La Stampa, venerdì 15 gennaio
Sconvolto dal devastante terremoto dell’anno
precedente, nel 1756 Voltaire
scrisse il Poema sul disastro di Lisbona, violenta
requisitoria non tanto contro Dio,
quanto contro l’idea di un Dio-Provvidenza.
Avversario sia delle religioni rivelate
sia di ogni ateismo, fino a quel momento
il filosofo francese aveva creduto che il
«Grande Architetto dell’Universo» non si
fosse limitato alla creazione, ma avesse
garantito una sorta di ordine, di rispetto
delle leggi naturali. Non il Dio cristiano,
insomma, ma comunque un Creatore non
del tutto indifferente alle vicende umane.
Dopo il terremoto di Lisbona, però, il deismo
di Voltaire perde gran parte del suo
pur moderato ottimismo. Se Dio esiste,
perché permette tanto dolore? E soprattutto,
perché tanto dolore innocente? È
un’obiezione che nei secoli si è fatta via
via strada nella coscienza di un mondo
sempre più secolarizzato, fino a diventare
forse l’«obiezione numero uno» fra quelle
che vengono contrapposte ai credenti.
Ieri uno dei più noti telepredicatori
statunitensi, il reverendo evangelico Pat
Robertson, sulla «Christian Broadcasting
Network» ha dato una sua personale risposta
a questo mistero del male. Ha detto
che l’apocalisse di Haiti è una conseguenza
del «patto» che gli haitiani hanno
sottoscritto all’inizio dell’Ottocento «con
il diavolo» per liberarsi dal giogo francese.
«Ottenuta l’indipendenza – ha detto
Robertson – gli abitanti di Haiti sono passati
da un disastro all’altro». Robertson –
un personaggio influente nella destra
evangelica americana: nel 1988 cercò
l’elezione alla Casa Bianca – non è nuovo
a «uscite» del genere. Aveva sostenuto la
necessità di assassinare il presidente venezuelano
Hugo Chavez e di sganciare
una bomba atomica sul Dipartimento di
Stato; e anche l’11 settembre, secondo lui,
fu la conseguenza di una punizione divina.
Ieri il consigliere del presidente Barack
Obama Valerie Jarrett ha subito stigmatizzato
questa ennesima sparata: «Sono
senza parole», ha detto.
Robertson, che pure è un personaggio
estremo, esprime comunque una vecchia
idea, sempre purtroppo sottotraccia, secondo
la quale il male può essere una punizione
divina, o un conto presentato dal
Maligno ai suoi adepti. Bizzarro che un
cristiano possa pensare che il suo Dio
permetta che in un tale regolamento di
conti vengano coinvolti tanti innocenti come
le vittime di un terremoto.
Una riflessione molto più interessante
di quella di Robertson, piuttosto, ce l’ha
regalata una delle prime immagini che ci
ha riportato il nostro inviato Maurizio
Molinari. L’immagine di una Port-au-Prince
popolata, nella prima notte tragica, da
cristiani e seguaci dei riti voodoo accomunati
in uno straziante canto rivolto
verso il cielo. Per chiedere aiuto, per cercare
un contatto con i propri cari morti
sotto le macerie, per farsi coraggio, per
tentare di scorgere una speranza che non
si vede e non si tocca, ma alla quale non
si vuole e probabilmente non si può rinunciare.
Anche qui un terremoto: forse
ancor più grave di quello del 1755 a Lisbona.
Ma di fronte alle stesse scene di
devastazione e di morte, il popolo – o almeno,
tanta parte di un popolo – dà una
risposta diversa da quella di Voltaire. Il
sangue e il lutto, e ancor di più il senso di
impotenza, in questo caso portano non a
negare l’esistenza di un Interlocutore, o a
ritenerlo crudele e colpevole: bensì a
chiedergli soccorso.
Colpisce noi occidentali l’immagine di
cristiani e voodoo uniti in una sola, corale
preghiera. Colpisce tanto più se ci arriva
in un’epoca in cui è frequente il voler
rimarcare le differenze.
Ad Haiti ci sono i cattolici, i protestanti,
i Testimoni di Geova. E ci sono i voodoo,
un mondo a noi quasi del tutto ignoto,
o meglio tramandatoci dalla letteratura,
dai film e perfino dai fumetti come un
qualcosa a metà fra il folclore e l’horror.
«Voodoo» evoca in noi riti magici, morti
che camminano, zombie, spilloni.
«In realtà – ci spiega lo studioso delle
religioni Massimo Introvigne, torinese –
ci sono due livelli di voodoo. Uno è appunto
quello che più conosciamo noi, fatto
di pratiche popolari, di maghi a pagamento,
truffatori. È il voodoo dei cadaveri
che escono dalle tombe e di Baron Samedì
», il signore dei cimiteri di cui l’ex
dittatore di Haiti François “Papa Doc”
Duvalier affermò di essere
l’incarnazione.
«Ma c’è anche un altro voodoo – continua
Introvigne – affermatosi ad Haiti e a
New Orleans nel XX secolo come una vera
e propria religione organizzata, con
edifici di culto e reverendi. È un voodoo
che ha tentato di entrare in dialogo con il
cattolicesimo. La sua è una teologia sincretistica,
che attinge alle antiche religioni
afro-americane e allo stesso cristianesimo.
È importante distinguere bene fra
questi due tipi di voodoo, molto diversi
fra loro, uno serio e uno cialtrone».
Distinzioni doverose, ma probabilmente
irrilevanti di fronte alla gigantesca preghiera
collettiva nelle strade violentate
di Haiti. Dove prima ancora che cattolici,
protestanti, voodoo e Testimoni di Geova,
c’erano, più semplicemente, degli uomini.
La notte di canti e preghiere di Haiti
ci dice questo: ci dice che di fronte al vuoto
e alle grandi domande sull’esistenza le
differenze si fanno piccole fino a scomparire,
per far posto a esigenze che sono
eguali per tutti.
Ma questi canti e queste preghiere ci
dicono anche un’altra cosa. E cioè quanto
sia difficile estirpare un senso religioso
che è nato agli albori dell’umanità dallo
stupore nel percepire la dipendenza
da un Mistero, quale che esso sia. Non c’è
politica o economia che possa dare fino
in fondo risposte esaurienti alla domanda
che nasce dal cuore di chi è ferito. Ha
scritto Eugène Ionesco: «La donna che
nessuno ama, l’uomo cui diagnosticano
un cancro, il pensionato sulla panchina,
l’anonimo o l’illustre che si fa la barba e,
guardandosi allo specchio, si chiede che
ci fa lì: tutti costoro non furono né mai saranno
consolati da alcuna politica».
I canti e le preghiere di cristiani e voodoo
nella notte di Port-au-Prince sono
l’urlo di ciascuno di noi di fronte alla morte;
l’urlo di un’umanità che - per quanto si
illuda - non può che prendere atto, infine,
di non poter bastare a se stessa..
Michele Brambilla