DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

E nell’altra metà dell’isola continuano a giocare a golf

il Giornale, venerdì 15 gennaio
Sottovoce, o ancor meglio in silenzio, come
imporrebbe l’etichetta del green.
Ma non vi è dubbio che alle 16,53 di martedì
scorso, chino su una qualsiasi delle
diciotto buche dell’esclusivo Golf Club La
Estancia di Santo Domingo, più di un giocatore
in braghe a scacchi avrà imprecato
a modo suo, ripetendo nelle diverse lingue
del creato la volgare quanto storica esclamazione
del generale Pierre Jacques
Etienne, visconte di Cambronne, alla faccia
del generale inglese che gli chiedeva
di arrendersi sul campo di battaglia di Waterloo.
E il medesimo improperio, in quello
stesso angolo di Caraibi, sarà stato più o
meno sussurrato alla buca numero 9 del
Naco Country club, oppure al drive di partenza
del non meno lussuoso Cayacoa. Perché
quel prolungato tremore lungo un minuto,
che sembrava arrivare da lontano,
aveva fatto sussultare l’erba rasata e ben
ravviata, mandando a finire chissà dove le
palline. Finendo così per infrangere tanti
sogni personali di un percorso finalmente
netto.
Perché ognuno ha i suoi problemi. Perché
è così che vanno le cose – o meglio, è
così che purtroppo possono andare – su
questa pazza Terra. Dove c’è chi si danna
per un irrilevante mancato par; e chi, a
«soli» 800 chilometri di distanza, in 60 secondi
di saliscendi impazzito, su e giù per
i micidiali gradini della scala Richter, vede
sbriciolarsi la sua casa, morire i parenti,
sparire gli amici. O addirittura finire la
sua stessa vita.
Oggi Hispaniola, gigantesco scoglio ricoperto
di verde che emerge dall’azzurro
del Caribe, appare proprio questo. Ovvero,
l’assurda epitome, la stridente sintesi del
modo in cui una semplice riga tracciata
sulla carta geografica possa marcare un
confine incredibilmente ingiusto e crudele.
Di qua, a Ovest, quello che non certo
dall’altro ieri è sempre stato il buco nero
di Haiti. Ovvero il luogo geografico dove
un destino non pago di averla condannata
a essere la nazione più misera di tutte le
Americhe – con un dollaro al giorno di
reddito medio – martedì pomeriggio vi ha
anche fatto arrivare, in anticipo, la fine
del mondo. Mentre di là, a Est, sulla spiaggia
di Boca Chica, viene offerta con la formula
del «tutto compreso» – mare, sesso e
anche droga, basta chiedere – una realtà
che non sarà perfetta, che è certo ben distante
da un Paradiso, ma che senza dubbio
ha poco a che spartire con l’oggettivo
Inferno, passato, e soprattutto presente, di
Port-au-Prince.
Perché ben prima che le misere baracche
e i patetici palazzi in cemento totalmente
«disarmato» di Haiti venissero giù
come meringhe, violentemente scossi dalle
viscere di un suolo che tutti da sempre
sapevano ad alto rischio sismico, a Est, a
Santo Domingo, cresceva e si sviluppava la
parte più estesa e più ricca di quella stessa
grande isola - tre volte la Sicilia, quasi
il doppio della Svizzera – scoperta e colonizzata
da Cristoforo Colombo nel 1492.
Uno sviluppo forse disordinato, quello di
Santo Domingo. Ma inarrestabile.
Spinto in massima parte da quella risacca
umana, di bocca buona, ma comunque
gonfia di dollari, che è il turismo di
massa, industria che riempie a getto continuo
voli charter e villaggi turistici, alberghi
e residence in affitto con il popolo
dell’inclusive tour. Un popolo dove sudano
e spintonano giovani e meno giovani
maschi, visibilmente allupati, alla ricerca
di ragazze dalle natiche sode e dalla frangibilissima
moralità, coppiette in viaggio
di nozze a cui basta e avanza un tramonto
rosa per precipitarsi in camera dimenticando
tutto il resto, sedicenti ballerini di
merengue assetati di musica, ma anche
sinceri appassionati di silenziose immersioni
tra i fondali di una splendida barriera
corallina.
Sono centinaia di migliaia di persone
ogni anno, provenienti da tutto il mondo,
130mila in media soltanto dall’Italia. E
non le ferma nulla, nemmeno il terremoto,
come ha confermato ieri il ministro del
Turismo domenicano, Francisco Javier
Garcia, sottolinenando compiaciuto come
«al momento nessun volo e nessun viaggio
organizzato sono stati cancellati».
Ma qui, a Santo Domingo, arrivano anche
altri. Sono molti di meno, ma sono i
ricchi e famosi, da Shakira a Jennifer Lopez,
da Jimmy Carter alla regina d’Olanda.
Sono quelli che si fanno vedere poco o che
non vogliono farsi vedere del tutto, che atterrano
e ripartono con i loro jet, che appaiono
come meteore nelle discoteche
esclusive o ai tavoli dei ristoranti alla moda
come l’italianissimo Bellini e che poi si
trincerano anche soltanto per una settimana
negli attici da un milione di dollari.
O sono ancora quelli che scelgono di viverci
natural durante (20mila i residenti di
nazionalità italiana), o magari soltanto in
attesa che la giustizia del loro Paese tiri
una riga definitiva e indulgente, come fece
quella italiana con il rubizzo ex patron
del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, rimasto
qui dal 2006 al 2009. Chiuso come tanti
altri in una villa nascosta dalle bouganville,
zeppa di cuochi e camerieri, ma necessariamente
anche difesa da eserciti di gorilla
privati. Perché la criminalità non
scherza in un Paese dove comunque l’85%
della popolazione vive ancora in condizioni
poco più che precarie.
Ma di aspiranti expat, pur se più ruspanti,
ne continuano ad arrivare anche
d’altro genere. Gente di discreto censo,
con una buona rendita o con una pensione
dorata che spera così di far rendere di più.
Gente che decide da un giorno all’altro di
dire addio alla fabbrichetta o alla moglie
invadente, allo smog piuttosto che al Fisco
rapace, al traffico così come alla banale,
ma fastidiosa, schiavitù della cravatta.
Adulti che inseguono un romantico sogno
di Paradiso terrestre alla Gauguin. Oppure
quello meno colto di un assolato e tardivo
Paese dei Balocchi. Dove tuttavia, assicura
chi Santo Domingo la conosce bene
e da tempo, sono sempre tanti, forse troppi,
i Gatti e le Volpi in attesa di sottrarre
gli zecchini d’oro agli ingenui Pinocchi.
Sempre troppi, anche loro.
Guido Mattioni