E’ di qualche giorno fa la notizia di un medico di Roma che avrebbe chiesto al tribunale il disconoscimento della figlia avuta dalla moglie nel 2002 attraverso la fecondazione eterologa. E’ vero, la piccola biologicamente non risulterebbe figlia del chirurgo romano ma legalmente sì, in quanto dalla documentazione esaminata dai giudici emergerebbe la conferma: all’epoca entrambi i coniugi erano pienamente consapevoli della scelta a cui andavano incontro. Al di là dei singoli dettagli - che verranno approfonditi nelle aule giudiziarie dato che il figlio di primo letto del medico ha impugnato la sentenza che rigettava l’istanza di disconoscimento - questa vicenda richiama il pressing, a cui da qualche settimana a questa parte stiamo assistendo, ossia quello per abbattere il divieto di fecondazione eterologa contenuto nella legge 40. Un breve, lineare comma alla fine dell’articolo 4, prevede, infatti, il divieto al “ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. E’ ancora una volta Carlo Flamigni (stavolta anche per pubblicizzare il suo nuovo libro sul tema) a denunciare l’ingiustizia di questa restrizione medievale e oscurantista, in nome della legittima aspirazione della donna ad avere un figlio, malgrado la sterilità del marito. L’unico valore che sembra pesare per i fautori di questa teoria, è il desiderio di avere un figlio. Un desiderio sano, naturale, nobile, che se assolutizzato diventa fonte di abusi e tirannie. Come quelle descritte sui vari siti che offrono uteri in affitto, una pratica che discende in maniera logica e coerente dall’eterologa. Si offrono pacchetti per andare in Ucraina, una sorta di offerta all inclusive, aereo e ovuli compresi.
Non vogliamo qui riflettere sulle violazioni che queste tecniche infliggono ad esseri umani allo stadio embrionale - alcuni dei quali finiranno nella migliore delle ipotesi in un congelatore alla fine di queste pratiche - e anche ai bambini nati da queste tecniche, ma sul vero valore della maternità. Colpisce constatare che la vicenda recentemente proposta in prima pagina dal “Corriere della Sera”, di una manager milanese licenziata dopo la gravidanza, al di là di tante attestazioni di solidarietà, abbia ricevuto anche qualche commento negativo, del tipo “deve stare zitta, chissà quanto avrà preso di buonuscita…”. Forse è vero, ma che c’entra? Anche qui, il nodo non sta sul piano strettamente materiale. Sta nel fatto che il mondo del lavoro, a parte qualche felice eccezione, non è accogliente con la maternità. La donna viene ancora vista come penalizzata in partenza, solo per il fatto che può potenzialmente diventare madre. Ma che cosa si chiede alle donne oggi? Si scrivono quintali di pagine e si fanno battaglie per garantire alle donne un figlio a tutti i costi e con qualsiasi mezzo, illudendole che questo valore sia universalmente condiviso dalla società intera, e poi le si penalizza a tutti i livelli se fanno figli. Le donne dovrebbero essere le prime a ribellarsi a questa nevrosi che usa il loro desiderio più profondo e più intimo, quello della maternità, per tenerle, ancora una volta, schiave del potere.
Ilaria Nava
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