ogni piacere allevia il dolore,
secondo le considerazioni precedenti,
ne segue che il compianto degli amici
viene a mitigare la tristezza”.
Per quanto lontanissimo, sia cronologicamente
che idealmente, da san
Tommaso, anche Schopenhauer ravvisa
nella compassione una delle poche
armi in mano all’uomo per non soccombere
sotto l’immane peso del dolore:
“Quel che adunque bontà – si legge
nel ‘Mondo come volontà e rappresentazione’
–, amore e nobiltà posson
fare per altri, è sempre nient’altro che
lenimento dei loro mali; e quel che
per conseguenza può muoverle alle
buone azioni e opere dell’amore, è
sempre soltanto la conoscenza dell’altrui
dolore, fatto comprensibile attraverso
il dolore proprio, e messo al pari
di questo. Ma da ciò risulta che il
puro amore (agape, caritas) è, per sua
natura compassione, sia pur grande o
piccolo (è tra questi ogni desiderio
inappagato) il dolore ch’esso lenisce”.
Questo stretto legame che il non cristiano
Schopenhauer stabilisce tra dolore
e amore trova da sempre nella rivelazione
cristiana la più completa
esplicazione e realizzazione. In essa il
mistero della sofferenza è posto decisamente
al centro dell’intervento stesso
di Dio nella storia, intervento che
culmina con il sacrificio di Cristo sulla
croce, vertice della sua passione e
del suo amore, strumento di tortura e
di salvezza, attraverso cui il dolore
viene definitivamente sconfitto. Nel
1984, il Santo Padre Giovanni Paolo II
pubblicò una lettera apostolica nel
cui titolo “Salvifici doloris” vengono
saldati due termini apparentemente
inconciliabili: dolore e salvezza, lungi
dall’escludersi, si implicano a vicenda
e la fede cristiana rende certi sia che
la sofferenza ha un immenso potere
salvifico, sia che non v’è possibilità di
conquistare il Paradiso senza passare
attraverso la porta stretta del dolore.
Il grande filosofo danese dell’Ottocento
Søren Kierkegaard fu tanto convinto
di ciò che in una delle sue opere
maggiori, “Esercizio del cristianesimo”,
parlando dell’uomo credente,
scrisse a un certo punto: “Se questo
cristiano – devo dire il cristiano sofferente?
No, non c’è bisogno perché
ogni vero cristiano è sofferente…”. Tale
intima unione tra la dimensione
della sofferenza e quella della fede
cristiana ha spesso urtato la sensibilità
dei filosofi, tra i quali spicca
Nietzsche che, come è noto, criticò
aspramente questa specie di amore
cristiano per il dolore, considerandolo
una delle caratteristiche salienti
della morale degli schiavi, tipica proprio
dei seguaci del Vangelo.
A proposito della scarso appeal filosofico
– mi si passi l’espressione –
del tema del dolore, afferma il pensatore
cattolico francese Gabriel Marcel,
vissuto tra il 1889 e il 1973: “Benché
la sofferenza sia anche una grazia,
anche se nel più alto della nostra
ascensione terrestre possiamo afferrarla
ed amarla come tale, essa è anzitutto
uno scandalo, e per lo più i filosofi
detestano lo scandalo. Essi si
tapperanno occhi e orecchi affinché
essa non giunga fino a loro, e daranno
a questa sordità e cecità volontarie i
nomi più lusinghieri”. Non è difficile
cogliere in queste considerazioni echi
paolini: ripetutamente, infatti, san
Paolo nelle sue lettere definisce la
croce di Cristo un vero e proprio
scandalo, difficilmente accettabile e
comprensibile dalla ragione umana.
E’ il dolore stesso a sfuggire a facili
spiegazioni. Scrive ancora Marcel, rispondendo
a una sua interlocutrice:
“Poco fa, me ne accorgo rileggendo, io
sono caduto nella tentazione comune
a tutti i filosofi. Ho parlato della sofferenza,
ho detto: la sofferenza è. Ma
no, niente affatto: la sofferenza non
esiste; ciò che esiste è la sua sofferenza
e la mia, e quest’altra e poi quell’altra
ancora. Quando noi tentiamo di
abbracciarle insieme in un’entità unica,
noi cessiamo di pensare a qualcosa;
ed è fin troppo chiaro che di questa
sofferenza-entità – che non essendo
la sofferenza di nessuno, non è più
se non un’immagine astratta e menzognera
– noi possiamo dire qualunque
cosa, come i filosofi non si sono privati
di fare”.
Il belato della pecora di Saba non
assomiglia alla voce di un’astratta razionalità
filosofica, ma suona familiare
alle orecchie del poeta perché egli
lo sente simile al suo stesso grido di
dolore. E forse potremmo dire che assomiglia
a un’invocazione d’aiuto, a
una preghiera. Già, la preghiera: anch’essa
la troviamo spesso unita al
dolore. Intorno al 1659, negli ultimi
anni di vita, Blaise Pascal, scienziato
e filosofo tra i maggiori di tutti i tempi,
compose una preghiera per chiedere
a Dio il buon uso delle malattie,
nella quale, tra l’altro, si legge: “Fate
dunque, o Signore, che quale che io
mi trovi, io mi conformi alla vostra
volontà; e che essendo malato come
sono, vi glorifichi nelle mie sofferenze.
Senza di esse non posso arrivare
alla gloria; e Voi pure, o mio Salvatore,
non vi avete voluto pervenire se
non per mezzo di esse. E’ per i segni
delle vostre sofferenze che siete stato
riconosciuto dai vostri discepoli; è
con le sofferenze che riconoscete anche
quelli che sono vostri discepoli.
Riconoscetemi dunque per vostro discepolo
nei mali che sopporto e nel
mio corpo e nel mio spirito per le offese
che ho commesso”. Gilberte, la
sorella maggiore di Pascal, ci informa
che suo fratello, ormai prossimo
alla morte, espresse il desiderio che
una persona indigente e ammalata
fosse ricoverata accanto a lui e avesse
le medesime cure: l’idea che molti
poveri venissero trascurati mentre
lui riceveva l’assistenza necessaria lo
turbava e lo faceva soffrire. La lezione
del dolore, accolta alla luce della
fede cristiana, fu da lui compresa appieno:
anch’egli avrebbe perfettamente
capito il belato di una capra
solitaria dal viso semita.

Il Foglio 16 gennaio 2010