DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Così Gladys ci ha insegnato a fissare Cristo. Una nuova meravigliosa testimonianza di Padre Aldo Trento

Leopardi definisce la bellezza femminile “raggio divino”. E ogni volta che mi avvicinavo al letto di Gladys, durante la sua lunga permanenza con noi, non ho potuto fare a meno di pensare alla poesia“cara Beltà”. Perché Gladys era bella. Non solo quando è arrivata qui, già affetta da un cancro che non ha avuto pietà di lei fino a ridurla pelle e ossa, in punto di morte. Osservandola ogni giorno percorrere il suo cammino verso il destino ultimo, vedevo con evidenza che Cristo la stava trasformando, restituendola a se stessa. Totalmente affidata alla Sua volontà, mi diceva: «Padre Aldo, c’è già un posto per me in paradiso». Un percorso non certo facile, ma che al contrario è stato lungo e doloroso, come testimonia la lettera che pubblichiamo. Quando all’inizio le diagnosticarono il cancro la sua reazione fu disperata, e solo quando arrivò qui da noi iniziò il miracolo della sua conversione. Per due lunghi anni ha dovuto percorrere per intero il cammino che porta alla grazia della fede, alla grazia di poter finalmente dire: «Tu, oh Cristo mio». Nelle ultime settimane di vita i suoi occhi si illuminavano solo davanti al volto di Gesù. Ogni volta che mi avvicinavo a lei con il Santissimo Sacramento voleva toccarlo e baciarlo, e io commosso avvicinavo l’ostensorio alle sue labbra.

Era il momento più bello del giorno, l’attimo in cui più della morfina riusciva a confortarla la vista del Signore. Ha vissuto i suoi ultimi giorni rivolta al volto di Cristo, e quando all’alba del 13 gennaio ha chiuso i suoi occhi neri, il suo viso, dopo anni di tensione, esprimeva la felicità e la pace di chi finalmente vive tra le braccia di quel Tu che fa sì che tutto sia positivo, persino il cancro. È morta quando aveva 23 anni, ed è stata davvero il mio “raggio divino”, il segno più potente in questi ultimi mesi del Mistero, della coscienza che l’uomo è “Io sono Tu che mi fai”.
Per questo, cari lettori, vi propongo la lettera scritta da Gladys una settimana prima di morire, e la testimonianza di una sua amica che soffre di depressione, e grazie all’amicizia con lei ha cominciato a pensare a sé con affetto e accetta ciò che prima le causava paura. Una malattia che diventa una grazia, una possibilità grande per dire: «Tu, oh Cristo mio».
P. Aldo


Mi chiamo Gladys Adriana Alonso Ucedo, ho 23 anni e ora sono nelle mani di Dio e della Vergine. Stavo seguendo un trattamento di cura qui in Paraguay, però siccome non avevo abbastanza risorse per sostenere le spese ho dovuto spostarmi in Argentina. Lì ho sofferto molto perché ero lontana dalla mia famiglia, e poi mi trattavano male perché sono paraguayana. Dopo un anno ho rischiato una forte depressione, sentivo la mancanza dei miei affetti e del mio paese. Ho deciso di tornare per cercare un’altra possibilità, e grazie a Dio e alla Vergine ho trovato questo paradiso. Perché per me questo è un paradiso. Non avrei mai pensato di trovare tanta pace, il mio cuore risuona di allegria tutti i giorni perché sono “al San Rafael”, questo luogo paradisiaco dove si respira la pace. Al San Rafael ho conosciuto Dio: qui mi sono convertita, ho capito cosa vuol dire avere Dio nel cuore, perché Lui è la luce che guida i miei passi, che mi aiuta a crescere, che fa sì che la mia fede aumenti, e mi mostra come uscire da questo stato di malattia! In questo ospedale c’è tanta tranquillità. E anche grazie all’aiuto di padre Aldo, che mi ha dato molta forza, ne sto uscendo. Per sentirsi felici e calmi l’unica cosa da fare è conoscere Dio, farsi colmare da Lui e seguire i suoi passi. Perché senza Dio non avrei questa gioia di vivere. Lui mi dà forza, allegria, felicità, e ciò che più conta mi dà questa tenera cetezza: che andrò migliorando sempre di più e che poi aiuterò la gente che ha bisogno di appoggio e che ha bisogno di Dio. Lui ci dà la cosa più importante che c’è in terra: l’amore. E anche se ho il dono della profezia e so tutti i disegni segreti di Dio, e se ho conoscenza di tutte le cose, e anche se ho tanta fede da essere capace di muovere le montagne, se ho tutte queste cose ma non ho l’amore, non sono niente. Amare vuol dire saper sopportare, essere gentile, non avere invidia né presunzione, evitare l’orgoglio, non essere egoista, non portare rancore. Amare significa non rallegrarsi mai delle ingiustizie, ma solo della verità. Amare vuol dire soffrire, credere, sperare, sopportare appieno. Corinzi 13.
Grazie all’amore che mia mamma mi dà ogni giorno, in ogni momento, e per l’amore immenso che mi dà Dio, sto lottando con la mia malattia e ce la sto facendo. Mi vogliono bene e lo dimostrano. Così come nella clinica, dove senza pensarci due volte mi danno tutto l’amore e l’affetto del mondo. È un luogo dove si respira pace, amore, pazienza, sicurezza, solidarietà. E l’affetto di padre Aldo.
Gladys


Ricordo come fosse ieri il momento del mio incontro con Gladys. Dopo una breve presentazione formale io non sapevo cosa dire, sono stati momenti di silenzio totale. Mi sentivo sconcertata e decisi, mentre la guardavo, che non sarei tornata a visitarla. Però quegli occhi pieni di vita e grati per il semplice fatto di aver passato un po’ di tempo con lei nei giorni successivi non mi lasciavano in pace.
Dopo quasi due settimane ho preso coraggio, ho lasciato da parte la mia paura e il disagio e in un momento di pausa dal lavoro mi sono seduta al suo fianco. Arrivata davanti al suo letto mi sono sentita accolta dai suoi occhi colmi di sorpresa per il fatto che ero tornata a farle visita. Ho cominciato a raccontarle dei miei giorni nella Casita di Belén e lei mi ha parlato di sé e mi ha chiesto dei massaggi alla gamba che le faceva male (aveva una trombosi). All’inizio io non sapevo come rispondere, ci provavo ma avevo paura di farle ancora più male a causa della mia inesperienza, e poi davanti a quella carne ferita mi sentivo davvero impotente. Lei si è resa conto che tremavo al solo pensiero di mettere le mie mani sulle sue gambe, e mi ha chiesto tra l’offeso e il deluso: «Hai paura di toccarmi?». Le ho risposto: «No, non ho paura di te. Ho paura di farti male perché non sono capace, ma se posso aiutarti, continuo». Così ho continuato a massaggiarle la gamba ogni volta che la andavo a trovare. In poco tempo è nata un’amicizia che avrei voluto non fosse mai terminata, e non nascondo che mi costa fatica parlare di questo
Un giorno è entrato padre Aldo col Santissimo Sacramento (era mezzogiorno, l’ora della Comunione) e Gladys appena lo ha visto ha smesso di piangere e ha iniziato a fissare l’ostensorio. Ha chiesto al padre di avvicinarlo e lo ha baciato. Dovevate essere lì per vedere come il suo sguardo era cambiato: non era più piegata su se stessa, sulla sua tristezza. Poi si è girata verso di me e mi ha detto, piena di letizia: «Se questo è ciò che Lui vuole, io vado avanti con quel che mi chiede. Se questa è la Sua volontà, io sono qui». Io allora le ho chiesto perdono per il mio comportamento, e le ho spiegato che volevo farle compagnia, che le volevo molto bene e che andavo a visitarla non per la gamba, ma perché pensavo: questa giovane ha un cancro allo stomaco, ha una trombosi alla gamba sinistra, non può muoversi, soffre moltissimo però ha uno sguardo pieno di certezza, di una fede che io non possiedo. Io ho vissuto la malattia di Gladys come un cammino verso Cristo, e la mia depressione come qualcosa che invece mi allontana da Lui. Volevo capire il segreto di quello sguardo, per poterlo avere anch’io. Le ho spiegato che non ero capace di farle compagnia, di aiutarla come lei mi aiutava. La mia depressione poteva iniziare a manifestarsi in qualsiasi momento, anche mentre mi trovavo in sua compagnia, come infatti era già successo. Alla fine le ho detto che se voleva non sarei mai più andata a disturbarla, per evitare di intristirla. Lei mi ha guardato con molta tenerezza e mi ha detto: «Chulina, nei tuoi occhi io non vedo la depressione. Vedo una bella ragazza con un bel sorriso e due occhi che sembrano dire ciò che non riesce a esprimere a parole. Io vedo quello che prova il tuo cuore, quando mi guardi, e mi sento amata. Trasmette il bene che provate per me, e questo mi commuove. Ti guardo e non vedo la tua depressione, ma gli occhi di una persona che cerca disperatamente Cristo. Non voglio che tu te ne vada, Chulina».
E così, a partire da quel giorno, ho passato con lei ogni momento libero della giornata: passavo con lei anche la notte, invece di andare a riposare. Ed ero sorpresa, mi rendevo conto che mi sentivo stanca fisicamente, ma con una grande gioia di vivere ogni istante, così com’era per lei che pure era costretta in quel letto. Il modo in cui Cristo la chiamava e il suo “sì” mi hanno educata ad accettare ciò che Lui ha scelto per me, per poter dire “sì” anche alla mia depressione. Ho “toccato con mano” una situazione drammatica che poteva portarmi alla disperazione, ma non l’ha fatto.

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