All’alba del mondo moderno, tre buone fate giunsero portando le loro preziose speranze. La prima portò la libertà, la seconda l’uguaglianza e la terza la prosperità. Ma la sera del medesimo giorno giunse una strega maligna e disse: “Voi potete avere solamente due di questi doni. Scegliete”.
Così il mondo moderno dell’Occidente scelse libertà e prosperità, non conseguendo mai l’uguaglianza, mentre quello dell’Oriente scelse uguaglianza e prosperità, senza mai conoscere la libertà; quanto ai filosofi e ai teologi, optarono a favore di libertà e uguaglianza, senza mai preoccupatesi della prosperità.
Io non intendo difendere i valori del mondo occidentale nel temuto “scontro di civiltà” (Huntington) a fronte dei rappresentanti delle “teocrazie” islamiche (Iran) o della “dittatura educativa” confuciana (Singapore). Né intendo rinforzare il “sentimento del proprio valore” dell’Occidente, e neppure prendere in considerazione le condizioni di tale consapevolezza. Modernità e Occidente devono arrivare per proprio conto a mettersi d’accordo con la loro crisi di valori. Solo che ogni difesa a fronte di attacchi esterni ostacola la “riproposizione di valori” che deve aver luogo in Occidente, se è vero che l’umanità e il pianeta hanno il problema della propria sopravvivenza.
Piuttosto, in quanto teologo cristiano, vorrei chiedere: Cosa devono, la modernità e il mondo occidentale, al cristianesimo e alla tradizione biblica che le hanno largamente permeate – e cosa le opprime del cristianesimo e della tradizione biblica?
Con “tradizione biblica” io faccio riferimento anche al giudaismo, a cui il moderno Occidente deve assai più di quanto non si renda conto. Soprattutto faccio riferimento a quella particolare impronta lasciata all’Occidente dall’Antico Testamento: dall’esodo e dal patto di Abramo, dal Dio di Israele e dalle visioni dei profeti.
L’ispirazione da parte della tradizione biblica sull’Occidente si estende anche alle nozioni e ai valori fondamentali della modernità. l’Occidente ha riscoperto la propria storia di libertà nella storia biblica di Dio e si è identificata con tale storia, per mezzo delle figure dei personaggi secolari.
Comunque, ora che ha scoperto la “dialettica dell’Illuminismo” (Adorno, Horkheimer) e ha sofferto per le contraddizioni interne della modernità, può essere che il mondo postmoderno possa accomiatarsi da questi impulsi biblici, così come da quelli moderni – e farlo proprio perché identifica i secondi con i primi – per divenire quindi un mondo post-cristiano.
Come teologi cristiani, dobbiamo quindi chiederci se e come, dalla prospettiva delle nostre tradizioni e speranze, noi possiamo partecipare per superare le contraddizioni interne della modernità che noi, o i nostri predecessori, abbiamo causato. I valori della società e la loro riqualificazione costituiscono degli obbiettivi originali per la teologia cristiana universale.
Nella prospettiva delle sue origini e dei suoi obbiettivi, la teologia cristiana è una teologia universale; perché è la teologia del regno di Dio. Le sue tradizioni storiche si collegano con la “storia del futuro” e le sue tradizioni profetiche delineano le visioni di questo futuro. Cosa ci dicono queste tradizioni nella nostra attuale crisi di valori?
Il Dio della Bibbia e l’esperienza della storia
Vi è corrispondenza tra una certa considerazione per i valori e l’esperienza della realtà. Cominciamo dunque dalla biblica “esperienza della storia” (Georg Picht) e indaghiamo sui valori degli esseri umani come individui e come appartenenti alla collettività.
Il Dio di cui parla la tradizione biblica non è rivelato nelle leggi e nei cicli della natura, ma piuttosto attraverso gli esseri umani e in eventi contingenti della storia umana. Ecco perché a Dio è dato un nome dagli esseri umani, dopo gli eventi attraverso i quali egli si è rivelato all’umanità. Così vi è il “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” e il “Padre di Gesù Cristo”.
Vi è “il Signore”, che ha liberato il suo popolo di Israele dalla potenza storica dell’Egitto, e vi è “il Padre”, che ha liberato Cristo dal potere della storia e della morte. Il Dio delle esperienze storiche e della salvezza è giustamente chiamato il “Dio della storia”, in contrapposizione agli dèi della natura.
Il giudaismo, il cristianesimo e l’islam si rifanno tutti al “Dio di Abramo” e all’esperienza di Dio da parte di Abramo e di Sara, che è stata un’esperienza-esodo di libertà e alienazione: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò … e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12: 1,3). Le loro anime divennero senza riposo e i loro corpi senza dimora. La loro esperienza di Dio fu esperienza di libertà da ogni residenza e di desiderio di un futuro di Dio dovunque, una libertà sempre accompagnata dal vento desertico dell’esilio.
Qualunque confronto con le grandi religioni asiatiche del cosmo mette in evidenza l’unicità della religione abramitica: il futuro è qualcosa di nuovo, e non un ritorno al passato. Il mondo non esiste all’interno di un grande equilibrio del cosmo e delle sue armonie, ma piuttosto, in quanto creazione di Dio, è indirizzato verso il futuro del suo regno, e per questo motivo è temporale. La “freccia del tempo” governa ogni sistema di materia e vita, che si trovano in una condizione di evoluzione.
Nel processo di tradizione e innovazione, il tempo è irreversibile e viene sperimentato nell’impossibile collegamento tra passato e futuro. Il passato è una realtà irrecuperabile, il futuro una possibilità inaccessibile, e il presente l’interfaccia in cui le possibilità del futuro sono sia attualizzate che abbandonate, e pertanto è il punto in cui il futuro è mediato con il passato.
Le “religioni abramitiche” hanno scoperto e santificato il tempo più che lo spazio. Altrove il divino fu venerato in un ordine ricorrente del cosmo, mentre qui esso venne incontrato nel fortuito, ossia negli imprevedibili e non anticipati eventi della storia, e negli elementi di novità introdotti dal futuro.
Questa comprensione della realtà, che qui abbiamo descritto brevemente come tempo della storia, presenta una particolare affinità con la moderna comprensione del reale, a causa del mondo contemporaneo, emerso col distacco della cultura umana dalle relazioni e le concordanze con la natura. Il mondo dell’agricoltura è stato sopraffatto da quello dell’industria e il villaggio dalla metropoli. Attraverso l’industrializzazione e l’urbanizzazione è emerso un mondo umano costruito unicamente in base ai desideri e alle formule umani, un mondo nel quale solo i valori degli esseri umani hanno valore.
Nelle città moderne, dove entro pochi anni abiterà più del 50 per cento dell’intera umanità, il sole è rimpiazzato dalle luci al neon, i boschi e i prati dalle strade.
Questa città non ha bisogno né di piante né di animali, perché vive piuttosto attraverso le proprie creazioni. Il mondo reale, percepito attraverso i sensi, è imitato ed eclissato dalla “realtà virtuale” del computer e delle “autostrade” dell’informazione.
Come risultato di una azione intrapresa a Bruxelles lo scorso anno, i tradizionali standard in pollici, iarde e miglia – standard derivati dalle proporzioni del corpo umano – sono stati sostituiti in Gran Bretagna (non ancora negli Stati Uniti) dal sistema metrico di centimetri, metri, chilometri.
L’ambiente naturale degli esseri umani viene gradatamente rimpiazzato da un ambiente tecnico, e il paesaggio naturale da un paesaggio mediatico. Il corso di ogni vita individuale non è più determinato dai cicli della terra e dai ritmi dei corpi celesti, ma dai tempi dello stesso mondo moderno.
Anche se avremo occasione di analizzare con maggior dettaglio come ciò coinvolga la personale esperienza degli abitanti del mondo moderno, è subito chiaro che questo distacco della cultura umana dalla terra ha prodotto quella “crisi ecologica” che può condannare al fallimento l’intera modernità. La distruzione dell’ambiente cresce in proporzione all’urbanizzazione, come dimostrano l’incremento nella necessità di energie e la produzione di rifiuti nelle grandi città.
Se il cristianesimo ha introdotto nel mondo moderno questa comprensione della realtà come “storia”, e quindi la rimozione e il soggiogamento della natura, allora è necessaria una sua autocritica e una critica culturale per sviluppare valori di riconciliazione con la natura e una nuova armonia – atta alla sopravvivenza – tra la cultura moderna e la natura.
“Progresso” è il leitmotiv della modernità; “equilibrio” era il leitmotiv delle culture premoderne. Quello che ci occorre per la sopravvivenza è un’armonia tra “progresso” ed “equilibrio”, se dalle antiche culture dell’equilibrio e dalle moderne culture del progresso vogliamo far nascere una “cultura ecologica”, che deve diventare la cultura del ventunesimo secolo.
Davvero il Dio della Bibbia è unilaterale e solo recentemente è “Dio della storia”, come asserisce la moderna teologia? Non è fin dall’inizio – e non solo retrospettivamente – creduto come “Creatore del cielo e della terra” e la sua saggezza creativa venerata nelle leggi e nei cicli della natura?
Come Israele ha sostituito i culti della fertilità nella terra di Canaan? Non con una consapevolezza semplicemente mondana per quanto riguarda la cura nell’uso della terra, ma piuttosto con il “Sabato della terra”, riferito alla storia della creazione (Levitico 25 e 26).
Nell’Anno Sabbatico e nell’Anno del Giubileo i campi non devono venir coltivati, affinché la terra possa riposare e “osservare il sabato per il Signore”, rigenerandosi. Nella legislazione sabbatica – per esseri umani, animali e terra – appare chiara la grande differenza tra il biblico “Dio della storia” e la moderna esperienza della storia.
Il sabato è anche segno caratteristico di distinzione tra il mondo come “natura” (fertilità perpetua) e come “creazione” (con le interruzioni del riposo sabbatico). Così noi constatiamo che nella tradizione biblica il “Dio della storia” non è altro che il “Creatore del cielo e della terra” e che, di conseguenza, la “esperienza della storia” resta circoscritta e fissata nell’esperienza della natura.
Se noi intendiamo occuparci di valori ed esperienza di vita relativamente ai nostri contemporanei, possiamo farlo solo con un modello integrato di storia nella natura.
L’essere umano: parte della natura o persona?
Mentre le religioni asiatiche e africane intendono l’essere umano come componente della natura, la tradizione biblica introduce nel mondo la comprensione dell’essere umano come persona. Gli esseri umani hanno coscienza di sé come parte della natura quando credono che la natura sia la loro “madre” e che le proprie vite “galleggino” in mezzo alla grande “famiglia” di tutti gli esseri viventi, nei cicli e ritmi del sole, della luna, della terra. Gli esseri umani hanno coscienza di sé come parte della natura quando credono alla reincarnazione, perché ogni individuo vivente proviene dalla grande trama della vita e ad essa ritorna – rinascendo sotto altre forme. Infine, gli esseri umani hanno coscienza di sé come parte della natura quando si considerano soprattutto come inseriti in una lunga serie di generazioni.
I membri della famiglia che li precedono sono antenati da venerare; quelli che li seguono sono bambini per i quali lavorare. La coscienza individuale si considera inserita e guidata da una coscienza collettiva. La morte dell’individuo non ha grande significato, perché la catena delle generazioni continua, come dimostrano gli elenchi generazionali dell’Antico Testamento e come accade, ad esempio, in Corea. Lo “Statuto della terra” delle Nazioni Unite (28 ottobre 1982) definisce gli esseri umani “parte della natura”.
Per contrasto, ogni moderna dichiarazione concernente i diritti umani inizia con un articolo fondamentale riguardo alla inviolabile “dignità degli esseri umani”. Ma in cosa consiste ciò?
E’ la dignità di ogni individuo per se stesso e presuppone la singolarità di ogni essere. Questa dignità individuale è la sorgente di ogni diritto umano, come stabilito nella Dichiarazione generale dei diritti umani del 1948 e sottoscritta da tutti i membri delle Nazioni Unite. Diritti personali ed uguali, così come libertà di fede, coscienza, opinione e riunione: tutto nasce dalla nozione di individuale dignità umana. Ma come questa viene protetta? Insistendo sul fatto che nessun essere umano può essere trattato come un oggetto, ma sempre e ovunque rispettato come soggetto. Ogni riduzione dell’essere umano a schiavo, a semplice lavoratore o merce – come nel caso della prostituzione – è pertanto proibita.
La moderna democratizzazione della politica incomincia con questo principio, cioè che “tutti gli esseri umani sono stati creati liberi ed uguali”. Tutti i movimenti e le teologie della liberazione operano sulla base di questo principio.
La moderna comprensione della dignità di ogni individuo deriva dalla tradizione biblica e dalla storia della sua influenza nel mondo occidentale. Queste tradizioni comunque concernono non l’essere umano come “individuo”, ma come “persona”. Un individuo, come l’atomo, è l’ultimo elemento di indivisibilità. Ma in quanto tale non ha relazioni e non può comunicare. Quindi Goethe è sostanzialmente corretto nella sua definizione: “L’individuo è ineffabile”. Se un individuo non ha relazioni, non possiede caratteristiche proprie e neppure nome. E’ irriconoscibile e non conosce neppure se stesso. Una persona esclusivamente individualizzata è un “idiota” nel senso greco del termine.
Per contrasto, una persona è un essere umano in un campo di risonanza formato da relazioni
“io-tu-noi”, “io-me stesso”, “io e l’oggetto”. In questa rete di relazioni, la persona diventa soggetto di dare e prendere, ascoltare e fare, sperimentare e toccare, percepire e rispondere. Senza comunità una persona non può essere persona. La vita è comunicazione all’interno di una comunità.
In senso teologico la “persona” emerge attraverso l’appello di Dio, che chiama gli esseri umani fuori dalle loro relazioni, nella loro “paternità e amicizia” (Genesi 12:1). Abramo e Sara, che seguono la chiamata di Dio e si mettono in viaggio, sono i prototipi della persona biblica. Dio chiama Mosè “per nome” e Mosè dice “Eccomi” (Esodo 3:4). I Profeti sono chiamati in questo modo e, secondo Isaia 43:1, la seguente affermazione si applica ad ognuno di loro: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio”.
Questo Dio speciale, che non è parte della natura, ma che la domina come creatore, conduce gli esseri umani, che sono a sua immagine e in corrispondenza con lui, tanto da contrapporli sia alla creazione visibile sia a se stessi (Salmo 8). Gli esseri umani divengono persone di fronte a Dio e al creato. Ciò rende la loro vita unica e impossibile da riprodurre. Li eleva sopra ogni altra creatura con la libertà, e conferisce ad essi un incarico particolare nel nome del Dio trascendente, caricandoli di una specifica responsabilità nei confronti delle altre creature.
Secondo la tradizione biblica, la dignità degli esseri umani consiste nell’essere stati creati ad immagine di Dio. Pico della Mirandola introdusse questo concetto nella cultura rinascimentale dell’Occidente, col suo famoso trattato De dignitate hominis (1486), aprendo la strada al riconoscimento dei diritti umani in politica, dell’individualismo nella società e dell’antropocentrismo nella natura. Le conseguenze, sia positive che negative, sono state profonde. Vediamo di mettere insieme due di questi valori positivi e negativi.
1. I figli di Abramo, Sara e Hagar. Gli esseri umani sono persone, chiamate fuori dal loro mondo da un Dio trascendente; quindi essi conducono un’esistenza abramitica. Abbandonano ambiente familiare, casa e patria e divengono stranieri in un mondo straniero. Essi si sentono a casa ovunque la loro speranza nella promessa di Dio sia adempiuta. I figli di Abramo sono caratterizzati dall’apertura al mondo da un lato, dall’essere senza casa dall’altro. Il presente non dà ad essi riposo né consente indugi. Finché la promessa divina non è adempiuta, i loro cuori rimangono senza riposo. Insoddisfatti del loro ambiente, essi affrontano ogni barriera. I loro impulsi sono senza moderazione, perché sono stati stimolati dal Dio infinito.
Ma se Abramo diventa “padre nella fede” di ebrei, cristiani e musulmani, e se Sara ed Hagar si mettono in viaggio anziché restare a casa come Penelope, la cultura corrispondente non sarà caratterizzata dal dominio sulla natura, ma piuttosto dalla alienazione rispetto alla natura. La natura non può essere “madre” di qualcuno che, come Abramo e Sara, segue la promessa di Dio. Ma dunque che cos’è la natura per i figli di Abramo e di Sara?
Come Paolo spiega nel capitolo 8 della sua lettera ai Romani, la natura diviene in senso positivo “sorella” e compagna di viaggio degli esseri umani che si muovono nella speranza e nella ricerca.
E non sono solo gli esseri umani che vivono nella speranza e nel racconto della redenzione del corpo dal dominio della morte. Anche le altre creature terrestri e perfino al terra stessa gemono sotto il potere della transitorietà e parlano della gloria che i “figli di Dio” stanno sperimentando nella loro libertà. Lo spirito di Dio rivela ai credenti e a tutte le creature effimere che le sofferenze di questa età sono in vista del nuovo mondo di vita eterna, la dimora eterna per tutte le cose.
In altre parole, il mondo senza riposo corrisponde ai cuori senza riposo dei figli di Abramo. Tutte le creature transitorie, come i figli di Abramo, sono in cammino verso un futuro nel quale un Dio senza riposo viene per riposare e trova la sua dimora nella casa di una creazione compiuta. Là i figli di Abramo trovano casa per la loro identità. Tutte le creature sono compagni di viaggio per i figli di Abramo, che offrono una profonda comprensione verso tutte le altre creature. I figli di Abramo non vedono il mondo come diviso tra cosmo e caos, ma piuttosto come un processo che si muove unitariamente verso la redenzione.
2. L’anima solitaria di Agostino. Gli abitanti dell’Occidente sono insieme benedetti e gravati dall’anima di Agostino, poiché nessuno ha dato più profondamente forma alla psicologia occidentale e nessuno ha più profondamente fornito radici all’individualismo occidentale di questo Padre della Chiesa latina. Egli desiderava conoscere “Dio e l’anima”. “E nient’altro? No, nient’altro”. Ma perché precisamente e solo l’anima? Perché l’anima umana porta l’immagine di Dio dentro di sé come uno specchio. Così, chiunque voglia conoscere Dio deve dimenticarsi del mondo, cancellare i sensi ed entrare in sé attraverso la meditazione; a questo punto egli conoscerà insieme se stesso e Dio. “Entra in te stesso: la verità dimora nel più profondo della persona”.
Per Aristotele l’anima era un organo umano tra gli altri. Egli era in grado di descrivere in maniera oggettiva le caratteristiche dell’anima. Con Agostino invece l’anima diviene la parte più interna del sé, misteriosa e insondabile. Attraverso la sua interiorità riflessiva, lungo i cui sentieri egli vide sia Dio che se stesso e se stesso in Dio, Agostino ha scoperto la soggettività umana.
Descartes, con la sua filosofa della moderna soggettività, lo ha semplicemente seguito, adottando gli stessi argomenti di Agostino: io posso dubitare di tutte le impressioni sensoriali, ma non del fatto che dubito; io posso ingannarmi in tutto, ma non nel fatto che sono io a ingannare me stesso.
La certezza interiore di sé è più forte di ogni esteriore certezza oggettiva, perché è immediata, laddove l’altra è semplicemente mediata attraverso i sensi. In altre parole: ognuno è il referente più intimo, perché siamo noi a conoscerci meglio. Questo è il motivo per cui l’amore per sé è il presupposto dell’amore per gli altri e soltanto l’amore per sé conduce all’amore nei confronti di Dio. Se l’anima è la soggettività dell’ego, significa che governa il corpo e i sensi, e non è governata da essi. Inoltre, l’anima corrisponde a Dio: se Dio è colui che governa il mondo, allora fa sì che l’anima, corrispondente di Dio, governi il corpo. L’immagine di Dio negli esseri umani si esprime nell’autogoverno, nell’autodisciplina, nell’autocontrollo, come hanno insegnato i Puritani e i Gesuiti.
Ma Agostino sbagliò, considerando che questa somiglianza di Dio riguardasse solo l’anima degli individui. “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Genesi 1:26). La somiglianza a Dio va ricercata nella reciproca relazione tra uomo e donna, e questa relazione è sempre mediata attraverso i sensi e attraverso il corpo. Non vi è alcun riferimento biblico a un privilegio accordato all’anima individuale che guarda a se stessa.
Uno non incontra Dio guardando dentro se stresso, ma piuttosto al di fuori. L’essere umano completo assomiglia a Dio nell’unità di anima e corpo, di interiore ed esteriore, dello spirito e dei cinque sensi.
La comunità umana nel suo complesso, di uomini e donne, genitori e figli, è la corrispondente di Dio e diviene il suo riflesso nel mondo. L’unità differenziata di persona e natura corrisponde all’idea di Dio riguardo alla creazione: la persona rappresenta la natura e la natura sostiene la persona. Schiacciati dall’”anima di Agostino”, noi oggi stiamo tentando il “ritorno al corpo”, la “riscoperta dei sensi” e la percezione del mondo attraverso i sensi: e nel far questo ascoltiamo la teologia femminile.
La separazione tra persona e natura è moralmente pericolosa e conduce alla irresponsabilità morale.
L’umanesimo radicale, ad esempio quello evocato da Peter Singer, definisce la persona umana come soggetto di conoscenza e volontà. Gli esseri umani che non sono ancora, o non più, o mai stati in grado di controllare la loro conoscenza e la loro volontà, vengono visti non come persone, ma solo come materiale umano. Ciò include embrioni e feti, persone seriamente handicappate e in età senile. Solo le persone sane fra i trenta e i cinquant’anni lo sarebbero in senso pieno. I più giovani sarebbero persone in fase di evoluzione; i più anziani persone a riposo. Da ciò deriverebbe che solo la persona nel pieno senso della parola possa pretendere i diritti umani, laddove il “materiale umano” andrebbe trattato come oggetto della natura. Questo umanesimo radicale conduce a una totale inumanità, poiché ritira la dignità umana dalla vita che non è conforme alla “vera vita”.
Teologicamente, la somiglianza a Dio degli esseri umani non dipende dalle loro qualità, ma dalla loro relazione con Dio. Questa relazione tra gli esseri umani e Dio è di duplice natura: di Dio con gli esseri umani e degli esseri umani con Dio. Dio si pone in relazione con ogni embrione, ogni persona seriamente handicappata, ogni anziano, e la relazione è rispettata e onorata in essi quando la loro dignità è rispettata. Senza il timore di Dio la somiglianza non è rispettata in ogni essere umano, e quindi il rispetto per la vita è perduto a causa di una prospettiva utilitaristica. Con il timore di Dio nessuna vita è “indegna di essere vissuta”.
La persona tra dignità personale e lealtà sociale
Nelle società tradizionali la vita intera di una persona è predeterminata e regolata dalla culla alla tomba. L’appartenenza a famiglie, caste, strati sociali, popoli specifici determina il corso della vita di una persona, con scarso spazio per decisioni e sviluppo personali. Un nome proprio significa poco, e in alcune società le figlie sono semplicemente un numero, perché dopo il loro matrimonio combinato esse acquistano il cognome del marito. Per contrasto, un cognome significa tutto. Una buona famiglia assicura uno status sociale. Nelle società tradizionali la stabilità è tutto, l’individualità nulla.
Le società moderne collocano il valore della libertà personale al di sopra di quello di appartenenza. La tradizione non conforma più la vita. Noi viviamo in una società di libere scelte, perché crediamo che solo in esse gli individui possono costituire una società creativa. Ecco perché non possiamo continuare ad accettare alcunché di predeterminato. Ogni individuo deve essere in grado di determinare ogni cosa per sé: libertà di scelta per studi, vocazione, partner, domicilio, politica, religione e così via. Stiamo operando per diventare in grado di determinare liberamente la nostra composizione genetica. Nulla può essere accettato come “destino”: ogni cosa deve poter essere determinabile. Nelle società europee semi-tradizionali, una persona è ancora condizionata dal cognome; nelle società totalmente moderne, e fra i giovani, gli unici nomi che circolano sono Jim e Joan, cioè anzitutto i nomi propri.
Le grandi città moderne isolano le persone. Solo nei paesi e nelle piccole città è possibile vivere in famiglie allargate. Gli appartamenti e le auto moderne sono progettati per quattro persone – padre, madre e due bambini. La libera scelta di vocazione e di domicilio lacerano la tradizionale famiglia allargata. Di rado vediamo i nostri nipoti. Nelle grandi città, più della metà delle case sono abitate da single. Ciò non significa necessariamente isolamento, benché questo sia presente, specie fra gli anziani; molto più di un tempo, le amicizie scelte liberamente rimpiazzano le famiglie precostituite. I gruppi residenziali stanno diventando un nuovo modulo di vita. Le “persone di riferimento” stanno rimpiazzando i genitori.
In ogni soggiorno un apparecchio televisivo. Le persone siedono sole di fronte ad esso e pensano di partecipare a tutti gli eventi della città, della nazione, del mondo. Almeno così pensano, anche se in realtà partecipano solo a un “mondo virtuale” di informazione e intrattenimento preselezionati.
Certamente è possibile accendere e spegnere la televisione, ma questo non costituisce un controllo sui media. Benché la gente possa partecipare a ogni cosa nel momento in cui guarda le notizie, non è in grado di determinare gli eventi, per cui non può trasmettere alcunché. Ciò differenzia la televisione da ogni discussione faccia a faccia. Gli esseri umani sono sempre controllabili individualmente: divide et impera.
Ancora, vi sono indicazioni del fatto che sta emergendo una nuova cultura della morte. Nelle società tradizionali una persona era, in senso religioso, “unita agli antenati” e in senso materiale alla tomba di famiglia. Con il culto degli antenati la gente visita e cura le tombe dei parenti. Nelle società moderne, la cura personale delle tombe diviene sempre più difficile, perché sempre meno si vive vicino ai cimiteri. L’interesse religioso nella tradizione familiare sta scomparendo. Questa è la ragione per cui vi sono sempre più “esequie anonime”: il corpo è cremato e le ceneri disperse sul terreno o in mare. “Nessuno conosce il luogo”. Gli individui isolati, o semplicemente quelli che decidono per proprio conto, scompaiono nel nulla. Attualmente questo è un fatto piuttosto comune, dato che il nome della famiglia non conta più nella vita. Perché dovrebbe legare i giovani alle tombe dei defunti?
Una serie di eccellenti esperimenti è stata condotta per valutare la scomparsa delle persone nella società, attraverso una riflessione sui valori comunitari. Non mi riferisco a regressioni conservatrici e fondamentaliste, ma all’idea comunitaria di rafforzare maggiormente la sensibilità degli esseri umani nei confronti della nozione di appartenenza. Ciò include la creazione di forme locali di comunità in circostanze verificabili; la riappropriazione di valori del bene comune; un accresciuto apprezzamento del consenso sociale; lo sviluppo di una democrazia economica partecipativa. In una parola: l’idea di una “buona società”, di una “società civile”, attualizzata ad ogni livello, grande e piccolo.
Io colloco tale valutazione tra i valori del personalismo e del comunitarismo e restringo la mia considerazione alla libertà personale; una libertà che è il risultato di un crescente individualismo non può essere conservata. Né può essere abbandonata a vantaggio della partecipazione ad una società tradizionale. Secondo me, essa può essere preservata solo attraverso la sicurezza e la lealtà.
L’individuo libero è colui che può promettere (Nietzsche) e che può mantenere le promesse. Attraverso le promesse che posso fare, io mi realizzo in modo inequivocabile nei confronti degli altri e di me stesso. Con l’atto della promessa la persona definisce se stessa e diviene dipendente, acquista precisi contorni ed è possibile rivolgersi a lei. Facendosi carico di promesse, una persona acquista identità nel tempo. Solo nel nesso tra promesse fatte e promesse adempiute si realizza l’individuo libero, non predeterminato da tradizioni, che acquista continuità nel tempo e quindi identità.
Una persona che dimentica le proprie promesse dimentica se stessa. Se noi teniamo fede alle nostre promesse, acquistiamo credibilità; altrimenti finiamo col perdere identità e conoscenza di noi stessi. L’identità di una persona nella storia della vita è designata dal suo nome. Attraverso il mio nome io mi identifico con la persona che ero in passato e anticipo la persona che voglio essere nel futuro.
Le persone libere vivono socialmente insieme in un intreccio di promesse fatte e mantenute, di accordi e di fiducia; tale coesistenza non può esistere senza fiducia. Il paradigma di una società libera non si basa su una partecipazione predeterminata, ma su un patto; e questo patto si basa sul consenso sociale e sulla responsabilità.
Fare e mantenere promesse, dare e ricevere fedeltà: non sono restrizioni alla libertà personale, ma piuttosto la concreta attualizzazione di questa libertà. Dove mi sento personalmente libero? In un supermarket, dove posso comprare qualunque cosa desideri, ma dove nessuno mi conosce e la cassiera non mi guarda negli occhi, o in una comunità nella quale sono accettato e gli altri mi riconoscono e si fidano di me per quello che sono? La prima è la realtà di una libertà individuale di scelta; la seconda è realtà di una libertà basata sulla comunicazione. La prima mette a fuoco le cose, la seconda le persone. Per me la libertà autentica è realizzata attraverso la conoscenza reciproca e la reciproca accettazione, cioè: è realizzata personalmente attraverso l’amicizia e politicamente attraverso il patto. L’atmosfera di una libertà reale è la fiducia.
La moderna angoscia del tempo e la “scoperta della lentezza”
Nonostante che il mondo ci offra possibilità illimitate, il nostro spazio di vita è stretto. Da qui il panico della gente, che pensa sempre di perdere qualcosa, abbreviando così il tempo della propria vita. La differenza tra lo spazio di vita e le possibilità offerte dal mondo ci coinvolge in una “corsa con il tempo”. Noi vogliamo guadagnare più tempo, pensando di ottenere di più dalla vita e facendo ciò perdiamo vita. Siamo convinti che solo le persone che vivono sempre più in fretta ottengono di più. Ciò che noi orgogliosamente definiamo “il nostro mondo moderno” è chiamato così perché siamo forzati a modernizzarlo con velocità sempre maggiore. Ci muoviamo velocemente da un luogo all’altro, collezionando tante esperienze in parchi esperienziali (Disneyland) o in vacanze esperienziali: i sociologi parlano di “società esperienziale”.
“Fast food” è diventato simbolo della nostra “fast life”. L’uomo moderno velocizzato è preso in cura da McDonald’s: poveraccio! Egli ha una grande quantità di incontri, ma in effetti non fa esperienza di nulla, perché quantunque voglia vedere tutto, non interiorizza niente e non riflette su nulla. Ha una quantità di contatti, ma non ha relazioni perché incapace di soffermarsi, perché “va sempre di fretta”. Trangugia “fast food”, preferibilmente in piedi, perché non sa più godere di niente; mentre una persona ha bisogno di tempo per gustare la vita, e il tempo è precisamente quello che le manca.
La gente oggi non ha tempo, perché cerca continuamente di “guadagnare tempo”. Siccome l’individuo non può prolungare la propria vita, deve affrettarsi per “ottenere il massimo possibile dalla vita”. Però la scarsità di tempo non diminuisce di un solo secondo, accelerando il ritmo di vita; al contrario, per la paura di perdere qualcosa, si perde tutto.
Come turisti siamo stati dovunque, ma non siamo arrivati da nessuna parte. Non abbiamo mai tempo per altro che per una breve visita. Più viaggiamo e corriamo dietro al tempo e più i risultati sono scarsi. Dovunque siamo di passaggio, e solo di passaggio. Una persona che vive sempre di corsa per non perdere niente, vive in maniera superficiale e si perde le esperienze più profonde dell’esistenza. Tutto è possibile nel mondo di quella persona, ma solo ben poco è reale.
Il tempo meccanico di orologi costantemente presenti governa la nostra vita. Non importa se la misura del tempo è piena o vuota, se la noia ci opprime o se “il tempo vola”: dopo sessanta minuti un’ora è comunque passata. L’orologio non si occupa del nostro tempo dedicato all’esperienza e fa di ogni tempo la stessa cosa. Eppure il tempo dedicato all’esperienza rappresenta la qualità della nostra vita; un tempo misurato è semplicemente una quantità. Nei momenti intensi delle nostre esperienze di vita è importante mettere da parte l’orologio, o quantomeno non riservargli attenzione. La vita viene vissuta solo quando spezziamo la sua dittatura. L’anno scorso un saggio indiano disse a un mio amico: “Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo”.
Forse è la nostra repressa paura della morte che ci rende così affamati di vita. La nostra consapevolezza personale ci dice: “La morte è la fine di ogni cosa; non puoi tenerti nulla e non puoi portarti dietro niente”. Questa inconscia paura delle morte si manifesta in una furia accelerata di vita. Nelle società tradizionali gli individui hanno coscienza di sé come membri di un più ampio tutto, quale la famiglia; la vita come un cosmo. Anche se gli individui muoiono, la vita continua.
La moderna consapevolezza individuale, invece, conosce solo se stesso, mette in relazione ogni cosa solo con se stesso, pensando che con la propria morte “finisce tutto”.
Forse non riusciremo a tornare all’antica consapevolezza che noi “partecipiamo” a un più grande tutto, che continua anche quando noi siamo passati. Noi possiamo, comunque, consegnare la nostra vita limitata ad una vita eterna, divina – e quindi riaverla indietro, come accade nell’esperienza della comunione di Dio attraverso la fede. Sperimentare la presenza del Dio eterno colloca la nostra vita temporanea in un oceano, che ci circonda e sostiene, quando noi nuotiamo in esso. Così la presenza divina è intorno a noi da tutti i lati (Salmo 139) come uno “spazio aperto” di vita, che neppure la morte può cancellare.
In questa presenza divina noi possiamo manifestare la nostra vita limitata e impegnarci entro i suoi limiti. Diventiamo calmi e tranquilli e incominciamo a vivere lentamente e con gioia. Solo coloro che vivono lentamente ottengono di più dalla vita! Solo le persone che mangiano e bevono lentamente mangiano e bevono con soddisfazione: slow food, slow life!
Soltanto una persona estremamente ricca può perdere tempo. Chi è sicuro della vita eterna ha una grande disponibilità di tempo. Così indugiamo e ci apriamo a una esperienza intensa di vita. E sperimentiamo l’eternità: viviamo in maniera completa e incondizionata.
L’esperienza della morte, che accettiamo, ci rende pronti alla vita e saggi nel gestire il nostro tempo. La speranza di resurrezione ci apre un vasto orizzonte al di là della morte, per cui siamo in grado di prenderci del tempo per noi stessi.
In conclusione, il mondo moderno è nato dall’Occidente, anche se si è esteso ad altre aree. Ed è emerso dal cristianesimo, in particolare dal protestantesimo. Diritti umani e libertà personale a livello di religione, opinioni e coscienza, le forme politiche democratiche e la concezione libertaria della vita – tutto ciò è nato insieme al protestantesimo. La crisi di valori della modernità e del mondo occidentale è anche una crisi del protestantesimo. Noi siamo chiamati in modo specifico a lavorare in favore di una necessaria rivalutazione di valori, affinché il mondo possa vivere anziché morire.
*Fra il 1997 e il 2006 Il Center of Theological Inquiry ha pubblicato le CTI Reflections, antologie annuali delle lezioni pubbliche tenute presso la sua sede di Princeton, New Jersey.
Il testo è tratto da www.ctinquiry.org
Juergen Moltmann è nato ad Amburgo ed ha iniziato a studiare teologia e filosofia mentre era prigioniero di guerra in Inghilterra nel 1946, continuando all’Università di Gottinga dopo il rimpatrio avvenuto nel 1948. Dopo un incarico pastorale nella Chiesa Evangelica di Brema, iniziò la sua carriera accademica nell’Università di Bonn nel 1953. E’ stato professore di Teologia sistematica a Tubinga presso la facoltà protestante di Teologia. Le numerose pubblicazioni del prof. Moltmann includono: Il Dio crocifisso e Teologia della speranza.
[Traduzione: Aurelio Penna - Gennaio 2010]