DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Avarizia Il Paperone che è in noi. DENARO PUTRIDO. di Stefano Zamagni

Per la tradizione giudaico-cristiana, l’avarizia è il vizio capitale maggiormente responsabile dei fenomeni di scarsità e dei conseguenti conflitti distributivi. Biunivoco il legame che sussiste tra avarizia e scarsità: per un verso, quest’ultima agisce da stimolo verso l’adozione di comportamenti sempre più autointeressati, dato che il possesso di beni scarsi accresce il prestigio e la considerazione sociale; per l’altro verso, l’avarizia tende ad aggravare le varie forme di scarsità a causa dell’impatto negativo sulla disponibilità dei beni e della difficoltà di distinguere nella pratica tra bisogni e desideri. Può essere interessante ricordare, a tale riguardo, che la parola ebraica per denaro – l’oggetto principale cui anela l’avaro – è damim , che nel Talmud e nella tradizione cabalistica significa sangue al plurale. Il sangue è vita solo se circola; se ristagna conduce a morte certa. È perfetta l’analogia con la metafora del pozzo utilizzata da Basilio di Cesarea, nel 370: «I pozzi dai quali si attinge di più fanno zampillare l’acqua più facilmente; lasciati a riposo imputridiscono. Anche le ricchezze ferme sono inutili; se invece circolano sono di utilità comune e fruttifere». L’avarizia non consente al sangue di circolare così come non consente che si attinga acqua dal pozzo.
Di fronte alle odierne
res novae non è difficile scorgere dove si annida la pericolosità sociale dell’avarizia. Il problema che l’avaro crea non è tanto il fatto che le cose cui anela siano espressione di preferenze egoistiche, né che siano desideri suoi, quanto piuttosto il fatto che tutti i suoi desideri abbiano come oggetto delle cose per lui. Ecco perché l’avaro è un parassita. Egli può essere ciò che è a condizione che gli altri siano diversi da lui. L’avarizia rappresenta oggi uno dei più gravi impedimenti all’innovazione sociale e al progresso civile.
E ciò per la fondamentale ragione che l’avarizia viola la giustizia intesa come forma di rispetto tra individui. Nelle nostre odierne economie di mercato fa scandalo l’usuraio, ma si nasconde bene l’imprenditore avaro che non trasforma in investimento il profitto della propria attività.
Rifiutandosi di legarsi all’altro, l’avaro non riesce a tradurre in pratica il messaggio della regola d’oro: «ama ogni altro come te stesso». E questo per la semplice ragione che l’avaro non ama se stesso, ma solamente «la roba» che accumula. Secondo la celebre espressione di Kierkegaard, la porta della felicità si apre verso l’esterno, sicché può essere dischiusa solo andando «fuori di sé». Il che è proprio quanto l’avaro non riesce a fare.
Oggi, siamo forse in grado di andare oltre
la riduttiva interpretazione di Voltaire secondo cui «gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla» e di vedere nell’avarizia il vizio capitale che, se non controbilanciato da autentiche e vaste pratiche di gratuità, può minacciare la sostenibilità del nostro modello di civiltà. L’aveva ben compreso Dickens, che nel suo Canto di Natale (1843) fa compiere al freddo e avaro Ebeneezer Scrooge il gesto rimasto celebre, indimenticabile. Il vecchio finanziere della City, che mai aveva speso un centesimo e che considerava il Natale una perdita di tempo e dunque di denaro, alla fine scopre la verità su di sé, assieme a qualcosa della vita che non aveva ancora assaporato.
Nell’incredulità generale, comincia a distribuire non solamente il denaro ossessivamente accumulato nel corso di una vita guidata dalla passione dell’avere, ma anche simpatia e tenerezza. E da ciascuno si congeda con le parole: «Vi ringrazio, vi sono molto, molto riconoscente». Finalmente, da vecchio, l’avaro Scrooge aveva scoperto cos’è la reciprocità e con essa aveva assaporato la felicità.
*economista

LA «LUPA» DI DANTE CHE DIVORA IL CUORE

di Salvatore Martinez*
C
osì Zenone di Verona, padre della Chiesa del IV secolo, si
esprime sul tema dell’avarizia nel suo omonimo trattato: «Potessero tutti gli uomini spogliarsi dell’amore per l’avarizia con quella facilità con cui la biasimano! Ma essa è un’incantatrice, un dolce male, una maledizione per l’umanità tutta, in ogni tempo. Giustamente Dio odia l’avarizia: è una brama senza fondo, un desiderio di rapina che non ha confine, una tensione che non trova pace, che non conosce contento. Spezza la fedeltà, spegne ogni sentimento, pone se stessa al di sopra dei diritti divini e, con argomentazioni cavillose, riduce a nulla ogni diritto umano e, se le fosse possibile, usurperebbe il mondo intero» (I, 10; 11).
La philargyría (dal greco «attaccamento al denaro»), ricorda san Paolo al discepolo Timoteo, è «la radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), un’idolatria insaziabile che scalza il primato di Dio nella vita dell’uomo e lo rende «egolatrico», cioè adoratore narcisista delle sue voglie. Il poeta Dante, nel Purgatorio, maledice l’avarizia, definendola «antica lupa che più di tutte l’altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!» (XX, 10-12).
I mezzi di comunicazione, come un triste ritornello, vanno ripetendo: «Bruciati miliardi di euro e di dollari». In realtà, a bruciare è la grande miseria umana, tanto più devastante e generatrice di ingiustizie sociali quanto più determinata dall’assenza di Dio, della verità di Dio sull’uomo, da una malintesa nozione di «libertà» che tende sempre più a far coincidere la felicità umana con il bramare ogni bene disponibile, senza alcun limite spirituale e morale. Il papa Benedetto XVI, a Sydney, affermava: «In molte nostre società, accanto alla prosperità materiale, si sta allargando il deserto spirituale: un vuoto interiore, una paura
indefinibile, un nascosto senso di disperazione» (Gmg 2008).
L’uomo, così, finisce con l’essere vinto dalle cose che vince e mentre acquista avidamente nuovi beni terreni perde se stesso allontanandosi dal cielo. Come sono vere le parole di nostro Signore: «Dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Ma cosa è questo tesoro dell’uomo se non il raccolto faticoso di una nuova seminagione di vita spirituale, in un tempo sempre più esteriorizzato e irretito da facili e perversi paradisi? Vivendo in un tempo sempre più pervaso da «siccità» di valori spirituali stiamo supinamente accettando che il regno del soggettivismo esasperato continui a produrre e a giustificare il moltiplicarsi di violenza e di crudeltà. Sì, perché l’egoismo è scuola di crudeltà! Potranno gli uomini vedere questo nostro mondo con occhi nuovi, trasfigurati dallo Spirito? Chi è in grado di farlo sa che la vita è amore di dedizione, di gratuità, esperienza esaltante e terribile insieme, che costa lacrime e sangue, che fa dell’amore «cristiano» una vita sofferta, offerta, offesa,
eppure capace di redimere da ogni vizio che porta alla morte corporale e spirituale.
La nostra vita non è un viaggio verso l’ignoto; ognuno di noi ben conosce le proprie miserie, le situazioni che lo affliggono, il suo segreto bisogno d’aiuto. Solo dallo Spirito di Dio discende quell’ordine interiore, quell’intimo conforto che ci permette di resistere al male che impera indomito nel nostro cuore ancor prima che tra le pieghe della storia. Dobbiamo ridare un significato nuovo a questo mondo; agli uomini il gusto delle cose interiori, alla vita nuove inquietudini spirituali: non si può vivere soltanto di frigoriferi, di bilanci bancari, di sms, di parole crociate e di lotterie. Così il vivere è già morire! Occorre un sussulto di passione e un sentimento più alto, così che i motivi di interesse, di orgoglio e di dominio che disintegrano la vita sociale possano essere contenuti e repressi. Un nuovo ethos, un’etica delle virtù che segni una profonda stagione di rinnovamento e di conversione.
*coordinatore nazionale del Rinnovamento nello Spirito