di Stefano Cingolani
Quanto è antico il grano. Nessuno
lo sa con esattezza. Certo più antico
dell’uomo da quel seme nutrito e
fatto crescere. Ha diecimila anni e
forse più. Le tombe dei faraoni sono
piene di pagnotte o persino di chicchi
ancora in grado di germogliare; a dimostrare
la magia, il fiato divino che
alberga in quel minuscolo miracolo
della natura. Nel passaggio dal paleolitico
al neolitico, lo si trova in Europa
e non solo nella fertile mezzaluna
che dalla Mesopotamia arriva fino in
Palestina. Grazie al riscaldamento climatico.
Gerico, la prima città conosciuta,
impasta farina per il pane. Il
codice di Hammurabi è il primo
esempio scritto in cui appare il grano.
Il fango del Nilo ne moltiplica la produzione.
La Sicilia, ancora greca, viene
convertita dall’orzo al frumento e
con Roma diventa il granaio della Repubblica.
L’impero sposta gli approvvigionamenti
verso l’Egitto e l’Africa
del nord allora rigogliosa di ulivi, vigne
e cereali. Non sono ancora arrivati
i popoli nomadi, dai vandali agli
arabi, che non conoscono l’agricoltura
o la aborrono come fatica da schiavi
non da uomini liberi dediti alla caccia,
al commercio, alla guerra.
Quanto è moderno il grano. Anche
questo non possiamo definirlo con
precisione. Certo è che, insieme al petrolio,
regola ormai i prezzi delle materie
prime, quindi buona parte dell’economia
mondiale. Si scambia in
Borsa, si compra con i future, quei calcoli
delle probabilità che predicono
l’avvenire come un tempo le viscere
del capro espiatorio e gli uccelli dei
vaticini etruschi, scommesse basate
sulla matematica invece che sulle
stelle. Del resto, Dio parla con i numeri
dicevano Galileo e Newton. La crisi
del grano ha preceduto e accompagnato
il collasso finanziario del 2008.
Oggi le cose vanno un po’ meglio. Le
scorte mondiali non sono più ai minimi,
la produzione è cresciuta, anche
se la Fao avverte che nei prossimi anni
la domanda è destinata a superare
di nuovo l’offerta. Di qui altre tensioni.
Barilla, l’azienda che ne consuma
di più al mondo, si è appena premunita,
stringendo un accordo con i coltivatori
padani.
Il triticum (questo il nome scientifico)
è un mostro genetico. Tanto più il
triticum turgidum o grano doppio zero.
Anche per questo è meno facile
modificarne i chicchi. La sua produttività
non può essere accresciuta allo
stesso livello del mais, del riso e della
soia. Ciò ha fatto sì che per la prima
volta dall’età della pietra la superficie
coltivata si sia ridotta, trasformando
il frumento in bene raro e
prezioso più degli altri cereali. Le
specie più diffuse sono esaploidi,
cioè hanno sei coppie di geni, a differenza
della maggior parte delle creature
viventi che ne hanno due. Il Dna
possiede 16 miliardi di basi, 40 volte
più del riso, sei più del mais e cinque
più dell’uomo. Forse, è proprio in
questa specificità la fonte inconsapevole
del suo potere.
Il grano che conosciamo non è puro,
ma fin dalle origini un meticcio,
ibridazione di ben tre “razze” diverse.
E anche questo, in fondo, si radica
nell’inconscio, diventando una nemesi
archetipica: noi che dobbiamo
il nostro sviluppo a un metissage organico,
inseguiamo ancora la fola della
purezza. Il primo incrocio si suppone
sia avvenuto in Siria dieci millenni
orsono. Il secondo sul mar Nero, producendo
un tipo a chicchi grandi e
saldamente legati alla spiga, tanto da
dover essere staccati e seminati dall’uomo.
Furono, dunque, le popolazioni
indoeuropee che dall’Asia centro
meridionale si spingevano verso
ovest, ad aver diffuso quella coltura
che non apparteneva ai popoli delle
steppe.
Qualsiasi triticum, dal dicoccum (farro)
all’aestivum (tenero), contiene più
proteine del riso o del mais. Ma niente
complessi di superiorità. Non per
questo noi mangiatori di grano fin dalla
preistoria siamo più grandi, più forti
e più belli degli altri. Prendete un
pugliese e un manciù, o un provenzale
e un somalo. Senza dubbio, però, il
grano ha un potere mitico e mistico
che manca a tutti gli altri prodotti della
terra. Gesù si paragonava a un chicco
che muore per rinascere in mille
altri chicchi. Il suo corpo è nel pane
che viene spezzato durante l’Ultima
cena. Ecco perché viene considerato
un peccato sprecarlo, anche se per ragioni
economiche sarebbe conveniente.
Il mercato ha le sue leggi ferree,
ma non è tutto.
La rivoluzione neolitica, come la
chiamava Gordon Childe, non consiste
solo nel levigare la pietra, ma nel coltivare
cereali. Da allora, l’uomo ha applicato
il proprio ingegno a cercare i
modi migliori per produrre di più con
minor fatica. Il primo grande salto tecnologico
è dovuto all’aratro circa seimila
anni fa, il secondo al giogo per
buoi e il terzo al collare per cavalli, in
tempi molto più recenti, appena tre
secoli prima di Cristo.
L’espansione di Roma non sarebbe
stata possibile senza il frumentum che
placava la fame plebea e rassicurava
l’aristocrazia guerriera. Nei primi secoli
eroici tra i sette colli, l’alimento
del popolo è il plus, una sorta di polenta
di cereali misti. Nel 150 avanti
Cristo viene aperto il primo forno per
cuocere il pane di farro. Con i viaggi
in Egitto arriva anche la lievitazione e
su tutti i dipinti e i mosaici romani si
possono vedere le pagnottine dorate,
rotonde e gonfie, divise in petali come
una rosa o a forma di fuso. Le rosette
e le ciriole, si chiamano oggi.
In Magna Grecia predomina l’orzo,
soprattutto in Sicilia che poi si trasforma
nel granaio della Repubblica,
mentre l’impero punterà a sud sull’Africa,
a nord sulla Gallia (la Francia
ancor oggi resta il più grande produttore
europeo) a est sulla Siria.
Il medioevo non sarà un’epoca buia
come ci ha insegnato Jacques Le Goff,
ma certo è il periodo in cui il triticum
decade, quasi scompare. Si mangia
pane nero e tanta polenta. I feudatari
si ingozzano di cacciagione. Con la peste
del 1318 la produzione frumentaria
s’arresta addirittura. Ricompare
soltanto insieme alla fioritura delle
arti e delle scienze. Il grano è progressivo.
Il grano è rinascita. Ed è Rinascimento.
Il grano è illuminista.
Maria Antonietta voleva dare ai
sanculotti le brioche, ma la vasta campagna
sulla quale si reggeva la ricchezza
della Francia, chiedeva grano
a buon prezzo da seminare, per trasformarlo
in bianca farina e pane profumato.
Le frumentationes, distribuzione
gratis al popolo dell’urbe, erano
l’arma escogitata nell’antica Roma
per mantenere la pace sociale. Bloccare
le forniture alla capitale divenne
lo strumento di tutti gli usurpatori. I
re di Francia non hanno letto abbastanza
i classici. E sono scalzati dagli
allievi degli enciclopedisti che invece
li avevano tradotti e meditati.
Nello stesso anno in cui Napoleone
viene sconfitto a Waterloo, una gigantesca
eruzione vulcanica in Indonesia
oscura il sole. E scompare l’estate. In
Francia l’agosto 1815 è freddo come
l’inverno, il New England addirittura
ghiaccia. Il prezzo del grano sale alle
stelle, il raccolto crolla negli abissi. E
Robert Malthus vede realizzarsi le sue
fosche previsioni elaborate nel 1798,
quando ha calcolato che l’umanità
non sarebbe mai riuscita a raccogliere
tanti cereali sufficienti a nutrire i
nuovi bambini. Ha torto come tutti i
catastrofisti, i profeti (di sventure), i
futurologi e gli economisti. Perché poi
viene il guano di uccello, arrivano i nitrati
dal Cile, e l’ammoniaca da azoto
di Carlo Bosch che lavora per la Basf.
E tutto ciò rende il terreno fertile come
non mai. Vengono sistemi di semina
innovativi e vengono le macchine.
Malthus finisce sepolto dal trattore,
anche se il buon pastore anglicano
trova interpreti geniali come John
Maynard Keynes e un po’ meno intelligenti
come i tanti uccellacci e uccellini
che teorizzano la fine dello sviluppo,
la morte del capitalismo, l’economia
lenta o addirittura la decrescita.
Il gran guru degli apocalittici, Jared
Diamond, nel suo best seller “Collasso”
rispolvera pari pari l’equazione
malthusiana e descrive il declino delle
civiltà come provocato dallo squilibrio
tra risorse e popolazione.
Per il grande pensatore inglese e i
suoi piccoli seguaci, vale quel che
scriveva Ralph Waldo Emerson: “Affermando
che le bocche si moltiplicano
geometricamente e il cibo solo
aritmeticamente, Malthus dimenticò
che la mente umana era anch’essa un
fattore dell’economia politica e che i
crescenti bisogni della società sarebbero
stati soddisfatti da un crescente
potere di invenzione”. Forse non
sarà sempre e comunque crescente,
come sperava il filosofo americano
con la sua “gaia scienza” (la definizione
è di Nietzsche che per tutta la
vita lesse e rilesse Emerson). Magari
andrà avanti per prove ed errori, cicli
ascendenti e discendenti, ma la
storia del grano ci porta fino alla fondazione
Rockefeller e alla scoperta
che frutta il Nobel a Norman Borlaug.
Nel 1955, l’agronomo americano
crea un incrocio tre volte più fertile
di quelli fino ad allora in uso. E’ l’inizio
della rivoluzione verde che ha
moltiplicato per sei la produzione
messicana e per tre quella indiana,
mettendo fine alle carestie. Il cibo comincia
a crescere più della popolazione.
Malthus ha perso ancora.
Se avesse posseduto quel chicco,
Mussolini non avrebbe dovuto lanciare
la prima delle grandi sfide per
cambiare l’economia della nazione: la
battaglia del grano, seguita da quella
sulla lira a quota 90 con la sterlina e
da quella demografica. C’è poco da ridere
sul Duce a torso nudo che taglia
le spighe armato di falcetto. Si è trattato
di una scelta difficile, importante,
uno dei momenti definitori del
ventennio fascista, della sua capacità
di comando, delle sue volontaristiche
illusioni.
Il 14 giugno 1925, l’agenzia Stefani
annuncia con un messaggio in perfetto
stile militaresco che il grande esercito
dei contadini è pienamente mobilitato.
Sei giorni dopo, Mussolini parla:
“Io ho preso formale impegno per
condurre la battaglia del grano e ho
già preparato lo stato maggiore. Il
quale dovrà agire sui quadri rappresentati
dai tecnici dei consorzi agrari,
delle cattedre di agricoltura, delle camere
agrarie provinciali e costoro dovranno
manovrare l’esercito, le truppe
degli agricoltori”. Il 27 giugno il capo
del governo in persona arriva a
Borgo Pasubio nel cuore dell’Agro
pontino in via di bonifica, si reca nel
podere 1.316, sale su una trebbiatrice
e comincia a separare i chicchi dalla
paglia. Alle nove la sirena chiama alla
colazione. Sotto il porticato è stata
imbandita una grande tavolata per
trebbiatori e macchinisti. Tutti si avvicinano
ma Mussolini li ferma: prima
bisogna fare la conta dei sacchi. La
gente scatta entusiasta nel saluto romano.
Chiede un discorso, ma Lui risponde:
“Oggi si lavora, non si parla”.
Per anni l’Istituto Luce andrà avanti
a riprendere le incursioni ducesche
sui campi per seguire di persona i risultati.
E’ una posa, ma non solo. Mussolini
ci crede e sa che l’esito di quella
battaglia è strettamente collegato
alla rivalutazione della lira. Perché
tutto comincia nei primi anni Venti
con le conseguenze della guerra, anzi
della pace, quella iniqua di Versailles,
come ha scritto Keynes pensando
alla Germania sconfitta, ma anche all’Italia,
vincitrice, eppur prostrata. La
bilancia commerciale è in rosso
profondo e il 15 per cento almeno di
questo deficit è provocato dall’importazione
di grano. Il paese non era mai
stato autosufficiente dagli anni dell’Unità
in poi. Ma questa volta la differenza
tra produzione e consumi diventa
insostenibile.
Come finisce? Il raccolto compie un
balzo notevole: da 52 milioni di quintali
del periodo 1921-25 ai 75 milioni
del quadriennio finito nel 1940. L’acquedotto
pugliese trasforma la piana
di Foggia nel cuore della produzione
granaria. Ma l’autonomia non viene
mai raggiunta. Non solo. I dazi costano
cari ai consumatori i quali non possono
usufruire della discesa dei prezzi
americani. Non sempre le importazioni
sono male, dai cereali agli involtini
primavera.
Gli incentivi al frumento finiscono
per aumentare il divario tra nord e
sud. Nel settentrione, infatti, si intensifica
l’uso di fertilizzanti e attrezzature,
con gran vantaggio della Montecatini
o dei produttori di macchine agricole,
a cominciare dalla Fiat. Nel sud,
invece, i sostegni statali favoriscono
ancor più l’agricoltura estensiva e un
uso non efficiente dei terreni. Violare
il mercato alla fine è più costoso che
seguirne le regole. Le campagne mussoliniane,
dal grano in poi, smentiscono
la tesi di un fascismo liberale in
economia. Ci sono anche altre prove
(come la chiusura delle frontiere ai
produttori stranieri di auto, cosa che
non riuscì neppure a Hitler). Ma l’esito
della battaglia del grano è la dimostrazione
più evidente.
Eppure, sembra che la storia non
riesca a impartire le sue lezioni. Dopo
l’impennata dei prezzi, tra il 2006 e il
2008, il protezionismo è tornato a far
da padrone e dalla Russia all’estremo
oriente i paesi produttori hanno rispolverato
le loro battaglie frumentarie.
Mentre si è diffusa l’idea che gli
squilibri tra produzione e consumi
siano opera delle forze del male, trascinate
dal famigerato Cartello del
grano, infausto e perverso quasi quanto
le sette sorelle del petrolio. Guidato
dalle big three, Adm (Archer Daniel
Midlands), Cargill e Bunge y
Born, statunitensi le prime due, argentina
quest’ultima; accompagnato
dai colossi degli ogm e dei fertilizzanti
come Monsanto e Dupont; finanziato
e consigliato da Goldman Sachs, la
Spectre della finanza globale. Fin dagli
inizi dello scorso decennio ha puntato
sui cereali, consigliando i clienti
a operare in massa con i future su
questa commodity importante quanto
il greggio o il rame. La Borsa di Chicago
è stata sottoposta a ondate massicce
di speculazione. Poi è arrivato il
Big Crash. Goldman è l’unica banca
d’affari sopravvissuta al grande crollo
finanziario, anzi ne è uscita vincitrice.
Il mondo, per fortuna, è più vasto e
complesso di qualsiasi filosofia complottista.
Sul mercato del grano operano
in modo massiccio grandi paesi.
Gli Stati Uniti, innanzitutto, ma anche
l’Unione europea e al suo interno l’Italia,
quarto produttore dopo Francia,
Germania, Spagna. Poi l’Australia,
l’Argentina, la Russia, il Kazakistan.
I loro interessi non coincidono,
anzi spesso sono in conflitto, e si scontrano
anche con le multinazionali e la
Borsa di Chicago.
Fino al 2005, la produzione è cresciuta
in sintonia con la maggiore domanda
asiatica e dei paesi usciti dalla
fame. Dall’anno successivo è cominciata
la discesa. Catastrofi naturali innanzitutto:
la siccità in Australia o la
diffusione della peste frumentaria,
una muffa distruttiva che dall’Iran ha
infettato l’Etiopia e altri paesi. Catastrofi
umane, come la politica europea
che ha finanziato la distruzione
dei raccolti per non alimentare un eccesso
produttivo. Cecità ed errori come
la febbre del bioetanolo che ha
portato a usare grano ancor più del
mais per fabbricare carburanti che
sostituiscano la benzina.
E il cambiamento climatico? Sì, forse.
Non ci sono ancora prove provate,
ma è molto probabile che sia uno dei
fattori che hanno influenzato la riduzione
dei terreni coltivati. Perenne o
no, c’è stato un riscaldamento negli ultimi
anni e c’è una desertificazione
nell’Africa subsahariana. Ma la crisi
del cibo è più urgente e ben più grave
di quella del clima. Non ce ne vogliamo
rendere conto perché non c’è convergenza
di interessi, non esiste l’equivalente
della lobby verde o del
complesso ecologico-industriale che
muove governi e miliardi di dollari. I
poveri del mondo non hanno voce. E
la Fao, l’agenzia Onu che dovrebbe essere
la loro stanza di compensazione,
è un baraccone. Il grano, questo dono
così mitico e così mistico, finisce anch’esso
sotto il tallone del calculemus,
l’ideologia alla quale tutti, volenti (se
ci tiriamo fuori un profitto) o nolenti
(se ci tocca pagare caro il solo fatto di
essere al mondo) siamo sottoposti. E
lo saremo ancora a lungo.
Il Foglio 16 gennaio 2010