DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Etiopia. Il record dei cristiani

L’ANALISI DEL SOCIOLOGO PHILIP JENKINS

Nel Paese africano nel 2050 vi saranno 100 milioni di fedeli in Cristo, facendone la più grande comunità del mondo: gli eredi di Lalibela, considerata la seconda Gerusalemme, potranno vincere il cliché dell’irrilevanza storica

Etiopia


di
Philip Jenkins
Il record dei cristiani


Monaco copto s’arrampica lungo un sentiero scavato tra le chiese rupestri di Lalibela (Etiopia), costruite tra XI e XII secolo
L
alibela, in Etiopia, dovrebbe occupare i primi posti tra i contendenti al titolo di sito più straordinario nella storia dell’arte e dell’architettura cristiana.
Immaginate di camminare su una collina e di vedere quel che è simile a una bassa struttura monolitica in pietra che sporge per poco dal terreno. Andando più vicino potrete notare una specie di ampio fossato - e solo in questo momento accorgervi che quel che state osservando a livello di suolo è il tetto di una possente chiesa a torre che si estende per circa 12 metri sotto la superficie.
Per molti anni gli operai scavarono la chiesa nel granito usando solo il martello e lo scalpello. L’edificio conserva i ricchi colori della roccia, che paiono mutare con le varie ore del giorno.
Lalibela è il sito con 11 di queste chiese, compresa la più grande che esista al mondo, realizzata da una sola pietra. Pochi etiopi dubitano che gli angeli abbiano avuto un ruolo in questo progetto di vaste costruzioni. Le origini dell’area sono misteriose. Prende il nome da un re famoso, Gebre Mesqel Lalibela, che governò intorno al 1200 e che presumibilmente volle dare ai cristiani una meta di pellegrinaggio alternativa rispetto a Gerusalemme.
Certamente Lalibela aspira ad essere una seconda Gerusalemme riproducendo molti nomi di luoghi ed edifici celebri, ma non sappiamo la sua esatta data di nascita. Alcune delle chiese potrebbero essere più vecchie di secoli nei confronti del re Lalibela.
Per quanto sia antico, da secoli il sito riempie di stupore i viaggiatori. Quando il primo visitatore europeo ne parlò intorno al 1520, lottò per trovare le parole. Non voleva frenare l’entusiasmo ma sapeva anche che nessuno avrebbe creduto al racconto sui dettagli e le dimensioni di Lalibela. E i lettori sarebbero stati sorpresi apprendendo che questo luogo cristiano miracoloso era in Africa! Lalibela è solo un luogo tra le molte chiese e santuari di pellegrinaggio evocativi d’Etiopia - ed è secondo per santità e prestigio nei confronti di Axum ( Etiopia), famosa per l’arca dell’alleanza. Come le sue controparti Lalibela da secoli è conosciuta ed amata. Gli etiopi hanno un senso profondo delle radici religiose del loro paese. Tutti i grandi centri - le chiese scolpite nella roccia, i monasteri, i luoghi miracolosi - attraggono masse di pellegrini nei momenti centrali dell’anno, come a Timqat ( epifania).
Gli studiosi moderni si sono sforzati di superare la prospettiva limitata dell’Europa occidentale che per così tanto tempo forzò la scrittura della storia della Chiesa, ma pure gli sforzi meglio intenzionati raramente rendono il senso della fede ardente e complessa degli africani al tempo di ciò che gli europei chiamano Medioevo e primo periodo moderno ( o, di fatto, fino al presente). Come è ancora possibile scrivere libri di storia dell’architettura cristiana senza includervi pagine su Lalibela? Quando gli storici ricordano la selvaggia invasione italiana d’Etiopia negli anni Trenta del secolo scorso, la definiscono un’istanza della brutalità fascista e non una campagna
devastante contro una terra centrale del cristianesimo, un violento assalto segnato dalla strage di massa di monaci e preti etiopici.
Gli studiosi tendono a scrivere come se il cristianesimo africano sia qualcosa di nuovo e di sperimentale più che la ripresa di una realtà antica. Alcune chiese africane più recenti stanno lottando per superare questo mito. Uno dei punti di svolta nella storia della Chiesa africana moderna fu la vittoria etiopica sulle forze di invasione italiane nella battaglia di Adua del 1896, un raro esempio di opposizione all’apparente espansione irrefrenabile della supremazia europea. Quello fu il momento in cui le chiese nere nell’Africa meridionale iniziarono a definirsi etiopiche per affermare che avrebbero potuto accettare la fede come fenomeno africano non costretto da norme europee preimpacchettate.
Il cristianesimo etiopico fa notizia oggi e non solo per la sua storia. La nazione possiede uno dei più alti tassi di natalità al mondo; la sua popolazione è aumentata dai 33 milioni nel 1975 agli 85 milioni attuali, e potrebbe passare ai 180 milioni nel 2050. Oggi ci sono 50 milioni di cristiani in Etiopia; nel 2050 potrebbero essere 100 milioni, il che farebbe dell’Etiopia la culla delle comunità cristiane più grandi al mondo. In misura sempre maggiore questi credenti migrano nel mondo, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Lontani dal cadere nell’irrilevanza storica, gli eredi di Lalibela avranno una parte significativa nella popolazione cristiana mondiale.


Etiopia cristiana

Mons. Gianfranco Ravasi


Pare che in Europa si contino almeno 275 "Madonne nere", dipinte tra il VI e il XII secolo e assegnate spesso, senza imbarazzo critico, all'evangelista e pittore Luca: chi non ricorda quelle di Bologna o di S. Maria Maggiore a Roma o di Częstochowa in Polonia? Ebbene, alla base – più che a rimandi etnici – c'è un celebre passo del Cantico dei cantici in cui l'amata si autodefinisce così: «Io ho la pelle scura ma sono affascinante… Non fissatevi sulla mia pelle scura: è il sole che mi ha abbronzata» (1,5-6). Lasciando da parte il più normale significato estetico-realistico, l'esegesi allegorica ha ricamato su quella pelle una trama di metafore, a partire appunto da quella "mariana", per giungere all'anima macchiata dal peccato (Origene) o all'abito nero dei monaci (Abelardo) e approdare alla teologia della "negritudine" che ribadiva, in sede religiosa, il famoso slogan secondo cui «Black is beautiful!».

La frase nella versione latina della Vulgata – Nigra sum sed formosa – dà ora il titolo a un volume che vorremmo suggerire al di là del suo genere di catalogo della mostra veneziana dedicata al "sacro e bellezza dell'Etiopia cristiana", che si chiude il prossimo 10 maggio a Ca' Foscari. Il fascino è tutto racchiuso in questa civiltà religiosa, sbocciata in una terra che la tradizione ha raccordato all'attraente bellezza della regina di Saba, capace di abbacinare il re Salomone, liberamente identificato nel personaggio maschile del citato Cantico (come non pensare a quel gioiello che sono Le perle malate dello scrittore jiddish lituano Alter Kacyzne, edito in italiano da Scheiwiller?). Sarà proprio su questa base che fiorirà la leggendaria genealogia dei discendenti etiopi dall'unione tra il sovrano biblico e la regina africana. Una genealogia che ha prodotto anche un esito sorprendente nel movimento "messianico" afro-caraibico dei Rastafariani che nell'imperatore etiope Hailé Selassié (1892-1975), il cui nome era appunto Ras Tafari, videro un emblema quasi divino (e Bob Marley con la sua musica reggae contribuì a diffondere questo stravagante approdo religioso).

Ma se si vuole conoscere l'autentica spiritualità etiopica, la sua genesi storica, il suo profilo dottrinale, la sua letteratura nella lingua ge‛ez (che appare già a livello epigrafico nel II-III secolo d. C.), la sua liturgia sontuosa, la sua arte originalissima, la curiosa tipologia delle sue chiese, la musica che ebbe in Yared (VI secolo) il suo aedo, la più antica iconografia della croce e altro ancora, la mostra veneziana e il suo catalogo possono essere una straordinaria guida capace di svelare un orizzonte per molti versi indimenticabile. Un orizzonte dotato di una sua autonomia, incarnata dalla Chiesa ortodossa di Etiopia denominata Tawahedo, un vocabolo indicante unità, non solo perché unifica le comunità cristiane di quella terra, ma soprattutto per il suo risvolto teologico: la cristologia di quella Chiesa è, infatti, "monofisita", perché il Cristo è, sì, una sola persona, ma ha allo stesso tempo una sola natura nella quale si intrecciano e si fondono divinità e umanità. E accanto alla sua adorazione si assiste a una vigorosa proliferazione letteraria e devozionale per sua madre, Maria.

Un'esperienza, quindi, in grado di incrociare una storia gloriosa (la figura dell'imperatore Zar'a Ya‛qob del XV secolo è esemplare), una cultura vivacissima e un modello di cristianesimo autoctono molto creativo. Basterebbe solo inseguire lo srotolarsi dei manoscritti etiopici (la Biblioteca Vaticana è, al riguardo, uno scrigno straordinario) e, con l'aiuto dell'apparato iconografico del volume che ora segnaliamo, scoprirne la fantasmagoria di segni, immagini e colori. Ma non bisognerà neppure dimenticare l'incontro che si è consumato tra l'Etiopia e l'Europa, soprattutto con la mediazione di Venezia, e che continua anche ai nostri giorni nella più modesta versione del turismo e con le estemporanee esternazioni sull'Arca dell'alleanza da parte di qualche visitatore. In realtà, quel segno di matrice anticotestamentaria collocato in uno spazio esoterico ad Aksum, è solo un filo simbolico per riannodare alle radici bibliche la storia di questa comunità che, nell'epopea nazionale abissina del Kebra nagast ("Gloria dei re"), vuole ascendere – come si diceva – fino a Salomone.

Autori Vari, «Nigra sum sed formosa. Sacro e bellezza dell'Etiopia cristiana»
Terra Ferma, Vicenza – Università Ca' Foscari, Venezia
pagg. 206, € 49,00.



Alberto Vascon, autunno 2004



Pubblicato su Missioni Consolata Aprile 2006 - Dossier Etiopia: radicati nella croce


Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell'Etiopia, facendone l'unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopici hanno resistito a pressioni e persecuzioni esterne ed interne fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.


L’introduzione del Cristianesimo in Etiopia

L'inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo IV quando, come racconta lo scrittore Rufìno di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione. La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto. Ma vediamo l'originale.

«Un certo Meropio di Tiro, filosofo, si recò in India per un viaggio d'istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle arti liberali. Sulla via del ritorno, la nave si fermò per fornirsi di acqua sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente del luogo in lotta contro l'impero dei romani. Tutto l'equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che furono catturati e offerti in dono al re degli etiopi.

Impressionato dalla loro intelligenza, il re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua morte, il re liberò i due giovani. Ma la regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello stato.

Approfittando della sua elevata posizione, Frumenzio accolse i cristiani, ne facilitò la predicazione e concesse loro luoghi per pregare.

Giunto il principe alla maggiore età, i due fratelli presero congedo dalla corte: Edesio ritornò a Tiro dove ricevette gli ordini sacri; Frumenzio si recò ad Alessandria a informare il patriarca Atanasio della diffusione del cristianesimo nel regno di Aksum, esortandolo a mandarvi un vescovo, che si prendesse cura di quelle prime comunità di fedeli. Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose a Frumenzio: “Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo spirito di Dio come è in te, e che possa attendere a tale compito?". E lo consacrò vescovo, inviandolo ad Aksum».

Il Costantino etiopico

Dalla scarna narrazione di Rufìno non è facile stabilire la datazione esatta dell'inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 328, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330. Rufìno riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di aksumiti. A parte l'espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (padre pace), e con l'appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole). Essi sono l'alba e la luce della nuova Etiopia, l'Etiopia cristiana.

Questi eventi si realizzarono nell'epoca di Costantino il Grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell'impero romano; il parallelo è d'obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell'imperatore romano.

I re di Aksum Abrahà e Atsbhà con Abba Salama e santi, chiesa di Aibà, Endertà

Figlia di Alessandria

Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d'Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.

Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofìsita» e i cristiani d'Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell'Egitto e significa «egiziano».

I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.

All'inizio del V secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofìsita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest'ultima vi sussisteva.

Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del Concilio e si separarono da Roma.

E’ necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido di quello di Eutiche, che ha molti punti in comune con il diofisismo delle Chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.

Nel V secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i Nove Santi, mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.

Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel V secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del VI secolo, è festeggiato come Santo dalla Chiesa Cattolica il 27 ottobre.

Verso la fine del VI secolo Aksum entrò in declino e l'Etiopia fu ben presto accerchiata dall'espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

I Nove Santi, chiesa di Gorgorà Debra Sina, lago Tana

Gli Tsaddecàn, chiesa di Baracnahà

Dispute teologiche

L’arrivo dei missionari Gesuiti in Etiopia, nei sec. XVI-XVII, portò alla conversione al cattolicesimo, seppur per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios. Ma il loro arrivo innescò anche nel clero etiopico delle dispute interminabili sull’unzione e sulla natura di Cristo, dispute che sfociarono talvolta in lotte feroci e sanguinarie, con guerre e massacri di interi monasteri.

Le discussioni dei religiosi etiopici con i Gesuiti provocarono la nascita di due correnti teologiche: l'una sostenuta nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande ansa del Nilo Azzurro a sud del lago Tana; l’altra nel monastero di Debra Libanos nello Scioa. La corrente dei goggiamesi si estese poi al Tigrai e al monastero del Bizen nell’estremo nord dell’Etiopia.

I goggiamesi sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito Santo, ma da se stesso, e che, nell’unione col Verbo, la sua natura umana era stata assorbita da quella divina. Era questa una posizione di rigido monofisismo di tipo eutichiano. Questa corrente prese il nome di carrà, coltello, ma fu chiamata anche qebàt, unzione, e hulèt liddèt, due nascite, perché riconosceva in Cristo la generazione eterna e la nascita dalla Vergine.

I debralibanesi, invece, sostenevano che Cristo era stato unto dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Questa dottrina implicitamente riconosce, nell’unzione, la natura umana di Cristo. Essa fu chiamata sost liddèt, tre nascite, perché opponeva ai goggiamesi anche una terza nascita mediante l’unzione. Questa dottrina fu anche chiamata teuahdò, che significa «divenuto uno», perché sostiene che la natura umana e la natura divina si sono unite, con l’incarnazione, in una natura composita di umanità e di divinità. Fu anche chiamata tseggà ligg, figlio di grazia, perché con l’unzione la natura umana di Cristo viene santificata dalla grazia dello Spirito Santo.

Nel corso della storia prevalse ora l’uno ora l’altro partito, con rivolte che furono sedate nel sangue. Sotto il regno di David III, ad esempio, nel primo quarto del XVIII secolo, furono sterminati tutti i monaci di Debra Libanos. Con la salita al trono di Teodoro II (1855) la setta dei goggiamesi venne proclamata religione di stato, e fu riconfermata e imposta con la forza da Giovanni IV nel Sinodo di Boru Mieda (1878). Pochi anni dopo, l’ascesa al trono imperiale di Menelik segnò la fine delle contese religiose: Menelik fu molto tollerante e lasciò ad ognuno libertà di scelta e la dottrina di Debra Libanos diventò la dottrina ufficiale della chiesa etiopica.

Oggi la Chiesa etiopica, al pari delle altre Chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della Chiesa etiopica è Chiesa Ortodossa Teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».

Inoltre, da poco più di mezzo secolo la Chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte da Hailè Sellassiè, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico nella persona dell'Abuna Basilios.

L'Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, i quali nel 1996 hanno nominato il loro Patriarca.

Liturgia etiopica

Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce ed invasioni esterne, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è un’isola cristiana in un mare di pagani. Scrisse Padre Giulio Barsotti nel 1939:

In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto
tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia....
Dal secolo quarto, in cui il Vangelo penetrò nel regno di Axum,
fino ad oggi, tutta la vita degli Abissini è stata dominata
dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo...

La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della Chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debterà imitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel VI secolo, commuove i credenti. Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana. I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto che solo gli amara riescono a decifrare. La Vergine è al di sopra di tutti i Santi e viene celebrata innumerevoli volte. Viene invocata nel Chidàne Mehrèt, il Patto di Misericordia, per intercedere presso Cristo per sfuggire ai tormenti dell’inferno.

I preti salgono tutti i giorni sui colli dove sorgono le chiese. Le messe durano tre ore, e tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, dalle malattie o dall'età devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda, accompagnano i versi dei qeniè.

Celebrazione del Natale a Lalibelà

Satana tormenta l’anima di un peccatore, chiesa di Batra Mariam, lago Tana

Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della Chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucarestia con la somministrazione del pane e del vino, i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del Vangelo e dei Miracoli di Maria. I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta santorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa. Il tabòt viene portato ad una fonte nella celebrazione del Timchèt, la festa dell’Epifania, il Battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.

In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di cicca decorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucarestia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adornata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibelà e del Gheralta.

Nella chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica sopravissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca. I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al XV secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo. Alcune chiese storiche conservano stupendi dipinti murali, in colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.

Tipica chiesa abissina

Antico dipinto murale di S. Stefano, chiesa rupestre di Corcòr Mariam , Gheralta

Nel segno della Croce

Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e si segna la croce, le donne si fermano a baciarne la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.

Chiesa di Gabriele e Raffaele, Lalibelà.

Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di San Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come la festa della croce, il natale o l’epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli. Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, di Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è una croce con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.

Croce etiopica col motivo del Sigillo di Salomone
Crocefisso sull’altare della cattedrale di Addis Abeba
La croce di Zauditù, chiesa di Mariam Tsion, Aksum
Antica croce sommitale, chiesa di Ura Chidàne Mehrèt, lago Tana

Clero, digiuno, matrimonio

La Chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, il sabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.

Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l'assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all'anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori. Il digiuno consiste nell'astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l'astinenza da carni, grassi, uova, pesce e latticini.

Vi sono tre forme di matrimonio, una religiosa e due civili. Il matrimonio religioso è indissolubile e viene celebrato in chiesa con la comunione, ed è chiamato ba qurbàn (con comunione). il matrimonio civile può essere ba demòz (con soldi), che è l'acquisto della moglie, e ba cal chidàn (con patto verbale).

Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l'amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall'arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari, sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue regole monastiche. Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.

I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l'ecceghìè, il capo dei monaci.

La rocca di Debra Damo
Teclè Haimanòt, fondatore del convento di Debra Asbo, poi chiamato Debra Libanos

Monaco a Lalibelà

Abuna Paulòs, Patriarca della Chiesa etiopica