senza dubbio uno dei fenomeni più importanti dell’ebraismo contemporaneo. Sottovalutato, come accade spesso con i grandi cambiamenti che si giocano negli stretti confini di una confessione religiosa, senza sforare troppo in ambito profano. Si tratta di Chabad – acronimo ebraico di Saggezza, Comprensione e Conoscenza – il movimento degli ebrei Lubavitcher, chiamati così dal nome della cittadina nell’attuale Russia da cui prese inizio la loro storia oltre due secoli fa. È il gruppo chassidico divenuto, nella seconda parte del ’900, non solo il più numeroso, con oltre 200mila aderenti, ma quello di gran lunga più dinamico e in espansione, all’insegna di una missione ben precisa: riavvicinare all’ortodossia ebrei agnostici o non praticanti, riportare una presenza ebraica viva in comunità ridotte al lumicino, iniziarne di nuove là dove l’ebraismo non era mai arrivato o quasi, diffondere – anche con l’uso assai spigliato dei mezzi di comunicazione – la propria spiritualità. Questo è ciò che è avvenuto per esempio in Cina, dove Chabad è arrivato nel 2001, trovando pressoché il vuoto; in meno di 10 anni è diventato il perno di una comunità di 1500 anime a Shanghai, aprendo centri in altre sei città. È ciò che è avvenuto in India, dove il nome dei Lubavitcher è salito tristemente agli onori delle cronache perché due di loro – il rabbino Gavriel Noach e sua moglie Rivka, oltre a 4 ospiti del centro Chabad in cui si trovavano – sono stati uccisi negli attacchi terroristici del 2008 a Mumbai. È ciò che è avvenuto in zone estreme come la Repubblica del Congo o nelle lande più marginali dell’America latina come il Paraguay, in cui una minuscola comunità ebraica, data come prossima all’estinzione all’inizio degli anni ’80, ha trovato con l’arrivo di Chabad una nuova vita. È avvenuto ovviamente negli Stati Uniti, dove i Lubavitcher emigrarono per sfuggire alla persecuzione nazista, stabilendo a Brooklyn la loro casa madre, e in altre 70 nazioni, dove sarebbero ormai circa un milione gli ebrei coinvolti nelle attività di Chabad – scuole, opere di carità, attività editoriali e di formazione religiosa – e in cui spesso la sua presenza è preponderante. «Lo zelo e il tipo di missione ricordano lo slancio di evangelizzazione dei movimenti nel postConcilio» commenta un sociologo cattolico, ma osservatore del mondo ebraico, come Paolo Sorbi. Il paragone ci sta, in un certo senso, anche per quanto riguarda le frizioni sorte negli anni tra Chabad e l’ebraismo istituzionale. Nel 2004, a Vilnius, una contesa tra il rabbino capo Simonas Alperavicius e i Lubavitcher portò a una misura a cui nemmeno il regime sovietico era giunto: la chiusura dell’unica sinagoga in città. Un episodio dai contorni simili, dove si arrivò anche alle mani e pesantemente, avvenne a Praga nel 2005. In Russia il grande appoggio che Putin diede fin dall’inizio della sua presidenza a questi chassidim militanti (e al loro rabbino di Andrea Galli capo, nato a Milano, Berel Lazar) per arginare l’influenza del Congresso ebraico russo, attorno al quale gravitavano alcuni degli oligarchi contro cui l’apparato siloviko aveva scatenato la resa dei conti, ha lasciato strascichi pesanti nella comunità ebraica. Difficoltà, dissapori e tensioni, per altro pari all’entusiasmo suscitato in moltissimi dal lavoro di Chabad, che non derivano solo da questioni di posizionamento o di leadership. Nascono anche (o soprattutto) da una questione dottrinale potenzialmente esplosiva: il fatto che una larga parte di Chabad vede in Menachem Mendel Schneerson (19021994), che del movimento è stato il settimo e ultimo Rebbe – titolo che designa la somma guida spirituale nel mondo chassidico – il Messia atteso da Israele. Non poca cosa. Una fede, questa, sulle cui origini ci sono letture diverse, ma che è certo essersi accentuata negli ultimi anni della vita di Schneerson, dopo la fine del comunismo sovietico e la prima guerra del Golfo, letti come segni escatologici. Alla scomparsa del Rebbe, la credenza che costui fosse il salvatore atteso non si è spenta, ma si è rimodulata nell’idea di un Rebbe che non sarebbe in realtà morto o che sarebbe comunque destinato a tornare, risorgendo, per il compimento dell’opera messianica. I Lubavitcher si sono poi divisi fra mishichist, che professano esplicitamente la loro fede nel Rebbe Messia, e non mishichist, coloro che hanno abbandonato tale credo o, secondo la lettura di un ex esponente di Chabad come Melech Jaffe, che hanno semplicemente scelto di tacere su questo aspetto, conservando le proprie convinzioni nel segreto. A far detonare un dibattito che ribolliva ormai da anni nell’ebraismo ortodosso è stato un libro scritto nel 2001 da David Berger, autorevole storico dell’ebraismo alla Yeshiva University di New York, dal titolo The Rebbe, the Messiah, and the scandal of orthodox indifference (Il Rebbe, il Messia e lo scandalo dell’indifferenza ortodossa). In quello studio, ristampato e aggiornato nel 2008, Berger contestava tra le altre cose, alla luce di una lunga e dotta disamina della Tradizione, l’idea che potesse essere considerato Messia un ebreo morto prima di aver compiuto la sua opera liberatrice. Conseguentemente accusava Chabad di eresia o, nel migliore dei casi, di patente contraddizione con uno dei pilastri della fede ebraica. Non solo, Berger imputava almeno ai Lubavitcher mishichist, per la loro fede in un Messia che muore e risorge e in una lettura di diversi passi profetici per avvalorare tale credo, «un’erosione della distanza tra ebraismo e cristianesimo» e il «consegnare munizioni letali alla predicazione cristiana». Apriti cielo. Jacob Neusner, l’ormai celebre studioso a cui ha dedicato grande attenzione anche Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret, recensì in modo entusiastico il libro di Berger definendolo il «più urgente uscito negli ultimi decenni» per quanto riguarda l’ebraismo, giudizio ribadito con forza ad Avvenire a distanza dieci di anni. Da parte Lubavitcher si parlò di un attacco fratricida e di una scandalosa distorsione della realtà. Una discussione che è esplosa e da allora non si è più fermata, alimentata anche da una nutrita serie pubblicazioni sul tema, l’ultima delle quali è il libro di Elliot Wolfson, studioso di mistica ebraica della New York University, che con il suo Open secret (Segreto svelato) cerca di fare luce sul mistero del Rebbe e sull’esoterismo dei suoi insegnamenti. Nel frattempo Chabad e il mondo ortodosso si intrecciano, si osservano, si confrontano – e un rimando a questa situazione si può incontrare a Gerusalemme dove, esattamente di fronte al Muro del Pianto, campeggia la grande insegna di Colel Chabad, una mensa per i bisognosi gestita dai Lubavitcher – entrambi probabilmente consci del fatto che attorno al Rebbe Messia si sta giocando una partita non di poco conto per il futuro dell’ebraismo tutto. |
EBREI CHABAD POSANO CON L’ALLORA PRESIDENTE USA BUSH RABBINI DI CHABAD PRESSO IL LORO QUARTIER GENERALE DI BROOKLYN, A NEW YORK, PER IL LORO RADUNO ANNUALE
LARAS: «HANNO PORTATO NUOVA LINFA. MA IL FUTURO RESTA INCERTO» Anche in Italia, ovviamente, i Lubavitcher sono presenti. E visibili, con le loro accensioni della Menorah, il tradizionale candelabro ebraico, nelle piazze di varie città in occasione della festa di Chanukkah. Arrivarono nel 1959, quando rav Gershon Mendel Garelik iniziò a Milano le attività del « Merkos l’Inyonei Chinuch » , il Centro per l’educazione ebraica, associazione che controlla le attività del movimento. Anche nel capoluogo lombardo, come altrove, non sono mancati i momenti di difficoltà. « I rapporti all’inizio non sono stati amichevoli, da parte loro voglio specificare – spiega rav Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana e dal 1980 al 2005 a capo della comunità di Milano –, tanti anni fa i Lubavitch erano più aggressivi. Forse perché non erano abbastanza radicati e chi non lo è cerca di farsi spazio con gli artigli. Abbiamo vissuto tempi piuttosto agitati, per il loro volersi porre come unica autorità legittima e rappresentativa, contestando i poteri tradizionalmente costituiti sul posto. Poi con il passare del tempo le cose sono molto cambiate e ora il clima è di amicizia. Giusto sabato scorso, per dirle, sono stato da loro » . Rav Laras ci tiene a sottolineare « la loro generosità e accoglienza, perché sono elementi di cui si sente l’esigenza non solo nel mondo ebraico ma in tutta la società » . « Un mio amico – racconta sempre il rabbino milanese – era andato a Shanghai di venerdì, quando mancavano poche ore al sabato. Preso dal panico sul da farsi, fu avvicinato da un Lubavitch, riconoscibilissimo come al solito, che gli disse: ' Benvenuto, dove passi lo Shabbat? Vieni da noi'. Un piccolo episodio, ma che dà l’idea della loro magnanimità » . Oltre a Milano, qual è stato l’impatto di Chabad sull’ebraismo italiano in generale? « Hanno dato un apporto benefico » , risponde sempre rav Laras, « perché hanno immesso un entusiasmo, un interesse rinnovato nei confronti dell’osservanza dei precetti, che qui si era affievolito. Questo all’inizio ha suscitato un moto di rifiuto, come di fronte a qualcuno che ti fa sentire in difetto. Però, alla fine, l’arricchimento spirituale e religioso dell’ebraismo nel nostro Paese è stato notevole » . Molte luci, quindi, ma anche ombre. E il motivo resta il punto scottante del messianismo. Qui Laras invita a non far di tutta un’erba un fascio: « Non ci sono blocchi, posizioni omogenee. Conosco una famiglia di rabbini di cui un membro è un fermo e appassionato sostenitore del Rebbe Moshiach ( Messia) mentre gli altri non lo sono affatto. Poi ci sono quelli che sì, ci credono, ma non è che farebbero la Guerra dei trent’anni per questo » . Ciò non toglie che il problema resta, come un grande punto interrogativo per il futuro: « È chiaro che se l’aspetto messianico continuasse e si radicalizzasse, si creerebbe un problema di accettabilità di un movimento di questo genere all’interno dell’ortodossia. E il ragionamento porta a dire che sarebbe possibile una frattura. Vedremo, il tempo sarà rivelatore » . Andrea Galli |
Avvenire 14 febbraio 2010
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