da Hanoi Stefano Vecchia Ripartire da Danang. Sulle sue spiagge interminabili, bianchissime tra il blu del mare e il verde della costa, iniziò nel marzo 1965 lo sbarco dei marine che doveva portare a un livello nuovo – l’invasione, il conflitto corpo a corpo, la lotta senza quartiere – quella che fino ad allora per gli Usa era stata una sorta di guerra virtuale, elaborata dalla politica e dai vertici militari a Washington, combattuta con aerei spia e bombardieri. Danang, che punta su un turismo elitario, è al centro del Paese, dove questo si assottiglia quasi fino a spezzarsi, una cerniera sottile con la vicina Hué, che ricorda la passata grandezza, e l’operosa Hoi An, che assimila in un contesto di rara bellezza urbana vietnamiti e una folta comunità straniera, a definire insieme divisione e assimilazione ugualmente scolpite nella storia. Qui il Vietnam si bilancia e si mostra al meglio della sua natura e della sua cultura, equidistante dai suoi due poli. A 34 anni dalla riunificazione resta la tensione fra l’austera Hanoi, invasa alla sera da un fiume in piena di biciclette, da gente povera ma dignitosa e nuovi ricchi che spiccano distintamente, e Città di Ho Chi Minh, l’ex Saigon, che si è piegata sotto l’urto dei Vietcong per poi tornare se stessa, inevitabilmente vitale, benestante e intraprendente. Tra le due metropoli il Paese distende le sue contraddizioni ma anche le sue potenzialità. Il contrasto culturale, più che di reddito, tra la città e la campagna: le differenze etniche che si fanno discriminazione e anche persecuzione di regime nei confronti dei montagnard; un’economia e in particolare un’agricoltura che si è andata specializzando anche a costo di gravi sacrifici per potere penetrare i mercati globali, mentre la classe politica ancora persegue formalmente una via contraria a liberismo e capitalismo; corruzione a contrastare l’integrità ideologica e la pressione all’uguaglianza nella povertà; autonomia e orgoglio nazionale che si sciolgono nell’oceano di beni che arrivano dal sempre ingombrante e sovente nemico vicino cinese... Una domanda viene spontanea: è questo ancora un Paese che vive della memoria del conflitto, oppure questa memoria è un riflesso della ' nostra' memoria, quella di un Occidente testimone incerto e diviso del dramma vietnamita? « V edi, noi abbiamo prospettive diverse davanti a quella che comunque è stata una tragedia – mi diceva qualche anno fa una guida locale –. I francesi ci hanno colonizzato e per noi affrontarli con le armi è stato inevitabile. Gli americani hanno tentato di impedirci di portare a termine un percorso di liberazione nazionale e per questo li abbiamo combattuti. Noi abbiamo sofferto ma vinto, loro hanno sofferto ma perduto. Per questo non li odiamo e sono i benvenuti » . Ma è soprattutto il tempo che sana le ferite del passato e anche l’incontro per certi aspetti straziante con i veterani che inseguono elemosine nel centro di Hanoi sta diventando un elemento folcloristico, sempre più raro ma anche sempre più vissuto nell’indifferenza. Un’indifferenza anch’essa ' globalizzata', ma che sa tanto anche di voglia di dimenticare e di ricominciare per davvero. Con un ruolo diverso anche per la cultura di un paese di antica tradizione letteraria ed artistica. Da tempo i vietnamiti si chiedono, come gli abitanti del villaggio di un’antica leggenda ripresa dallo scrittore Nguyen Huy Thiep: « Ma è possibile che la mucca abbia un tetto e il maestro non abbia neanche una casa? » . Certo, il Paese evolve nonostante i rigidi controlli del potere e la sua cultura cerca modalità possibili per partecipare a questa evoluzione. Sottolinea Nguyen: « Nel 1950, alla mia nascita, la popolazione del mio Paese era di circa 30 milioni di abitanti, di cui il 90% analfabeti. Oggi la popolazione è di poco più di 80 milioni, con un tasso di analfabetismo circa del 15%. Poco più di 10 anni fa, nel 1997, internet è arrivato in Vietnam e oggi viene utilizzato dal 25% della popolazione. I miei figli non conoscono più le attrezzature agricole, leggono i libri e li trovano noiosi, leggono le notizie solo su internet e giocano al computer con i videogame » . Vi è quindi il rischio, per reazione a un sistema repressivo e per adesione a un sistema di vita lontano dai canoni tradizionali, che « alla fine, il maestro abbia il vestito per coprirsi, un gatto per catturare i topi, una mucca che fornisce il latte e una donna che lo aiuti per le faccende in casa » , ma senza più riuscire – come avverte la saggezza popolare – a ritrovare il proprio equilibrio interiore, la propria spiritualità. Ecco allora che anche la religione recupera un ruolo. Qualche anno fa, il cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Città di Ho Chi Minh, dichiarò pubblicamente che mentre la Chiesa e i comunisti possono avere una diversa visione dei valori umani, è tuttavia possibile trovare « comuni denominatori » per un dialogo diretto, non mediato da una società civile che di fatto non c’è, e che parta dal confronto sui diritti umani e sulle libertà civili. Ad esempio, mentre il Partito comunista basa la sua legittimazione sulla capacità di guidare il Vietnam all’autodeterminazione, la corruzione che tocca molti dei suoi membri ha minato l’immagine di integrità del partito. Ecco quindi che la Chiesa interviene criticando il regime per la violazione dei suoi stessi presupposti, sottolineando come la corruzione che colpisce la gente comune annulli i valori fondamentali dello Stato vietnamita. A trentaquattro anni dalla riunificazione resta la tensione fra l’austera Hanoi, fatta di gente povera ma dignitosa e nuovi ricchi, e Città di Ho Chi Minh, l’ex Saigon, che si è piegata sotto l’urto dei Vietcong per poi tornare se stessa: benestante e intraprendente |