OMELIA DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
NELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
AGLI ORTI DELL’ALMO COLLEGIO BORROMEO
(Pavia, domenica, 22 aprile 2007)
Riportiamo l’omelia pronunciata dal Vescovo di Roma questa domenica presiedendo la celebrazione della Santa Messa, svoltasi agli Orti dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, con i Vescovi della Lombardia, i sacerdoti della Diocesi e una rappresentanza dei Padri Agostiniani.
Ieri pomeriggio ho incontrato la Comunità diocesana di Vigevano ed il cuore di questa mia visita pastorale è stata la Concelebrazione eucaristica in Piazza Ducale; quest’oggi ho la gioia di visitare la vostra Diocesi e momento culminante di questo nostro incontro è anche qui la Santa Messa. Con affetto saluto i Confratelli che concelebrano con me: il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, il Pastore della vostra diocesi, il Vescovo Giovanni Giudici, quello emerito, il Vescovo Giovanni Volta, e gli altri Presuli della Lombardia. Sono grato per la loro presenza ai Rappresentanti del Governo e delle Amministrazioni locali. Rivolgo il mio saluto cordiale ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai responsabili delle associazioni laicali, ai giovani, ai malati e a tutti i fedeli, ed estendo il mio pensiero all’intera popolazione di questa antica e nobile città e della Diocesi.
Nel tempo pasquale la Chiesa ci presenta, domenica per domenica, qualche brano della predicazione con cui gli Apostoli, in particolare Pietro, dopo la Pasqua invitavano Israele alla fede in Gesù Cristo, il Risorto, fondando così la Chiesa. Nell’odierna lettura gli Apostoli stanno davanti al Sinedrio – davanti a quell’istituzione che, avendo dichiarato Gesù reo di morte, non poteva tollerare che questo Gesù, mediante la predicazione degli Apostoli, ora cominciasse ad operare nuovamente; non poteva tollerare che la sua forza risanatrice si facesse di nuovo presente e intorno a questo nome si raccogliessero persone che credevano in Lui come nel Redentore promesso. Gli Apostoli vengono accusati. Il rimprovero è: "Volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo". A questa accusa Pietro risponde con una breve catechesi sull’essenza della fede cristiana: "No, non vogliamo far ricadere il suo sangue su di voi. L’effetto della morte e risurrezione di Gesù è totalmente diverso. Dio lo ha fatto «capo e salvatore» per tutti, proprio anche per voi, per il suo popolo d’Israele". E dove conduce questo "capo", che cosa porta questo "salvatore"? Egli conduce alla conversione – crea lo spazio e la possibilità di ravvedersi, di pentirsi, di ricominciare. Ed Egli dona il perdono dei peccati – ci introduce nel giusto rapporto con Dio.
Questa breve catechesi di Pietro non valeva solo per il Sinedrio. Essa parla a tutti noi. Poiché Gesù, il Risorto, vive anche oggi. E per tutte le generazioni, per tutti gli uomini Egli è il "capo" che precede sulla via e il "salvatore" che rende la nostra vita giusta. Le due parole "conversione" e "perdono dei peccati", corrispondenti ai due titoli di Cristo "capo" e "salvatore", sono le parole-chiave della catechesi di Pietro, parole che in quest’ora vogliono raggiungere anche il nostro cuore. Il cammino che dobbiamo fare – il cammino che Gesù ci indica, si chiama "conversione". Ma che cosa è? Che cosa bisogna fare? In ogni vita la conversione ha la sua forma propria, perché ogni uomo è qualcosa di nuovo e nessuno è soltanto la copia di un altro. Ma nel corso della storia della cristianità il Signore ci ha mandato modelli di conversione, guardando ai quali possiamo trovare orientamento. Potremmo per questo guardare a Pietro stesso, a cui il Signore nel cenacolo aveva detto: "Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,32). Potremmo guardare a Paolo come a un grande convertito. La città di Pavia parla di uno dei più grandi convertiti della storia della Chiesa: sant’Aurelio Agostino. Egli morì il 28 agosto del 430 nella città portuale di Ippona, allora circondata ed assediata dai Vandali. Dopo parecchia confusione di una storia agitata, il re dei Longobardi acquistò le sue spoglie per la città di Pavia, cosicché ora egli appartiene in modo particolare a questa città ed in essa e da essa parla a tutti noi in maniera speciale.
Nel suo libro "Le Confessioni", Agostino ha illustrato in modo toccante il cammino della sua conversione, che col Battesimo amministratogli dal Vescovo Ambrogio nel duomo di Milano aveva raggiunto la sua meta. Chi legge Le Confessioni può condividere il cammino che Agostino in una lunga lotta interiore dovette percorrere per ricevere finalmente, nella notte di Pasqua del 387, al fonte battesimale il Sacramento che segnò la grande svolta della sua vita. Seguendo attentamente il corso della vita di sant’Agostino, si può vedere che la conversione non fu un evento di un unico momento, ma appunto un cammino. E si può vedere che al fonte battesimale questo cammino non era ancora terminato. Come prima del Battesimo, così anche dopo di esso la vita di Agostino è rimasta, pur in modo diverso, un cammino di conversione – fin nella sua ultima malattia, quando fece applicare alla parete i Salmi penitenziali per averli sempre davanti agli occhi; quando si autoescluse dal ricevere l’Eucaristia per ripercorrere ancora una volta la via della penitenza e ricevere la salvezza dalle mani di Cristo come dono delle misericordie di Dio. Così possiamo parlare delle "conversioni" di Agostino che, di fatto, sono state un’unica grande conversione nella ricerca del Volto di Cristo e poi nel camminare insieme con Lui.
Vorrei parlare di tre grandi tappe in questo cammino di conversione, di tre "conversioni". La prima conversione fondamentale fu il cammino interiore verso il cristianesimo, verso il "sì" della fede e del Battesimo. Quale fu l’aspetto essenziale di questo cammino? Agostino, da una parte, era figlio del suo tempo, condizionato profondamente dalle abitudini e dalle passioni in esso dominanti, come anche da tutte le domande e i problemi di un giovane. Viveva come tutti gli altri, e tuttavia c’era in lui qualcosa di particolare: egli rimase sempre una persona in ricerca. Non si accontentò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano. Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera. Voleva trovare la retta vita e non semplicemente vivere ciecamente senza senso e senza meta. La passione per la verità è la vera parola-chiave della sua vita. E c’è ancora una peculiarità. Tutto ciò che non portava il nome di Cristo, non gli bastava. L’amore per questo nome – ci dice – lo aveva bevuto col latte materno (cfr Conf 3,4,8). E sempre aveva creduto – a volte piuttosto vagamente, a volte più chiaramente – che Dio esiste e che Egli si prende cura di noi. Ma conoscere veramente questo Dio e familiarizzare davvero con quel Gesù Cristo e arrivare a dire "sì" a Lui con tutte le conseguenze –questa era la grande lotta interiore dei suoi anni giovanili. Egli ci racconta che, per il tramite della filosofia platonica, aveva appreso e riconosciuto che "in principio era il Verbo" – il Logos, la ragione creatrice. Ma la filosofia non gli indicava alcuna via per raggiungerlo; questo Logos rimaneva lontano e intangibile. Solo nella fede della Chiesa trovò poi la seconda verità essenziale: il Verbo si è fatto carne. E così esso ci tocca, noi lo tocchiamo. All’umiltà dell’incarnazione di Dio deve corrispondere l’umiltà della nostra fede, che depone la superbia saccente e si china entrando a far parte della comunità del corpo di Cristo; che vive con la Chiesa e solo così entra nella comunione concreta, anzi corporea, con il Dio vivente. Non devo dire quanto tutto ciò riguardi noi: rimanere persone che cercano, non accontentarsi di ciò che tutti dicono e fanno. Non distogliere lo sguardo dal Dio eterno e da Gesù Cristo. Imparare sempre di nuovo l’umiltà della fede nella Chiesa corporea di Gesù Cristo.
La seconda conversione Agostino ce la descrive alla fine del secondo libro delle sue Confessioni con le parole: "Oppresso dai miei peccati e dal peso della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, però, me lo impedisti, confortandomi con queste parole: «Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti»" (2 Cor 5,15; Conf 10,43,70). Che cosa era successo? Dopo il suo Battesimo, Agostino si era deciso a ritornare in Africa e lì aveva fondato, insieme con i suoi amici, un piccolo monastero. Ora la sua vita doveva essere dedita totalmente al colloquio con Dio e alla riflessione e contemplazione della bellezza e della verità della sua Parola. Così egli passò tre anni felici, nei quali si credeva arrivato alla meta della sua vita; in quel periodo nacque una serie di preziose opere filosofiche. Nel 391 egli andò a trovare nella città portuale di Ippona un amico, che voleva conquistare alla vita monastica. Ma nella liturgia domenicale, alla quale partecipò nella cattedrale, venne riconosciuto. Il Vescovo della città, un uomo di provenienza greca, che non parlava bene il latino e faceva fatica a predicare, nella sua omelia non a caso disse di aver l’intenzione di scegliere un sacerdote al quale affidare anche il compito della predicazione. Immediatamente la gente afferrò Agostino e lo portò di forza avanti, perché venisse consacrato sacerdote a servizio della città. Subito dopo questa sua consacrazione forzata, Agostino scrisse al Vescovo Valerio: "Mi sentivo come uno che non sa tenere il remo e a cui, tuttavia, è stato assegnato il secondo posto al timone… E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione" (cfr Ep 21,1s). Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ora egli doveva vivere con Cristo per tutti. Doveva tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice della sua città. La grande opera filosofica di tutta una vita, che aveva sognato, restò non scritta. Al suo posto ci venne donata una cosa più preziosa: il Vangelo tradotto nel linguaggio della vita quotidiana. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha descritto così: "Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori… stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti" (cfr Serm 340, 3). "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica" (Serm 339, 4). Fu questa la seconda conversione che quest’uomo, lottando e soffrendo, dovette continuamente realizzare: sempre di nuovo essere lì per tutti; sempre di nuovo, insieme con Cristo, donare la propria vita, affinché gli altri potessero trovare Lui, la vera Vita.
C’è ancora una terza tappa decisiva nel cammino di conversione di sant’Agostino. Dopo la sua Ordinazione sacerdotale, egli aveva chiesto un periodo di vacanza per poter studiare più a fondo le Sacre Scritture. Il suo primo ciclo di omelie, dopo questa pausa di riflessione, riguardò il Discorso della montagna; vi spiegava la via della retta vita, "della vita perfetta" indicata in modo nuovo da Cristo – la presentava come un pellegrinaggio sul monte santo della Parola di Dio. In queste omelie si può percepire ancora tutto l’entusiasmo della fede appena trovata e vissuta: la ferma convinzione che il battezzato, vivendo totalmente secondo il messaggio di Cristo, può essere, appunto, "perfetto". Circa vent’anni dopo, Agostino scrisse un libro intitolato Le Ritrattazioni, in cui passa in rassegna in modo critico le sue opere redatte fino a quel momento, apportando correzioni laddove, nel frattempo, aveva appreso cose nuove. Riguardo all’ideale della perfezione nelle sue omelie sul Discorso della montagna annota: "Nel frattempo ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" (cfr Retract. I 19,1-3). Agostino aveva appreso un ultimo grado di umiltà – non soltanto l’umiltà di inserire il suo grande pensiero nella fede della Chiesa, non solo l’umiltà di tradurre le sue grandi conoscenze nella semplicità dell’annuncio, ma anche l’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera Chiesa peregrinante era continuamente necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona; e noi – aggiungeva - ci rendiamo simili a Cristo, il Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia.
In quest’ora ringraziamo Dio per la grande luce che si irradia dalla sapienza e dall’umiltà di sant’Agostino e preghiamo il Signore affinché doni a tutti noi, giorno per giorno, la conversione necessaria e così ci conduca verso la vera vita. Amen.
OMELIA DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
SULLE RELIQUIE DI SANT’AGOSTINO
(Pavia, domenica, 22 aprile 2007)
Pubblichiamo l'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la celebrazione dei Secondi Vespri della III Domenica di Pasqua nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, dove si trova l’Urna delle Reliquie di Sant’Agostino.
Cari fratelli e sorelle!
In questo suo momento conclusivo, la mia visita a Pavia acquista la forma del pellegrinaggio. E’ la forma in cui all’inizio l’avevo concepita, desiderando venire a venerare le spoglie mortali di sant’Agostino, per esprimere sia l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica ad uno dei suoi "padri" più grandi, sia la mia personale devozione e riconoscenza verso colui che tanta parte ha avuto nella mia vita di teologo e di pastore, ma direi prima ancora di uomo e di sacerdote. Rinnovo con affetto il saluto al Vescovo Giovanni Giudici e lo porgo in modo speciale al Priore Generale degli Agostiniani, Padre Robert Francis Prevost, al Padre Provinciale e all’intera comunità agostiniana. Con gioia saluto tutti voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, laici consacrati e seminaristi.
La Provvidenza ha voluto che il mio viaggio acquistasse il carattere di una vera e propria visita pastorale, e perciò, in questa sosta di preghiera, vorrei raccogliere qui, presso il sepolcro del Doctor gratiae, un messaggio significativo per il cammino della Chiesa. Questo messaggio ci viene dall’incontro tra la Parola di Dio e l’esperienza personale del grande Vescovo di Ippona. Abbiamo ascoltato la breve Lettura biblica dei secondi Vespri della terza Domenica di Pasqua (Eb 10,12-14): la Lettera agli Ebrei ci ha posto dinanzi Cristo sommo ed eterno Sacerdote, esaltato alla gloria del Padre dopo avere offerto se stesso come unico e perfetto sacrificio della nuova Alleanza, nel quale s’è compiuta l’opera delle Redenzione. Su questo mistero sant’Agostino ha fissato lo sguardo e in esso ha trovato la Verità che tanto cercava: Gesù Cristo, Verbo incarnato, Agnello immolato e risorto, è la rivelazione del volto di Dio Amore ad ogni essere umano in cammino sui sentieri del tempo verso l’eternità. Scrive l’apostolo Giovanni in un passo che si può considerare parallelo a quello ora proclamato della Lettera agli Ebrei: "In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4,10). Qui è il cuore del Vangelo, il nucleo centrale del Cristianesimo. La luce di questo amore ha aperto gli occhi di Agostino, gli ha fatto incontrare la "bellezza antica e sempre nuova" (Conf. X, 27) in cui soltanto trova pace il cuore dell’uomo.
Cari fratelli e sorelle, qui, davanti alla tomba di sant’Agostino, vorrei idealmente riconsegnare alla Chiesa e al mondo la mia prima Enciclica, che contiene proprio questo messaggio centrale del Vangelo: Deus caritas est, Dio è amore (1 Gv 4,8.16). Questa Enciclica, soprattutto la sua prima parte, è largamente debitrice al pensiero di sant’Agostino, che è stato un innamorato dell’Amore di Dio, e lo ha cantato, meditato, predicato in tutti i suoi scritti, e soprattutto testimoniato nel suo ministero pastorale. Sono convinto, ponendomi nella scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II e dei miei venerati Predecessori Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, che l’umanità contemporanea ha bisogno di questo messaggio essenziale, incarnato in Cristo Gesù: Dio è amore. Tutto deve partire da qui e tutto qui deve condurre: ogni azione pastorale, ogni trattazione teologica. Come dice san Paolo: "Se non avessi la carità, nulla mi giova" (cfr 1 Cor 13,3): tutti i carismi perdono di senso e di valore senza l’amore, grazie al quale invece tutti concorrono a edificare il Corpo mistico di Cristo.
Ecco allora il messaggio che ancora oggi sant’Agostino ripete a tutta la Chiesa e, in particolare, a questa Comunità diocesana che con tanta venerazione custodisce le sue reliquie: l’Amore è l’anima della vita della Chiesa e della sua azione pastorale. L’abbiamo ascoltato stamani nel dialogo tra Gesù e Simon Pietro: "Mi ami tu? … Pasci le mie pecorelle" (cfr Gv 21,15-17). Solo chi vive nell’esperienza personale dell’amore del Signore è in grado di esercitare il compito di guidare e accompagnare altri nel cammino della sequela di Cristo. Alla scuola di sant’Agostino ripeto questa verità per voi come Vescovo di Roma, mentre, con gioia sempre nuova, la accolgo con voi come cristiano.
Servire Cristo è anzitutto questione d’amore. Cari fratelli e sorelle, la vostra appartenenza alla Chiesa e il vostro apostolato risplendano sempre per la libertà da ogni interesse individuale e per l’adesione senza riserve all’amore di Cristo. I giovani, in particolare, hanno bisogno di ricevere l’annuncio della libertà e della gioia, il cui segreto sta in Cristo. E’ Lui la risposta più vera all’attesa dei loro cuori inquieti per le tante domande che si portano dentro. Solo in Lui, Parola pronunciata dal Padre per noi, si trova quel connubio di verità e amore in cui è posto il senso pieno della vita. Agostino ha vissuto in prima persona ed esplorato fino in fondo gli interrogativi che l’uomo si porta nel cuore ed ha sondato le capacità che egli ha di aprirsi all’infinito di Dio.
Sulle orme di Agostino, siate anche voi una Chiesa che annuncia con franchezza la "lieta notizia" di Cristo, la sua proposta di vita, il suo messaggio di riconciliazione e di perdono. Ho veduto che il primo vostro obiettivo pastorale è di condurre le persone alla maturità cristiana. Apprezzo questa priorità accordata alla formazione personale, perché la Chiesa non è una semplice organizzazione di manifestazioni collettive né, all’opposto, la somma di individui che vivono una religiosità privata. La Chiesa è una comunità di persone che credono nel Dio di Gesù Cristo e si impegnano a vivere nel mondo il comandamento della carità che Egli ha lasciato. E’ dunque una comunità in cui si è educati all’amore, e questa educazione avviene non malgrado, ma attraverso gli avvenimenti della vita. Così è stato per Pietro, per Agostino e per tutti i santi.
La maturazione personale, animata dalla carità ecclesiale, permette anche di crescere nel discernimento comunitario, cioè nella capacità di leggere e interpretare il tempo presente alla luce del Vangelo, per rispondere alla chiamata del Signore. Vi incoraggio a progredire nella testimonianza personale e comunitaria dell’amore operoso. Il servizio della carità, che concepite giustamente sempre legato all’annuncio della Parola e alla celebrazione dei Sacramenti, vi chiama e al tempo stesso vi stimola ad essere attenti ai bisogni materiali e spirituali dei fratelli. Vi incoraggio a perseguire la "misura alta" della vita cristiana, che trova nella carità il vincolo della perfezione e che deve tradursi anche in uno stile di vita morale ispirato al Vangelo, inevitabilmente controcorrente rispetto ai criteri del mondo, ma da testimoniare sempre con stile umile, rispettoso e cordiale.
Cari fratelli e sorelle, è stato per me un dono, veramente un dono, condividere con voi questa sosta presso la tomba di sant’Agostino: la vostra presenza ha dato al mio pellegrinaggio un più concreto senso ecclesiale. Ripartiamo da qui portando nel cuore la gioia di essere discepoli dell’Amore. Ci accompagni sempre la Vergine Maria, alla cui materna protezione affido ciascuno di voi e i vostri cari, mentre con grande affetto vi imparto la Benedizione Apostolica.
DISCORSO DEL PAPA
BENEDETTO XVI
NELL'INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA
ALL’UNIVERSITÀ DI PAVIA
(Pavia, lunedì, 23 aprile 2007)
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'incontrarsi con il mondo della cultura all'interno del Cortile "Teresiano" dell’Università di Pavia.
Magnifico Rettore,
illustri Professori, cari studenti!
La mia visita pastorale a Pavia, seppur breve, non poteva non prevedere una sosta in questa Università, che costituisce da secoli un elemento caratterizzante della vostra città. Sono pertanto lieto di trovarmi in mezzo a voi per questo incontro a cui attribuisco particolare valore, venendo anch’io dal mondo accademico. Saluto con cordiale deferenza i professori e, in primo luogo, il Rettore, Prof. Angiolino Stella, che ringrazio per le cortesi parole rivoltemi. Saluto gli studenti, in special modo il giovane che si è fatto portavoce dei sentimenti degli altri universitari. Mi ha rassicurato sul coraggio nella dedizione alla verità, sul coraggio di cercare oltre i limiti del conosciuto, di non arrendersi alla debolezza della ragione. E sono molto grato per queste parole. Estendo il mio pensiero beneaugurante anche a quanti fanno parte della vostra comunità accademica e non hanno potuto essere qui presenti quest’oggi.
La vostra è una delle più antiche ed illustri Università italiane, ed annovera - ripeto quanto ha già detto il Magnifico Rettore - tra i docenti che l’hanno onorata personalità quali Alessandro Volta, Camillo Golgi e Carlo Forlanini. Mi è caro pure ricordare che nel vostro Ateneo sono passati docenti e studenti segnalatisi per un’eminente statura spirituale. Tali furono Michele Ghislieri, diventato poi Papa san Pio V, san Carlo Borromeo, sant’Alessandro Sauli, san Riccardo Pampuri, santa Gianna Beretta Molla, il beato Contardo Ferrini e il servo di Dio Teresio Olivelli.
Cari amici, ogni Università ha una nativa vocazione comunitaria: essa infatti è appunto una universitas, una comunità di docenti e studenti impegnati nella ricerca della verità e nell’acquisizione di superiori competenze culturali e professionali. La centralità della persona e la dimensione comunitaria sono due poli co-essenziali per una valida impostazione della universitas studiorum. Ogni Università dovrebbe sempre custodire la fisionomia di un Centro di studi "a misura d’uomo", in cui la persona dello studente sia preservata dall’anonimato e possa coltivare un fecondo dialogo con i docenti, traendone incentivo per la sua crescita culturale ed umana.
Da questa impostazione discendono alcune applicazioni tra loro connesse. Anzitutto, è certo che solo ponendo al centro la persona e valorizzando il dialogo e le relazioni interpersonali può essere superata la frammentazione specialistica delle discipline e recuperata la prospettiva unitaria del sapere. Le discipline tendono naturalmente, e anche giustamente, alla specializzazione, mentre la persona ha bisogno di unità e di sintesi. In secondo luogo, è di fondamentale importanza che l’impegno della ricerca scientifica possa aprirsi alla domanda esistenziale di senso per la vita stessa della persona. La ricerca tende alla conoscenza, mentre la persona abbisogna anche della sapienza, di quella scienza cioè che si esprime nel "saper-vivere". In terzo luogo, solo valorizzando la persona e le relazioni interpersonali il rapporto didattico può diventare relazione educativa, un cammino di maturazione umana. La struttura infatti privilegia la comunicazione, mentre le persone aspirano alla condivisione.
So che quest’attenzione alla persona, alla sua esperienza integrale di vita e alla sua tensione comunionale è ben presente nell’azione pastorale della Chiesa pavese in ambito culturale. Lo testimonia l’opera dei Collegi universitari di ispirazione cristiana. Tra questi, vorrei anch’io ricordare il Collegio Borromeo, voluto da san Carlo Borromeo con Bolla di fondazione del Papa Pio IV e il Collegio Santa Caterina, fondato dalla Diocesi di Pavia per volontà del Servo di Dio Paolo VI con contributo determinante della Santa Sede. Importante, in questo senso, è anche l’opera delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali, in particolare del Centro Universitario Diocesano e della F.U.C.I.: la loro attività è volta ad accogliere la persona nella sua globalità, a proporre cammini armonici di formazione umana, culturale e cristiana, ad offrire spazi di condivisione, di confronto e di comunione. Vorrei cogliere questa occasione per invitare gli studenti e i docenti a non sentirsi soltanto oggetto di attenzione pastorale, ma a partecipare attivamente e ad offrire il loro contributo al progetto culturale di ispirazione cristiana che la Chiesa promuove in Italia e in Europa.
Incontrandovi, cari amici, viene spontaneo pensare a sant’Agostino, co-patrono di questa Università insieme a santa Caterina d’Alessandria. Il percorso esistenziale e intellettuale di Agostino sta a testimoniare la feconda interazione tra fede e cultura. Sant’Agostino era un uomo animato da un instancabile desiderio di trovare la verità, di trovare che cosa è la vita, di sapere come vivere, di conoscere l’uomo. E proprio a causa della sua passione per l’uomo ha necessariamente cercato Dio, perché solo nella luce di Dio anche la grandezza dell’uomo, la bellezza dell’avventura di essere uomo può apparire pienamente. Questo Dio inizialmente gli appariva molto lontano. Poi lo ha trovato: questo Dio grande, inaccessibile, si è fatto vicino, uno di noi. Il grande Dio è il nostro Dio, è un Dio con un volto umano. Così la fede in Cristo non ha posto fine alla sua filosofia, alla sua audacia intellettuale, ma, al contrario, lo ha ulteriormente spinto a cercare le profondità dell’essere uomo e ad aiutare gli altri a vivere bene, a trovare la vita, l’arte di vivere. Questo era per lui la filosofia: saper vivere, con tutta la ragione, con tutta la profondità del nostro pensiero, della nostra volontà, e lasciarsi guidare sul cammino della verità, che è un cammino di coraggio, di umiltà, di purificazione permanente. La fede in Cristo ha dato compimento a tutta la ricerca di Agostino. Compimento, tuttavia, nel senso che egli è rimasto sempre in cammino. Anzi, si dice: anche nell’eternità la nostra ricerca non sarà finita, sarà un’avventura eterna scoprire nuove grandezze, nuove bellezze. Egli ha interpretato la parola del Salmo "Cercate sempre il suo volto" ed ha detto: questo vale per l’eternità; e la bellezza dell’eternità è che essa non è una realtà statica, ma un progresso immenso nella immensa bellezza di Dio. Così poteva trovare Dio come la ragione fondante, ma anche come l’amore che ci abbraccia, ci guida e dà senso alla storia e alla nostra vita personale.
"Sotto il segno di Agostino"
DISCORSO DI PAPA BENEDETTO XVI
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI nell'udienza generale di mercoledì 9 gennaio 2008.
All'udienza generale il Papa inizia a parlare del più grande Padre della Chiesa latina
Sotto il segno di Agostino
Cari fratelli e sorelle!
Dopo le grandi festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande santo e dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annaba, sulla costa algerina), il luogo dove era vescovo e, dall’altra, che da questa città dell’Africa romana, di cui Agostino fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: “Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi” (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessiones, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessiones agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale, e non solo occidentale, anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell'io, al mistero di Dio che si nasconde nell'io, è una cosa straordinaria senza precedenti e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell'accoglienza nel catecumenato. Ed è rimasto sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo; egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell'Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina, non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone poi andato perduto che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessiones: “Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire”, tanto che “all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza” (III, 4, 7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l'altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant'Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e per chi come lui vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di continuare la relazione intrecciata con una donna e di andare avanti nella sua carriera. Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei «Dialoghi» che sant'Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente. Insegnante di grammatica a circa vent’anni nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, Agostino iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma, e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al vescovo di Milano sant'Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale, e dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato; e non soltanto dalla sua retorica, soprattutto il contenuto toccò sempre più il suo cuore. Il grande problema dell'Antico Testamento, della mancanza di bellezza retorica, di altezza filosofica si risolse, nelle prediche di sant'Ambrogio, grazie all'interpretazione tipologica dell'Antico Testamento: Agostino capì che tutto l'Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità anche filosofica dell'Antico Testamento e capì tutta l'unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica praticate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un'altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano presso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. lui voleva essere solo nel servizio alla verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi ha capito che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di dare il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita Augustini – chiese di trascrivere a grandi caratteri i salmi penitenziali “e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime” (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.
"Se il mondo invecchia Cristo è sempre giovane"
DISCORSO DI PAPA BENEDETTO XVI
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI nell'udienza generale di mercoledì 16 gennaio 2008.
All'udienza generale il Papa parla dell'attualità della fede predicata da Agostino
Se il mondo invecchia Cristo è sempre giovane
Cari fratelli e sorelle!
Oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande Vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle nominare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: "In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto. Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio" (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: "Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo!". Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6).
Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: "Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera - è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno" (Ep 229, 2). Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 "i distruttori dell’impero romano", come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio.
In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: "Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia" (Vita, 28,6). E spiega: "Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici" (ibid., 28,8).
Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della "vecchiaia del mondo" – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane. E allora l’invito: "Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila" (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al Vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un Vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: "Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano" (Ep 228, 2). E concludeva: "Questa è la prova suprema della carità" (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio?
Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. "Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia" (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, Vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2).
Più il male si aggravava, più il Vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: "Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione" (ibid.,31,3). Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio.
"Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto" (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: "Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo" (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo "ritroviamo vivo". Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI nell'udienza generale di mercoledì 30 gennaio 2008
All'udienza generale il Papa parla del tema della fede e della ragione in Agostino
Fede e ragione
Cari amici,
dopo la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem. Il Papa stesso volle definire questo testo “un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione” (AAS, 74, 1982, p. 802). Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: “Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.
La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono “le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) - il credere apre la strada per varcare la porta della verità - ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (“comprendi per credere”), scruta la verità per poter trovare Dio e credere.
Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.
Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori - afferma il convertito - ma “torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: “Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1).
La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: “Tu infatti - riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio - eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che - aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione - “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è “un grande enigma” (magna quaestio) e “un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.
L’essere umano - sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) - è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e “via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano - afferma ancora Agostino nella stessa opera - “nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).
Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale - afferma Agostino in una bellissima pagina - “prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).
Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: “A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.
Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà - che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù - ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.
"Gli scritti di sant'Agostino "
DISCORSO DI PAPA BENEDETTO XVI
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI nell'udienza generale di mercoledì 20 febbraio 2008
All'udienza generale il Papa parla delle opere scritte di sant'Agostino
Gli scritti di Agostino
Cari fratelli e sorelle,
dopo la pausa degli esercizi spirituali della settimana scorsa ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino, sul quale già ripetutamente ho parlato nelle catechesi del mercoledì. E’ il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere, e di queste oggi intendo parlare brevemente. Alcuni degli scritti agostiniani sono d’importanza capitale, e non solo per la storia del cristianesimo ma per la formazione di tutta la cultura occidentale: l’esempio più chiaro sono le Confessiones, senza dubbio uno dei libri dell’antichità cristiana tuttora più letti. Come diversi Padri della Chiesa dei primi secoli, ma in misura incomparabilmente più vasta, anche il Vescovo d’Ippona ha infatti esercitato un influsso esteso e persistente, come appare già dalla sovrabbondante tradizione manoscritta delle sue opere, che sono davvero moltissime.
Lui stesso le passò in rassegna qualche anno prima di morire nelle Retractationes e poco dopo la sua morte esse vennero accuratamente registrate nell’Indiculus (“elenco”) aggiunto dal fedele amico Possidio alla biografia di sant'Agostino, Vita Augustini. L’elenco delle opere di Agostino fu realizzato con l’intento esplicito di salvaguardarne la memoria mentre l’invasione vandala dilagava in tutta l’Africa romana e conta ben milletrenta scritti numerati dal loro Autore, con altri “che non si possono numerare, perché non vi ha apposto nessun numero”. Vescovo di una città vicina, Possidio dettava queste parole proprio a Ippona – dove si era rifugiato e dove aveva assistito alla morte dell’amico – e quasi sicuramente si basava sul catalogo della biblioteca personale di Agostino. Oggi, sono oltre trecento le lettere sopravvissute del Vescovo di Ippona e quasi seicento le omelie, ma queste in origine erano moltissime di più, forse addirittura tra le tremila e le quattromila, frutto di un quarantennio di predicazione dell’antico retore che aveva deciso di seguire Gesù e di parlare non più ai grandi della corte imperiale, ma alla semplice popolazione di Ippona.
E ancora in anni recenti le scoperte di un gruppo di lettere e di alcune omelie hanno arricchito la nostra conoscenza di questo grande Padre della Chiesa. “Molti libri – scrive Possidio – furono da lui composti e pubblicati, molte prediche furono tenute in chiesa, trascritte e corrette, sia per confutare i diversi eretici sia per interpretare le sacre Scritture ad edificazione dei santi figli della Chiesa. Queste opere – sottolinea il Vescovo amico – sono tante che a stento uno studioso ha la possibilità di leggerle ed imparare a conoscerle” (Vita Augustini, 18, 9).
Tra la produzione letteraria di Agostino – quindi più di mille pubblicazioni suddivise in scritti filosofici, apologetici, dottrinali, morali, monastici, esegetici, antieretici, oltre appunto le lettere e le omelie – spiccano alcune opere eccezionali di grande respiro teologico e filosofico. Innanzi tutto bisogna ricordare le già menzionate Confessiones, scritte in tredici libri tra il 397 e il 400 a lode di Dio. Esse sono una specie di autobiografia nella forma di un dialogo con Dio. Questo genere letterario riflette proprio la vita di sant'Agostino, che era un vita non chiusa in sé, dispersa in tante cose, ma vissuta sostanzialmente come dialogo con Dio e così una vita con gli altri. Già il titolo Confessiones indica la specificità di questa autobiografia. Questa parola confessiones nel latino cristiano sviluppato dalla tradizione dei Salmi ha due significati, che tuttavia si intrecciano. Confessiones indica, in primo luogo, la confessione delle proprie debolezze, della miseria dei peccati; ma, allo stesso tempo, confessiones significa lode di Dio, riconoscimento a Dio. Vedere la propria miseria nella luce di Dio diventa lode a Dio e ringraziamento perché Dio ci ama e ci accetta, ci trasforma e ci eleva verso se stesso. Su queste Confessiones che ebbero grande successo già durante la vita di sant'Agostino, lui stesso ha scritto: “Esse hanno esercitato su di me tale azione mentre le scrivevo e l’esercitano ancora quando le rileggo. Vi sono molti fratelli ai quali queste opere piacciono” (Retractationes, II, 6): e devo dire che anch’io sono uno di questi «fratelli». E grazie alle Confessiones possiamo seguire passo passo il cammino interiore di quest’uomo straordinario e appassionato di Dio. Meno diffuse ma altrettanto originali e molto importanti sono poi le Retractationes, composte in due libri intorno al 427, nelle quali sant’Agostino, ormai anziano, compie un’opera di “revisione” (retractatio) di tutta la sua opera scritta, lasciando così un documento letterario singolare e preziosissimo, ma anche un insegnamento di sincerità e di umiltà intellettuale.
Il De civitate Dei – opera imponente e decisiva per lo sviluppo del pensiero politico occidentale e per la teologia cristiana della storia – venne scritto tra il 413 e il 426 in ventidue libri. L'occasione era il sacco di Roma compiuto dai Goti nel 410. Tanti pagani ancora viventi, ma anche molti cristiani, avevano detto: Roma è caduta, adesso il Dio cristiano e gli apostoli non possono proteggere la città. Durante la presenza delle divinità pagane Roma era caput mundi, la grande capitale, e nessuno poteva pensare che sarebbe caduta nelle mani dei nemici. Adesso, con il Dio cristiano, questa grande città non appariva più sicura. Quindi il Dio dei cristiani non proteggeva, non poteva essere il Dio al quale affidarsi. A questa obiezione, che toccava profondamente anche il cuore dei cristiani, risponde sant'Agostino con questa grandiosa opera, il De civitate Dei, chiarendo che cosa dobbiamo aspettarci da Dio e che cosa no, qual è la relazione tra la sfera politica e la sfera della fede, della Chiesa. Anche oggi questo libro è una fonte per definire bene la vera laicità e la competenza della Chiesa, la grande vera speranza che ci dona la fede.
Questo grande libro è una presentazione della storia dell’umanità governata dalla Provvidenza divina, ma attualmente divisa da due amori. E questo è il disegno fondamentale, la sua interpretazione della storia, che è la lotta tra due amori: amore di sé “sino all'indifferenza per Dio”, e amore di Dio “sino all'indifferenza per sé”, (De civitate Dei, XIV, 28), alla piena libertà da sé per gli altri nella luce di Dio. Questo, quindi, è forse il più grande libro di sant'Agostino, di una importanza permanente. Altrettanto importante è il De Trinitate, opera in quindici libri sul principale nucleo della fede cristiana, la fede nel Dio trinitario, scritta in due tempi: tra il 399 e il 412 i primi dodici libri, pubblicati a insaputa di Agostino, che verso il 420 li completò e rivide l’intera opera. Qui egli riflette sul volto di Dio e cerca di capire questo mistero del Dio che è unico, l'unico creatore del mondo, di noi tutti, e tuttavia, proprio questo unico Dio è trinitario, un cerchio di amore. Cerca di capire il mistero insondabile: proprio l'essere trinitario, in tre Persone, è la più reale e più profonda unità dell'unico Dio. Il De doctrina Christiana è invece una vera e propria introduzione culturale all’interpretazione della Bibbia e in definitiva allo stesso cristianesimo, che ha avuto un’importanza decisiva nella formazione della cultura occidentale.
Pur con tutta la sua umiltà, Agostino certamente fu consapevole della propria statura intellettuale. Ma per lui, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici. Questa sua intenzione più profonda, che ha guidato tutta la sua vita, appare da una lettera scritta al collega Evodio, dove comunica la decisione di sospendere per il momento la dettatura dei libri del De Trinitate, “perché sono troppo faticosi e penso che possano essere capiti da pochi; per questo urgono di più testi che speriamo saranno utili a molti” (Epistulae, 169, 1, 1). Quindi più utile era per lui comunicare la fede in modo comprensibile a tutti, che non scrivere grandi opere teologiche. La responsabilità acutamente avvertita nei confronti della divulgazione del messaggio cristiano è poi all’origine di scritti come il De catechizandis rudibus, una teoria e anche una prassi della catechesi, o il Psalmus contra partem Donati. I donatisti erano il grande problema dell'Africa di sant'Agostino, uno scisma volutamente africano. Essi affermavano: la vera cristianità è quella africana. Si opponevano all'unità della Chiesa. Contro questo scisma il grande Vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo nell'unità anche l'africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano comprendere il grande latino del retore, ha detto: devo scrivere anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo Psalmus, una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell'unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.
In questa produzione destinata a un pubblico più largo riveste un’importanza particolare la massa delle omelie, spesso pronunciate ‘a braccio’, trascritte dai tachigrafi durante la predicazione e subito messe in circolazione. Tra queste, spiccano le bellissime Enarrationes in Psalmos, molto lette nel medioevo. Proprio la prassi di pubblicazione delle migliaia di omelie di Agostino – spesso senza il controllo dell’autore – spiega la loro diffusione e successiva dispersione, ma anche la loro vitalità. Subito infatti le prediche del vescovo d’Ippona diventavano, per la fama del loro autore, testi molto ricercati e servivano anche per altri Vescovi e sacerdoti come modelli, adattati a sempre nuovi contesti.
La tradizione iconografica, già in un affresco lateranense risalente al VI secolo, rappresenta sant’Agostino con un libro in mano, certo per esprimere la sua produzione letteraria, che tanto influenzò la mentalità e il pensiero cristiani, ma per esprimere anche il suo amore per i libri, per la lettura e la conoscenza della grande cultura precedente. Alla sua morte non lasciò nulla, racconta Possidio, ma “raccomandava sempre di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della chiesa con tutti i codici”, soprattutto quelli delle sue opere. In queste, sottolinea Possidio, Agostino è “sempre vivo” e giova a chi legge i suoi scritti, anche se, conclude, “io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua vita quotidiana fra la gente” (Vita Augustini, 31). Sì, anche per noi sarebbe stato bello poterlo sentire vivo. Ma è realmente vivo nei suoi scritti, è presente in noi e così vediamo anche la permanente vitalità della fede alla quale ha dato tutta la sua vita.
"La vicenda interiore di sant'Agostino "
DISCORSO DI PAPA BENEDETTO XVI
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI nell'udienza generale di mercoledì 27 febbraio 2008
All'udienza generale il Papa parla della vicenda interiore e della conversione di sant'Agostino
La vicenda interiore di sant'Agostino
Cari fratelli e sorelle,
con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.
Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe - se ne possono distinguere facilmente tre - siano un’unica grande conversione.
Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, “prendi, leggi, prendi, leggi” (VIII, 12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: “Avevi convertito a te il mio essere”, egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.
A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi “toccabile”, uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. E’ questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: “Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti - è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica” (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.
Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna - cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente - era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.
Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes (“revisioni”), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. “Ho compreso - scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) - che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece - tutti noi, inclusi gli apostoli - dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che “nella speranza siamo stati salvati” (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.
In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.
"Veglia con i giovani"
DISCORSO DI PAPA BENEDETTO XVI
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI all'Ippodromo di Randwick - Sidney (Australia) sabato 19 luglio 2008, in occasione della XXIII Giornata Mondiale della Gioventù.
Veglia con i giovani
Carissimi giovani,
ancora una volta, questa sera, abbiamo udito la grande promessa di Cristo – “avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” – ed abbiamo ascoltato il suo comando – “mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Furono proprio queste le ultime parole che Gesù pronunciò prima della sua ascensione al cielo. Cosa abbiano provato gli Apostoli nell’udirle possiamo soltanto immaginarlo. Ma sappiamo che il loro profondo amore per Gesù e la loro fiducia nella sua parola li spinse a radunarsi e ad attendere; non ad attendere senza scopo, ma insieme, uniti nella preghiera, con le donne e con Maria nella sala superiore (cfr At 1,14). Questa sera noi facciamo lo stesso. Radunati davanti alla nostra Croce che ha tanto viaggiato e all’icona di Maria, sotto lo splendore celeste della costellazione della Croce del Sud, noi preghiamo. Questa sera, io prego per voi e per i giovani di ogni parte del mondo. Lasciatevi ispirare dall’esempio dei vostri Patroni! Accogliete nel vostro cuore e nella vostra mente i sette doni dello Spirito Santo! Riconoscete e credete nella potenza dello Spirito Santo nella vostra vita!
L’altro giorno abbiamo parlato dell’unità e dell’armonia della creazione di Dio e del nostro posto in essa. Abbiamo ricordato come, mediante il grande dono del Battesimo, noi, che siamo creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo rinati, siamo divenuti figli adottivi di Dio, nuove creature. Ed è perciò come figli della luce di Cristo – simboleggiata dalle candele accese che ora tenete in mano – che diamo testimonianza nel nostro mondo allo splendore che nessuna tenebra può vincere (cfr Gv 1,5).
Questa sera fissiamo la nostra attenzione sul “come” diventare testimoni. Abbiamo bisogno di conoscere la persona dello Spirito Santo e la sua presenza vivificante nella nostra vita. Non è cosa facile! In effetti, la varietà di immagini che troviamo nella Scrittura a riguardo dello Spirito – vento, fuoco, soffio – sono un segno della nostra difficoltà ad esprimere su di lui una nostra comprensione articolata. E tuttavia sappiamo che è lo Spirito Santo che, benché silenzioso e invisibile, offre direzione e definizione alla nostra testimonianza su Gesù Cristo.
Voi già sapete che la nostra testimonianza cristiana è offerta ad un mondo che per molti aspetti è fragile. L’unità della creazione di Dio è indebolita da ferite che vanno in profondità, quando le relazioni sociali si rompono o quando lo spirito umano è quasi completamente schiacciato mediante lo sfruttamento e l’abuso delle persone. Di fatto, la società contemporanea subisce un processo di frammentazione a causa di un modo di pensare che è per natura sua di corta visione, perché trascura l’intero orizzonte della verità – della verità riguardo a Dio e riguardo a noi. Per sua natura il relativismo non riesce a vedere l’intero quadro. Ignora quegli stessi principi che ci rendono capaci di vivere e di crescere nell’unità, nell’ordine e nell’armonia.
Qual è la nostra risposta, come testimoni cristiani, a un mondo diviso e frammentato? Come possiamo offrire la speranza di pace, di guarigione e di armonia a quelle “stazioni” di conflitto, di sofferenza e di tensione attraverso le quali voi avete scelto di passare con questa Croce della Giornata Mondiale della Gioventù? L’unità e la riconciliazione non possono essere raggiunte mediante i nostri sforzi soltanto. Dio ci ha fatto l’uno per l’altro (cfr Gn 2,24) e soltanto in Dio e nella sua Chiesa possiamo trovare quell’unità che cerchiamo. Eppure, a fronte delle imperfezioni e delle delusioni sia individuali che istituzionali, noi siamo tentati a volte di costruire artificialmente una comunità “perfetta”. Non si tratta di una tentazione nuova. La storia della Chiesa contiene molti esempi di tentativi di aggirare o scavalcare le debolezze ed i fallimenti umani per creare un’unità perfetta, un’utopia spirituale.
Tali tentativi di costruire l’unità in realtà la minano! Separare lo Spirito Santo dal Cristo presente nella struttura istituzionale della Chiesa comprometterebbe l’unità della comunità cristiana, che è precisamente il dono dello Spirito! Ciò tradirebbe la natura della Chiesa quale Tempio vivo dello Spirito Santo (cfr 1 Cor 3,16). E’ lo Spirito infatti che guida la Chiesa sulla via della piena verità e la unifica nella comunione e nelle opere del ministero (cfr Lumen gentium, 4). Purtroppo la tentazione di “andare avanti da soli” persiste. Alcuni parlano della loro comunità locale come di un qualcosa di separato dalla cosiddetta Chiesa istituzionale, descrivendo la prima come flessibile ed aperta allo Spirito, e la seconda come rigida e priva dello Spirito.
L’unità appartiene all’essenza della Chiesa (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 813); è un dono che dobbiamo riconoscere e aver caro. Questa sera preghiamo per il nostro proposito di coltivare l’unità: di contribuire ad essa! di resistere ad ogni tentazione di andarcene via! Poiché è esattamente l’ampiezza, la vasta visione della nostra fede – solida ed insieme aperta, consistente e insieme dinamica, vera e tuttavia sempre protesa ad una conoscenza più profonda – che possiamo offrire al nostro mondo. Cari giovani, non è forse a causa della vostra fede che amici in difficoltà o alla ricerca di senso nella loro vita si sono rivolti a voi? Siate vigilanti! Sappiate ascoltare! Attraverso le dissonanze e le divisioni del mondo, potete voi udire la voce concorde dell’umanità? Dal bimbo derelitto di un campo nel Darfur ad un adolescente turbato, ad un genitore in ansia in una qualsiasi periferia, o forse proprio ora dalle profondità del vostro cuore, emerge il medesimo grido umano che anela ad un riconoscimento, ad un’appartenenza, all’unità. Chi soddisfa questo desiderio umano essenziale ad essere uno, ad essere immerso nella comunione, ad essere edificato, ad essere guidato alla verità? Lo Spirito Santo! Questo è il suo ruolo: portare a compimento l’opera di Cristo. Arricchiti dei doni dello Spirito, voi avrete la forza di andare oltre le visioni parziali, la vuota utopia, la precarietà fugace, per offrire la coerenza e la certezza della testimonianza cristiana!
Amici, quando recitiamo il Credo affermiamo: “Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita”. Lo “Spirito creatore” è la potenza di Dio che dà la vita a tutta la creazione ed è la fonte di vita nuova e abbondante in Cristo. Lo Spirito mantiene la Chiesa unita al suo Signore e fedele alla Tradizione apostolica. Egli è l’ispiratore delle Sacre Scritture e guida il Popolo di Dio alla pienezza della verità (cfr Gv 16,13). In tutti questi modi lo Spirito è il “datore di vita”, che ci conduce al cuore stesso di Dio. Così, quanto più consentiamo allo Spirito di dirigerci, tanto maggiore sarà la nostra configurazione a Cristo e tanto più profonda la nostra immersione nella vita del Dio uno e trino.
Questa partecipazione alla natura stessa di Dio (cfr 2 Pt,1,4) avviene, nello svolgersi dei quotidiani eventi della vita, in cui Egli è sempre presente (cfr Bar 3,38). Vi sono momenti, tuttavia, nei quali possiamo essere tentati di ricercare un certo appagamento fuori di Dio. Gesù stesso chiese ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67). Un tale allontanamento magari offre l’illusione della libertà. Ma dove ci porta? Da chi possiamo noi andare? Nei nostri cuori, infatti, sappiamo che solo il Signore ha “parole di vita eterna” (Gv 6,67-69). L’allontanamento da lui è solo un futile tentativo di fuggire da noi stessi (cfr S. Agostino, Confessioni VIII,7). Dio è con noi nella realtà della vita e non nella fantasia! Affrontare la realtà, non di sfuggirla: è questo ciò che noi cerchiamo! Perciò lo Spirito Santo con delicatezza, ma anche con risolutezza ci attira a ciò che è reale, a ciò che è durevole, a ciò che è vero. E’ lo Spirito che ci riporta alla comunione con la Trinità Santissima!
Lo Spirito Santo è stato in vari modi la Persona dimenticata della Santissima Trinità. Una chiara comprensione di lui sembra quasi fuori della nostra portata. E tuttavia quando ero ancora ragazzino, i miei genitori, come i vostri, mi insegnarono il segno della Croce e così giunsi presto a capire che c’è un Dio in tre Persone, e che la Trinità è al centro della fede e della vita cristiana. Quando crebbi in modo da avere una certa comprensione di Dio Padre e di Dio Figlio - i nomi significavano già parecchio - la mia comprensione della terza Persona della Trinità rimaneva molto carente. Perciò, da giovane sacerdote incaricato di insegnare teologia, decisi di studiare i testimoni eminenti dello Spirito nella storia della Chiesa. Fu in questo itinerario che mi ritrovai a leggere, tra gli altri, il grande sant’Agostino.
La sua comprensione dello Spirito Santo si sviluppò in modo graduale; fu una lotta. Da giovane aveva seguito il Manicheismo – uno di quei tentativi che ho menzionato prima, di creare un’utopia spirituale separando le cose dello spirito da quelle della carne. Di conseguenza, all’inizio egli era sospettoso di fronte all’insegnamento cristiano sull’incarnazione di Dio. E tuttavia la sua esperienza dell’amore di Dio presente nella Chiesa lo portò a cercarne la fonte nella vita del Dio uno e trino. Questo lo portò a tre particolari intuizioni sullo Spirito Santo come vincolo di unità all’interno della Santissima Trinità: unità come comunione, unità come amore durevole, unità come donante e dono. Queste tre intuizioni non sono soltanto teoriche. Esse aiutano a spiegare come opera lo Spirito. In un mondo in cui sia gli individui sia le comunità spesso soffrono dell’assenza di unità e di coesione, tali intuizioni ci aiutano a rimanere sintonizzati con lo Spirito e ad estendere e chiarire l’ambito della nostra testimonianza.
Perciò con l’aiuto di sant’Agostino, cerchiamo di illustrare qualcosa dell’opera dello Spirito Santo. Egli annota che le due parole “Spirito” e “Santo” si riferiscono a ciò che appartiene alla natura divina; in altre parole, a ciò che è condiviso dal Padre e dal Figlio, alla loro comunione. Per cui, se la caratteristica propria dello Spirito è di essere ciò che è condiviso dal Padre e dal Figlio, Agostino ne conclude che la qualità peculiare dello Spirito è l’unità. Un’unità di comunione vissuta: un’unità di persone in relazione vicendevole di costante dono; il Padre e il Figlio che si donano l’uno all’altro. Cominciamo così ad intravedere, penso, quanto illuminante sia tale comprensione dello Spirito Santo come unità, come comunione. Una vera unità non può mai essere fondata su relazioni che neghino l’uguale dignità delle altre persone. E neppure l’unità è semplicemente la somma totale dei gruppi mediante i quali noi a volte cerchiamo di “definire” noi stessi. Di fatto, solo nella vita di comunione l’unità si sostiene e l’identità umana si realizza appieno: riconosciamo il comune bisogno di Dio, rispondiamo all’unificante presenza dello Spirito Santo e ci doniamo vicendevolmente nel servizio degli uni agli altri.
La seconda intuizione di Agostino – cioè, lo Spirito Santo come amore che permane – discende dallo studio che egli fece della Prima Lettera di san Giovanni, là dove l’autore ci dice che “Dio è amore” (1 Gv 4,16). Agostino suggerisce che queste parole, pur riferendosi alla Trinità nel suo insieme, debbono intendersi anche come espressive di una caratteristica particolare dello Spirito Santo. Riflettendo sulla natura permanente dell’amore – “chi resta nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (ibid.) – Agostino si chiede: è l’amore o lo Spirito che garantisce il dono durevole? E questa è la conclusione alla quale egli arriva: “Lo Spirito Santo fa dimorare noi in Dio e Dio in noi; ma è l’amore che causa ciò. Lo Spirito pertanto è Dio come amore!” (De Trinitate 15,17,31). È una magnifica spiegazione: Dio condivide se stesso come amore nello Spirito Santo. Che cosa d’altro possiamo sapere sulla base di questa intuizione? L’amore è il segno della presenza dello Spirito Santo! Le idee o le parole che mancano di amore – anche se appaiono sofisticate o sagaci – non possono essere “dello Spirito”. Di più: l’amore ha un tratto particolare; lungi dall’essere indulgente o volubile, ha un compito o un fine da adempiere: quello di permanere. Per sua natura l’amore è durevole. Ancora una volta, cari amici, possiamo gettare un ulteriore colpo d’occhio su quanto lo Spirito Santo offre al mondo: amore che dissolve l’incertezza; amore che supera la paura del tradimento; amore che porta in sé l’eternità; il vero amore che ci introduce in una unità che permane!
La terza intuizione – lo Spirito Santo come dono - Agostino la deduce dalla riflessione su un passo evangelico che tutti conosciamo ed amiamo: il colloquio di Cristo con la samaritana presso il pozzo. Qui Gesù si rivela come il datore dell’acqua viva (cfr Gv 4,10), che viene poi qualificata come lo Spirito (cfr Gv 7,39; 1 Cor 12,13). Lo Spirito è “il dono di Dio” (Gv 4,10) – la sorgente interiore (cfr Gv 4,14) – che soddisfa davvero la nostra sete più profonda e ci conduce al Padre. Da tale osservazione Agostino conclude che il Dio che si concede a noi come dono è lo Spirito Santo (cfr De Trinitate, 15,18,32). Amici, ancora una volta gettiamo uno sguardo sulla Trinità all’opera: lo Spirito Santo è Dio che eternamente si dona; al pari di una sorgente perenne, egli offre niente di meno che se stesso. Osservando questo dono incessante, giungiamo a vedere i limiti di tutto ciò che perisce, la follia di una mentalità consumistica. In particolare, cominciamo a comprendere perché la ricerca di novità ci lascia insoddisfatti e desiderosi di qualcos’altro. Non stiamo noi forse ricercando un dono eterno? La sorgente che mai si esaurirà? Con la samaritana esclamiamo: Dammi di quest’acqua, così che non abbia più sete (cfr Gv 4,15)!
Carissimi giovani, abbiamo visto che è lo Spirito Santo a realizzare la meravigliosa comunione dei credenti in Cristo Gesù. Fedele alla sua natura di datore e insieme di dono, egli è ora all’opera mediante voi. Ispirati dalle intuizioni di sant’Agostino, fate sì che l’amore unificante sia la vostra misura; l’amore durevole sia la vostra sfida; l’amore che si dona la vostra missione!
Domani quello stesso dono dello Spirito verrà solennemente conferito ai nostri candidati alla Cresima. Io pregherò: “Dona loro lo spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà e riempili dello spirito del tuo santo timore”. Questi doni dello Spirito – ciascuno dei quali, come ci ricorda san Francesco di Sales, è un modo per partecipare all’unico amore di Dio – non sono né un premio né un riconoscimento. Sono semplicemente donati (cfr 1 Cor 12,11). Ed essi esigono da parte del ricevente soltanto una risposta: “Accetto”! Percepiamo qui qualcosa del mistero profondo che è l’essere cristiani. Ciò che costituisce la nostra fede non è in primo luogo ciò che facciamo, ma ciò che riceviamo. Dopo tutto, molte persone generose che non sono cristiane possono realizzare ben di più di ciò che facciamo noi. Amici, accettate di essere introdotti nella vita trinitaria di Dio? Accettate di essere introdotti nella sua comunione d’amore?
I doni dello Spirito che operano in noi imprimono la direzione e danno la definizione della nostra testimonianza. Orientati per loro natura all’unità, i doni dello Spirito ci vincolano ancor più strettamente all’insieme del Corpo di Cristo (cfr Lumen gentium, 11), mettendoci meglio in grado di edificare la Chiesa, per servire così il mondo (cfr Ef 4,13). Ci chiamano ad un’attiva e gioiosa partecipazione alla vita della Chiesa: nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali, nelle lezioni di religione a scuola, nelle cappellanie universitarie e nelle altre organizzazioni cattoliche. Sì, la Chiesa deve crescere nell’unità, deve rafforzarsi nella santità, ringiovanirsi, e costantemente rinnovarsi (cfr Lumen gentium, 4). Ma secondo quali criteri? Quelli dello Spirito Santo! Volgetevi a lui, cari giovani, e scoprirete il vero senso del rinnovamento.
Questa sera, radunati sotto la bellezza di questo cielo notturno, i nostri cuori e le nostre menti sono ripiene di gratitudine verso Dio per il grande dono della nostra fede nella Trinità. Ricordiamo i nostri genitori e nonni, che hanno camminato al nostro fianco quando, mentre eravamo bambini, hanno sostenuto i primi passi del nostro cammino di fede. Ora, dopo molti anni, vi siete raccolti come giovani adulti intorno al Successore di Pietro. Sono ricolmo di profonda gioia nell’essere con voi. Invochiamo lo Spirito Santo: è lui l’artefice delle opere di Dio (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 741). Lasciate che i suoi doni vi plasmino! Come la Chiesa compie lo stesso viaggio con l’intera umanità, così anche voi siete chiamati ad esercitare i doni dello Spirito tra gli alti e i bassi della vita quotidiana. Fate sì che la vostra fede maturi attraverso i vostri studi, il lavoro, lo sport, la musica, l’arte. Fate in modo che sia sostenuta mediante la preghiera e nutrita mediante i Sacramenti, per essere così sorgente di ispirazione e di aiuto per quanti sono intorno a voi. Alla fine, la vita non è semplicemente accumulare, ed è ben più che avere successo. Essere veramente vivi è essere trasformati dal di dentro, essere aperti alla forza dell’amore di Dio. Accogliendo la potenza dello Spirito Santo, anche voi potete trasformare le vostre famiglie, le comunità, le nazioni. Liberate questi doni! Fate sì che sapienza, intelletto, fortezza, scienza e pietà siano i segni della vostra grandezza!