DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SE L’INFERNO RITORNA A FAR NOTIZIA

Quel sommesso accenno del Papa rompe la solitudine
di chi offre indifferenza in cambio d’indifferenza,
richiama alla coscienza. Ma chi ripeterà le sue parole?


Gianni Baget Bozzo

Correva l’antico avvertimento: «Ricordati i tuoi novissimi e non peccherai», diceva la saggezza cristiana. I «novissimi» erano gli ultimi avvenimenti della vita umana oltre il tempo: la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso. Oggi il motto non corre più nemmeno nelle parrocchie, forse nemmeno nei movimenti, salvo i neocatecumenali. Eppure il Papa ha sentito l’obbligo pastorale perché dottrinale di ricordare ai fedeli che l’inferno esiste. Ha subito aggiunto la speranza che ci vadano in pochi e che sia un terminale d’eccezione. Dell’inferno parla il suo Catechismo della Chiesa cattolica ed è ai fedeli d’una parrocchia romana che ha fatto quest’affermazione quasi sottovoce, non l’ha destinata al pubblico dell’omelia del mercoledì o dell’angelus domenicale. Pure, l’avvertimento ha fatto subito notizia e sono apparsi sui giornali gli affreschi infernali del Signorelli, una delle più efficaci rappresentazioni dell’immaginario medioevale.
I «novissimi» sembrano troppo duri per essere detti oggi. Eppure solo il loro accenno sommesso fa notizia, come se rispondesse a qualcosa di cui si sente la mancanza. I «novissimi» infatti ci dicono che ciò che fa l’uomo non è indifferente a Dio e acquista le sue dimensioni. L’azione umana è giudicata dalla sapienza infinita, è oggetto di un’attenzione scrupolosa che considera e rispetta la libertà ma giudica l’atto. Insomma, il mondo non teletrasmesso ha sempre un pubblico; è guardato da un testimone invisibile che considera gli atti umani come qualcosa che tocca la sua realtà infinita.
Il Papa ha legato il concetto d’inferno a quello di peccato, all’idea che l’azione dell’uomo ha un valore innanzi all’eterno e segna agli occhi di Qualcuno il peso eterno della sua esistenza. In un mondo in cui si credono i «novissimi» non esiste l’indifferenza dell’uomo all’altro uomo. È infine quello che si chiede quando si domanda la libertà degli atti e dei diritti: si chiede l’indifferenza. Ogni individuo è una monade che guarda solo se stessa. Di se stesso è l’unico testimone e, impropriamente, si può dire che è l’ultimo giudice. Per questo pensare che il mio atto abbia la dignità di essere un peccato per una presenza infinita, toglie la possibilità dell’indifferenza non solo alle mie azioni ma ai miei desideri, intenzioni e scelte. Un testimone invisibile costruisce l’uomo interiore. È facile vedere quanti concetti laici siano legati a quello del Qualcuno invisibile che giudica il cuore: il concetto stesso di coscienza e anche quello di libertà sono legati al fatto che siano le mie intenzioni, non i miei atti né i miei risultati, a costituire me stesso.
La cultura postcristiana mantiene il concetto dello sguardo invisibile sui nostri atti, ma li ritiene come murati in noi stessi. La condizione dell’uomo che non ha più la fede nei «novissimi» è la solitudine. Non era così nel mondo pagano in cui gli atti esteriori non dipendevano dalle intenzioni, non esisteva l’uomo interiore, non esisteva la coscienza giudicante noi stessi che oggi abbiamo. Per questo l’inferno suscita interesse; rompe l’idea della solitudine, mostra le nostre intenzioni e il nostro cuore come oggetto d’uno sguardo e d’un giudizio. Il Papa che parla d’inferno provoca un’attenzione non legata a fatti esteriori come i Dico, ma risponde alla coscienza, il residuo cristiano che vive nel tempo della secolarizzazione e pensa di conservare se stessa offrendo indifferenza in cambio di indifferenza. Ma da questo a pensare che il Papa sia seguito e che i «novissimi» ritornino nel linguaggio parrocchiale ci corre. Chi parlerà oggi del peccato che non nuoce a nessuno in particolare, ma offende Dio nella sua pura realtà interiore, come intenzione e non come atto? Lo sguardo di Dio come atto sulla nostra vita determina mondi diversi dalla distinzione tra lecito e illecito. Pone la differenza tra peccato e grazia, tra il contrasto con lo sguardo divino o la sua fusione con esso.

La Stampa, 28 marzo 2007