Tratto da cronache di Liberal del 9 febbraio 2010
Nel 1661, Adam Schall, missionario tedesco dell'ordine dei gesuiti e astronomo alla corte dell'imperatore cinese, cadde vittima della gelosia dei mandarini, e venne condannato a morte per aver impartito false nozioni astronomiche e divulgato una fede a loro dire figlia della superstizione.
Fu salvato dallo strangolamento solo quando un improvviso temporale convinse i giudici del fatto che la natura si fosse pronunciata contro quel verdetto. Padre Schall morì poco tempo dopo. Ma l'atteggiamento difensivo dei mandarini, i quali videro nelle sue idee straniere una minaccia al proprio status, avrebbe rappresentato un tema ricorrente nelle relazioni tra la Cina ed il mondo esterno. È dunque vero ciò che, dopo tutto, si dice riguardo allo scontro di civiltà? Alla luce di questo, è allettante interpretare la risposta ufficiale del governo cinese al discorso sulla libertà di Internet pronunciato da Hillary Clinton di pochi giorni fa. Incoraggiata dall'annuncio di Google, secondo il quale i suoi amministratori starebbero valutando la possibilità di uscire dal mercato cinese in segno di protesta contro la censura, la signora Clinton ha parlato della libertà di Internet in termini di diritti umani universali. Il suo discorso è stato prontamente bollato da un giornale afferente al Partito Comunista come «imperialismo informativo». Il portavoce del ministero degli Esteri Ma Zhaoxu ha affermato come le regole cinesi per Internet (evitando qualsiasi riferimento a Piazza Tiananmen, al Tibet, all'indipendenza di Taiwan e così via) siano in piena sintonia N con «le condizioni nazionali e le tradizioni culturali». La rivendicazione di universalità costituisce in effetti un'importante sfaccettatura della cultura a stelle e strisce, la quale affonda le proprie radici nella Rivoluzione Americana e nell'etica protestante. È ritenuto appropriato per un segretario di Stato dar voce agli ideali dei diritti umani universali. Proprio alla luce di ciò, un ufficiale cinese intende come proprio dovere affermare l'unicità o persino la superiorità, della cultura cinese. Ciò era vero per quanto concerne gli ufficialistudiosi di formazione confuciana nel passato imperiale. Ed è vero ancor oggi. Il controllo del pensiero, in termini di imposizione di un'ortodossia ufficiale, è una tradizione antichissima. Quella colla ufficiale che a lungo è stata applicata per mantenere unita la società cinese, incarna una sorta di dogma dello stato, conosciuto per sommi capi come confucianesimo, tanto morale quanto politico, dottrina che pone l'accento sull'obbedienza all'auto- rità. Ciò è quanto gli ufficiali sono soliti chiamare cultura cinese. Naturalmente si può inquadrare la questione in un'ottica più cinica, e vedere la cultura come una mera foglia di fico pensata per occultare le macchinazioni del potere politico.
L'ultimo "salve" cinese all'indirizzo degli Stati Uniti, l'accusa rivolta agli americani di aver istigato la ribellione iraniana attraverso Internet, rivela che l'attuale diatriba racchiude in sé un nocciolo politico (ed opportunistico) piuttosto duro. E l'ipotesi che Google, come ha riferito un editoriale cinese, rappresenti un "pegno politico" del governo statunitense, costituisce un lampante esempio di projection. In ogni caso, istillare la concezione che l'obbedienza all'autorità non rappresenta semplicemente uno stratagemma per mantenere l'ordine, bensì una componente essenziale dell'essere cinese, altamente conveniente per quanti esercitano l'autorità, siano essi padri di famiglia o governanti di uno stato. Tale è la ragione per cui, nei loro sforzi al fine di promuovere la democrazia dopo il primo conflitto mondiale, gli intellettuali cinesi denunciarono il confucianesimo e la sua rigida gerarchia sociale, in quanto vetusta ortodossia che doveva essere sradicata. La decisione di Google su un'eventuale dipartita dal mercato cinese ha posto i riflettori sul sistema di censura del paese. Loretta Chao del Wall Street Journal da un'occhiata ai differenti modi in cui censori e compagnie bloccano i contenuti di siti come Baidu, Google. com e Google. cn. Non fu, come sappiamo, così tanto sradicata quanto rimpiazzata dall'ortodossia comunista dopo il 1949. E quando tale ortodossia iniziò a perdere il controllo sul popolo cinese dopo la morte del presidente Mao nel 1976, gli ufficiali cinesi faticarono a definire un nuovo ordine di credenze atto a giustificare il proprio monopolio sul potere. L'ibrido ideologico che seguì il maoismo fu il "socialismo con caratteristiche cinesi", un misto di capitalismo di stato ed autoritarismo politico. In seguito, il confucianesimo fece una nuova comparsa. Ma l'ideologia più comune che emerse a partire dall'inizio degli anni '90 fu un nazionalismo difensivo, disseminato tra musei, spettacoli e testi scolastici. Tutti gli scolari cinesi vengono indottrinati con l'idea che la Cina sia stata umiliata per secoli dalle potenze straniere, e che il sostegno allo stato comunista rappresenti l'unico modo per la Cina di riguadagnare la grandezza perduta e non patire ulteriori umiliazioni.
Tale è la ragione per cui le critiche alla politica cinese provenienti dall'estero, o le accuse di violazione dei diritti umani rivolte a Pechino, vengono denunciate dagli ufficiali governativi come un attacco alla cultura cinese, come un tentativo di "denigrare la Cina". Ed i cinesi che si dimostrano concordi con tali critiche estere vengono trattati non come dissidenti ma come traditori. Il termine "imperialismo informativo"è chiaramente pensato per evocare i ricordi delle Guerre dell'Oppio e di altre umiliazioni storiche. I cinesi vengono educati a pensare che gli stranieri che parlano di diritti umani lo facciano esclusivamente al fine di attaccare la Cina. Non è un aspetto completamente irrazionale. Se lo sciovinismo cinese è difensivo, quello statunitense può apparire offensivo. La nozione che gli Stati Uniti godano del diritto, a loro conferito da Dio, di imporre agli altri Paesi le proprie visioni circa la libertà ed i diritti, facendo a volte ricorso al proprio potenziale bellico, ha generato praticamente la medesima reazione in molti Paesi, quella stessa reazione che provocarono le guerre ingaggiate da Napoleone al fine di diffondere Libertà, Eguaglianza e Fraternità.
Poco importa quanto nobili siano gli ideali; i cittadini mal sopportano l'essere indottrinati. Inoltre, i cinesi non sono gli unici a fondere in un tutt'uno politica e moralità. La storia delle missioni cristiane in Asia, o anche in Africa, non può essere scissa nettamente dall'imperialismo; ambo i fattori sono in realtà due parti della stessa impresa. Persino le idee scientifiche, come ad esempio l'astronomia o la medicina, le quali possono essere considerate neutrali, furono accompagnate da valori tutto fuorché neutrali. I primi missionari in Cina, quali ad esempio il grande gesuita italiano Matteo Ricci (1552- 1610), presentarono la scienza come parte del loro obiettivo di diffondere la fede cristiana. In effetti, esiste un interessante parallelo tra quelle prime missioni cristiane e i nostri sforzi odierni miranti a diffondere i diritti umani universali, in special modo per quanto concerne la Cina. Ricci e i suoi colleghi, da bravi gesuiti, ritenevano che il miglior modo per influenzare l'elite cinese consistesse nell'adattarsi alla cultura cinese, indossare abiti cinesi, parlare con terminologia confuciana, assumere cioè "i costumi del luogo". Essi furono criticati da altri ordini cattolici, i quali interpretavano tale atteggiamento come un vergognoso tradimento dei principi cristiani. Solo la vera fede avrebbe dovuto essere predicata, senza compromesso alcuno con visioni pagane. Un dibattito molto simile ha luogo ai nostri giorni tra coloro che ritengono che l'applicare alla Cina le nozioni occidentali relativamente ai diritti umani e alla democrazia sia controproducente. Molti politici, uomini d'affari o magnati dei media sostengono che un adattamento alle particolari condizioni cinesi sia assolutamente più efficace se si spera di poter esercitare una qualche influenza nel Paese. Il fatto che tale argomentazione venga spesso considerata ad uso e consumo di chi la esprima non significa che essa sia erronea, ma sinora non si è di certo dimostrata corretta. Il livello di tutela dei diritti umani in Cina non ha riscontrato miglioramenti considerevoli, anche per via di alcuni compromessi sanciti da attori stranieri con l'illiberalismo cinese. Il dilemma per le élite cinesi, sin dai tempi delle prime missioni cristiane, verte su come abbracciare le idee utili dell'Occidente escludendo al tempo stesso quelle sovversive. I cinesi intelligenti sapevano perfettamente che buona parte del sapere occidentale (come fabbricare pistole ben funzionanti, tanto per fare un esempio) era non solo utile ma altresì una un percorso essenziale al fine di rendere la Cina abbastanza forte da resistere ad un'aggressione proveniente da oltreconfine. Ma l'aspetto complicato per gli ufficiali- studiosi consisteva nel modo in cui fare uso di tali conoscenze senza indebolire la propria posizione in quanto custodi della cultura cinese. Per fare un esempio, una più accurata conoscenza della geografia e delle altre civiltà rese più difficile sostenere che la Cina fosse al centro del mondo, della qual cosa dovremmo rendere grazie agli stati barbari. Nei tempi antichi, i barbari venivano equiparati alle bestie.
Quando, nel 1602, Matteo Ricci mostrò ai cinesi una mappa del mondo (ora visibile presso la libreria del Congresso), alcuni stranieri venivano già trattati con maggior rispetto, ma il vecchio atteggiamento difensivo sino- centrico era ancora più che vivo. Se il Regno di Mezzo non rappresentava più il modello perfetto di civiltà, la sua tradizionale organizzazione politica diventò vulnerabile a minacce provenienti dal fronte interno. Un modo per affrontare questo problema era separare la "conoscenza pratica" dalla cultura "essenziale", o ti-yong in cinese. La tecnologia occidentale era stupenda, fintanto che non ha interferito con la morale e la politica cinesi. Dal punto di vista pratico, ciò non era plausibile. Le idee politiche giunsero in Cina, assieme alle scienze, all'economia e alla religione occidentale. Ed esse contribuirono a minare alle fondamenta l'antico ordine prestabilito. Una di queste idee fu il marxismo, ma dopo che Mao ebbe unificato la Cina sotto il giogo del suo regime totalitario, egli riuscì per vari decenni ad isolare il popolo cinese da nozioni che avrebbero potuto far sgretolare il suo potere. Quando, verso la fine degli anni Settanta, la Cina si aprì al mondo degli affari sotto la guida di Deng Xiaoping, l'annoso problema del controllo dell'informazione emerse nuovamente. Deng ed i suoi tecnocrati volevano godere dei benefici delle moderne idee economiche e tecnologiche, ma, come i mandarini del XIX secolo, ambivano a cancellare quei pensieri che Deng bollava come "inquinamento spirituale". Il tipo di inquinamento che egli aveva in mente era segnatamente culturale (sesso, droga e rock 'n roll), ma principalmente politico (diritti umani e democrazia). Il tentativo di Deng, che ebbe successo solo in parte, fu reso ancor più difficile dall'invenzione di Internet, i cui problemi e le cui possibilità vennero lasciate al giudizio dei suoi successori. Internet, che negli ultimi anni ha conosciuto un vero e proprio boom, non può essere totalmente sorvegliato; vi sono semplicemente troppi modi per schivare i censori. Ma la Cina, con il suo esercito di poliziotti del cyberspazio, si è dimostrata particolarmente efficace nel controllo della rete, unendo le intimidazioni alla propaganda. Le intimidazioni incoraggiano l'auto-censura, e la propaganda nazionalista crea sospetti di critiche dall'estero. Non è difficile trovare cinesi ben istruiti che decidono di sottostare alla linea ufficiale riguardo al cosiddetto "imperialismo informativo".
D'altro canto, vi sono molti cinesi che hanno applaudito lo sprezzo di Google nei riguardi delle autorità. Quando gli hacker, operanti dalla Cina, hanno preso di mira gli indirizzi Gmail degli attivisti per i diritti umani cinesi, Google ha deciso che non avrebbe più fornito alcun aiuto nel monitorare le informazioni circolanti online. Come il direttore generale di Google Eric Scmidt ha affermato al recente vertice di Davos, nel corso del quale ha ripetuto le sue critiche nei riguardi della censura cinese ad Internet: «Speriamo che cambi e che si possa esercitare una qualche pressione al fine di rendere le cose migliori per il popolo cinese». Anche quando il portavoce del governo ha criticato gli Stati Uniti per aver interferito negli affari cinesi, centinaia di utenti cinesi di internet hanno deposto dei fiori di fronte agli uffici di Google a Pechino, Shanghai e Guangzhou. Questa è la ragione per cui risulta troppo semplicistico, e persino nocivo, interpretare il conflitto sulla libertà di Internet semplicemente come uno scontro culturale. Coloro che vogliono godere delle stesse libertà dei cittadini che vivono in regimi democratici danno per scontato che queste libertà siano anche cinesi. La questione, dunque, tanto per le compagnie quanto per i governi occidentali, è decidere da quale parte stare: gli ufficiali cinesi, i quali sono soliti definire la propria cultura in modo paternalistico ed autoritario, o le moltitudini di cittadini cinesi che formulano le proprie idee sulla libertà. Google ha fatto la sua scelta. A mio parere la scelta giusta, poiché non solo incoraggerà lo sviluppo di un sano dibattito sulla libertà e l'informazione all'interno della Cina, ma potrebbe altresì fungere da modello di comportamento per le compagnie che operano in paesi governati da regimi autoritari. Ed anche per quelle imprese decise a massimizzare i profitti, potrebbe servire per migliorare la loro immagine, dipingendole come attori schierati dalla parte dei buoni.