|            L’introduzione del Cristianesimo in Etiopia           L'inizio del cristianesimo in    Etiopia risale alla prima metà del secolo IV quando, come racconta lo    scrittore Rufìno di Aquileia (345-411) nella sua Historia    ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu    raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale    conversione. La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con    diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo    significativo il racconto. Ma vediamo l'originale.       «Un certo Meropio di Tiro,    filosofo, si recò in India per un viaggio d'istruzione, accompagnato da    due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva    nelle arti liberali. Sulla via del ritorno, la nave si fermò per    fornirsi di acqua sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata    dalla gente del luogo in lotta contro l'impero dei romani. Tutto    l'equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due    giovani, che furono catturati e offerti in dono al re degli etiopi.       Impressionato dalla loro    intelligenza, il re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio    suo coppiere. Al momento della sua morte, il re liberò i due giovani. Ma    la regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età    del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello    stato.       Approfittando della sua    elevata posizione, Frumenzio accolse i cristiani, ne facilitò la    predicazione e concesse loro luoghi per pregare.       Giunto il principe alla    maggiore età, i due fratelli presero congedo dalla corte: Edesio ritornò    a Tiro dove ricevette gli ordini sacri; Frumenzio si recò ad Alessandria    a informare il patriarca Atanasio della diffusione del cristianesimo nel    regno di Aksum, esortandolo a mandarvi un vescovo, che si prendesse cura    di quelle prime comunità di fedeli. Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio    discusse la questione e rispose a Frumenzio: “Quale altro uomo potremmo    trovare, in cui sia lo spirito di Dio come è in te, e che possa    attendere a tale compito?". E lo consacrò vescovo, inviandolo ad Aksum».       Il    Costantino etiopico       Dalla scarna narrazione di    Rufìno non è facile stabilire la datazione esatta dell'inizio del    cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto    patriarca di Alessandria nel 328, il primo sbarco di Frumenzio sulla    costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione    episcopale dopo il 330. Rufìno riferisce ancora che Frumenzio predicò il    vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito»    di aksumiti. A parte l'espressione iperbolica, è certo che, verso il    345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia    reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente    stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di    Abba Salama, (padre pace), e con l'appellativo di Chesatiè Brhan    (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella    tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole).    Essi sono l'alba e la luce della nuova Etiopia, l'Etiopia cristiana.       Questi eventi si realizzarono    nell'epoca di Costantino il Grande che, secondo la tradizione,    illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del    cristianesimo nell'impero romano; il parallelo è d'obbligo: Ezanà è    considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a    Elena, madre dell'imperatore romano.                                                   |                
  |                      |               I re di Aksum              Abrahà e Atsbhà con Abba Salama e santi, chiesa di Aibà,            Endertà  |              Figlia di Alessandria       Essendo l’Etiopia una diocesi    della chiesa d'Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di    Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di    abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.       Fin dai racconti dei primi    esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu    chiamata «copta monofìsita» e i cristiani d'Etiopia «copti»; ma tali    termini non hanno alcun senso, dato che «copto»    è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell'Egitto e    significa «egiziano».       I primi passi della chiesa in    Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della    chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle    polemiche teologiche.       All'inizio del V secolo si    diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il    capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofìsita,    secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla    natura divina, e solo quest'ultima vi sussisteva.       Nel 451 il concilio di    Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano    sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui    quella    egiziana, non accettarono le conclusioni del Concilio e si        separarono da Roma.        E’ necessario chiarire che nessuna di queste         chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma        ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso        tempo. Viene affermato un    monofisismo meno rigido        di quello di Eutiche, che ha molti punti in comune con il        diofisismo delle Chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di        Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.          Nel V secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i Nove Santi, mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti        dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.        Il cristianesimo etiopico        sarebbe quindi diventato monofisita già nel V secolo ad opera di questi        evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia        entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad        altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella        prima metà del  VI secolo, è festeggiato come Santo dalla Chiesa        Cattolica il 27 ottobre.        Verso la fine del VI secolo    Aksum entrò in declino e l'Etiopia fu ben presto accerchiata    dall'espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro    religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del    mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.                                                   |                
  |                      |               I Nove Santi,              chiesa di Gorgorà Debra Sina, lago Tana  |                      |   |                      |                
  |                      |               Gli              Tsaddecàn, chiesa di        Baracnahà  |             Dispute teologiche                                  L’arrivo dei missionari Gesuiti in Etiopia, nei sec.       XVI-XVII, portò alla  conversione al cattolicesimo, seppur       per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios. Ma       il loro arrivo  innescò anche nel clero etiopico delle       dispute interminabili sull’unzione e sulla natura di Cristo,       dispute che sfociarono talvolta in lotte feroci e       sanguinarie, con guerre e massacri di interi monasteri.                    Le       discussioni dei religiosi etiopici con i Gesuiti provocarono       la nascita di due correnti teologiche: l'una sostenuta       nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande       ansa del Nilo Azzurro a sud del lago Tana; l’altra nel       monastero di Debra Libanos nello Scioa. La corrente dei       goggiamesi si estese poi al Tigrai e al monastero del Bizen       nell’estremo nord dell’Etiopia.                     I       goggiamesi sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito       Santo, ma da se stesso, e che, nell’unione col       Verbo, la sua natura umana era stata assorbita da quella       divina. Era questa una posizione di rigido monofisismo di       tipo eutichiano. Questa corrente prese il nome di carrà,       coltello, ma fu chiamata anche qebàt, unzione, e hulèt       liddèt, due nascite, perché riconosceva in Cristo       la generazione eterna e la nascita dalla Vergine.                     I       debralibanesi,             invece,       sostenevano che Cristo era stato unto       dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Questa dottrina       implicitamente riconosce, nell’unzione, la natura umana di       Cristo. Essa fu chiamata sost liddèt, tre nascite,       perché opponeva ai goggiamesi anche una terza nascita       mediante l’unzione. Questa dottrina fu anche chiamata teuahdò,       che significa       «divenuto       uno»,       perché sostiene       che la natura umana e la natura divina si sono unite, con       l’incarnazione, in una natura composita di umanità e       di divinità. Fu anche chiamata tseggà ligg, figlio di       grazia, perché con l’unzione la natura umana di Cristo viene       santificata dalla grazia dello Spirito Santo.                     Nel       corso della storia prevalse ora l’uno ora l’altro partito,       con rivolte che furono sedate nel sangue. Sotto il regno di       David III, ad esempio, nel primo quarto del XVIII secolo,       furono sterminati tutti i monaci di Debra Libanos. Con la       salita al trono di Teodoro II (1855) la setta dei goggiamesi       venne proclamata religione di stato, e fu riconfermata e       imposta con la forza da Giovanni IV nel Sinodo di Boru Mieda       (1878).  Pochi anni dopo, l’ascesa al trono imperiale di Menelik segnò la fine delle contese religiose: Menelik fu       molto tollerante e lasciò ad ognuno libertà di scelta e la dottrina       di Debra Libanos diventò la dottrina ufficiale della chiesa       etiopica.       Oggi la Chiesa etiopica, al pari delle altre Chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara    miafisita, intendendo con questo        termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita.        La denominazione ufficiale della Chiesa etiopica è Chiesa Ortodossa Teuahdò        d’Etiopia.        Teuahdò significa «divenuto uno»,       ed equivale al greco       «miafisita».        Inoltre, da poco più       di mezzo secolo la Chiesa etiopica è        diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10       anni di trattative condotte da Hailè Sellassiè, fu possibile       eleggere per la prima volta un patriarca etiopico nella       persona dell'Abuna Basilios.       L'Eritrea ha sempre       seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il       Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di       Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, i quali nel       1996 hanno nominato il loro Patriarca.            Liturgia etiopica           Nei        suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da        minacce ed invasioni esterne, ma ha conservato intatto il cristianesimo        dei primi secoli. Secondo        una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è un’isola cristiana in un        mare di pagani. Scrisse Padre Giulio Barsotti        nel 1939:                                     | In              poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto  |                      | tanta              forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia.... |                      | Dal              secolo quarto, in cui il Vangelo penetrò nel regno di          Axum, |                      | fino              ad oggi, tutta la vita degli Abissini è stata dominata |                      | dal              pensiero e dalla dottrina di Gesù        Cristo... |          La liturgia etiopica si        è sviluppata da quella della Chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono        tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei    debterà imitano le danze di        Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica,        inventata da San Iarèd nel VI secolo, commuove i credenti. Durante la        celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di        forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti        metallici di origine egiziana. I santi sono celebrati con poesie che        descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè,        distici a doppio senso improvvisati sul posto che solo gli amara riescono        a decifrare. La Vergine è al di sopra di tutti i Santi e viene celebrata        innumerevoli volte. Viene invocata nel Chidàne Mehrèt, il Patto di        Misericordia, per intercedere presso Cristo per sfuggire ai tormenti        dell’inferno.        I        preti salgono tutti i giorni sui colli dove sorgono le chiese.    Le messe    durano tre ore, e tutti coloro che non sono        impediti dal lavoro, dalle malattie o dall'età devono andare a messa ogni        giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura        nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una        corda, accompagnano i versi dei qeniè.                                     |                
  |                      |               Celebrazione del              Natale a Lalibelà  |                      |   |                      |                
  |                      |               Satana tormenta              l’anima di un peccatore, chiesa di Batra Mariam, lago            Tana  |           Nella messa viene recitato il    credo, che ripete gli stessi dogmi della Chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucarestia con la somministrazione del pane e del vino, i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del Vangelo e dei Miracoli di Maria. I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa  dove danzano i debterà, gli uomini a    destra le donne a    sinistra. Nel recinto        intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta    santorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote,        viene conservato il tabòt, rappresentazione delle tavole della        legge, che rende sacra la chiesa. Il tabòt viene portato ad una        fonte nella celebrazione del Timchèt, la festa dell’Epifania, il        Battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene        portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.                In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in        genere povere capanne di    cicca decorate con immagini sacre.        All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove        viene preparato il pane per l’eucarestia. Alla sommità della chiesa vi è        la croce greca adornata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e        della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di    Lalibelà e del Gheralta.    Nella chiese    più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di    capra, libri che        raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli        i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez,        l’antica lingua etiopica sopravissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi        etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella        lingua originale e nella versione greca. I più antichi manoscritti rimasti        sembrano risalire al XV secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è        un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere        trasportato a dorso di mulo. Alcune chiese storiche conservano stupendi    dipinti murali, in        colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o    minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni        di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle        creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.                                                    |                
  |                      |   |                      |                
  |                      |               Tipica chiesa              abissina      
  |                                             Antico dipinto murale di S. Stefano, chiesa rupestre              di Corcòr      Mariam      , Gheralta           |              Nel    segno della Croce       Quando un etiopico passa davanti a una        chiesa, china la testa e si segna la croce, le donne si fermano a baciarne        la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto,        baciano la croce e si fanno benedire.                                                    |                
  |                      |               Chiesa di              Gabriele e Raffaele,        Lalibelà.  |          Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di San Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come la festa della croce, il natale o l’epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli. Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, di Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo        di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità        piuttosto che all’umanità di Cristo. Sull’altare maggiore della cattedrale        di Addis Abeba vi è una croce con la figura del corpo di Cristo, identico    ai crocifissi cattolici.                      Clero, digiuno, matrimonio    La Chiesa etiopica ha mantenuto alcune        tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la         distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla        nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese        con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, il        sabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono        semplici usanze e non prescrizioni religiose.        Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno,    il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di    pasqua, 40        giorni per la festa degli apostoli, 16 per l'assunzione, 40 giorni prima di         natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa        250 giorni all'anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori. Il    digiuno consiste nell'astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al    primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è    richiesta l'astinenza da carni, grassi, uova, pesce e latticini.         Vi sono tre forme di matrimonio, una religiosa e due        civili. Il matrimonio religioso è indissolubile e viene celebrato in        chiesa con la comunione, ed è chiamato ba qurbàn  (con comunione). il matrimonio        civile può essere ba demòz  (con soldi), che è l'acquisto della moglie, e ba        cal chidàn (con patto verbale).           Preti e diaconi si possono    sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e    arcivescovi, ai quali è affidata l'amministrazione della chiesa nelle    varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è    necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo    fondamentale nella vita della chiesa fin dall'arrivo in Etiopia dei    «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari,    sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle    sue regole monastiche. Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei    quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos,    Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri    minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I    monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura,    il cappuccio e la tunica.        I monaci non si sposano e devono    condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni    corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore    rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si    staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l'ecceghìè,    il capo dei monaci.                                                  |                      | La rocca di Debra              Damo |                      |   |                        |                      | Teclè Haimanòt,              fondatore del convento di Debra Asbo, poi chiamato Debra              Libanos  
  |                      |     Monaco a Lalibelà    |                                                                   |                      | Abuna Paulòs,              Patriarca della Chiesa        etiopica |     |