DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Storie di ordinaria fecondazione eterologa


Autore: Tanduo, Luca e Paolo  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
lunedì 4 agosto 2014

L’Italia si appresta a definire le regole per la fecondazione eterologa dopo l’assurda e ingiusta sentenza della Corte Costituzionale che l’ha ammessa, contraddicendo una legge approvata da una maggioranza parlamentare trasversale, confermata da un referendum.
Uno dei punti fondamentali dovrà essere il mantenimento della gratuità per la “fornitura” di seme e di ovuli. Ma già nel leggere alcune regole si capisce l’assurdità dell’ammissione dell’eterologa e degli impatti sociali che avrà, si sta discutendo infatti di introdurre un limite ai bambini nati dalla stessa persona.
Il motivo è intuibile, limitare sullo stesso territorio la popolazione consanguinea, spesso inconsapevole di esserlo. Altro problema da dirimere è l’anonimato del “donatore” che pone però problemi anche dal punto di vista sanitario.
Ma senza voler entrare nel dettaglio delle future norme vogliamo riflettere su due storie di ordinaria eterologa, diciamo così, che dovrebbero illuminarci su quello che accadrà in futuro.
Una storia si svolge in Italia, l’ormai famoso caso dell’ospedale Pertini dove per un errore sono stati scambiati gli embrioni di due coppie, ed ora i bambini che nasceranno da una madre sono geneticamente i figli dell’altra coppia, coppia che ha dichiarato “I veri genitori siamo noi, gli unici. I bambini devono avere il nostro cognome fin da subito, appena nati. Andremo all'anagrafe per segnarli come nostri. Ce li dovranno restituire". Ovvio pensare che questa vicenda purtroppo si protrarrà con una lunga causa legale per stabilire quale delle due coppie potrà avere la possibilità di crescere questi due figli. Un caso emblematico di possibili contenziosi in caso di ripensamenti nelle future gravidanze eterologhe che coinvolgeranno appunto una coppia ed almeno un elemento estraneo ad essa. Si pone già oggi il problema sui casi che riguardano le coppie che arrivano in Italia con bambini nati da utero in affitto all’estero, la domanda è sempre se i genitori sono quelli biologici o quelli che mettono al mondo i figli, e si porrà in tutti i casi in cui in Italia un “donatore o donatrice” cambieranno idea . Tutto però ruota nelle discussioni su quali genitori abbiano diritto sul bambino, nessuno che ponga la questione su quale sia il diritto del bambino.
Ancora più drammatico il caso di Gammy che è una storia che arriva dalla Thailandia, dove una donna in difficoltà economiche, Pattharamon Chanbua, in cambio di denaro ha accettato di portare nel suo grembo, siamo quindi nel caso di utero in affitto, i figli di una coppia australiana. La fecondazione aveva dato origine a due gemelli, un maschio e una femmina. Al terzo mese al piccolo è stata certificata la sindrome di Down. La donna thailandese ha rifiutato l'aborto e ha dato alla luce entrambi i gemelli. I genitori australiani hanno deciso di prendere con sé solo la bimba sana.
Cosa dire di fronte ad una chiara scelta di scarto? Vengono in mente le parole di papa Francesco che ha respinto quella che ha chiamato come una “diffusa mentalità dell’utile”, la "cultura dello scarto", che oggi “schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli”. “Le cose hanno un prezzo e sono vendibili, - diceva il Papa - ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo”. Dove sono i difensori dei più deboli, dei poveri, degli ultimi, come fanno a non accorgersi che queste pratiche mediche porteranno solo ulteriore sfruttamento dei più deboli? Appare evidente che la questione sociale coincide con la questione antropologica e la necessità di riconoscere fin dal concepimento “chi è l’uomo”.

Inghilterra, governo apre una banca del seme pubblica per dare figli “su misura” a «coppie omosessuali e donne single»


Tempi by Redazione


Il governo inglese ha deciso di spendere ancora più fondi pubblici dei contribuenti per permettere alle coppie omosessuali e alle donne single di avere un figlio su misura. Per questo nel 2014 ha già elargito oltre 247 mila euro al National Gamete Donation Trust (Ngdt) perché metta in piedi la prima banca del seme pubblica nazionale, riporta il Daily Mail.
ELENCO ON LINE. La banca, che aprirà in ottobre, permetterà a chiunque lo desideri di consultare un elenco on-line e scegliere lo sperma in base alle caratteristiche (colore di capelli, occhi, età, educazione e etnia) del donatore. Nei prossimi tre anni Ngdt si impegnerà a reclutare oltre mille uomini che donino, a pagamento, il loro sperma.
«CRESCE LA DOMANDA». Secondo Laura Witjens, direttrice di Ngdt, «ci sono persone non fertili dal punto di vista medico o pratico che vorrebbero usare i servizi di donazione nel Regno Unito ma non possono farlo perché non c’è abbastanza sperma. La domanda da parte di coppie omosessuali e donne single sta crescendo in modo esponenziale. Ed è sempre più accettabile dire: “Non ho ancora trovato un uomo, ma non voglio aspettare, voglio un bambino”».
bambini-fecondazioneCHI SONO I «CLIENTI». Secondo la direttrice, anche le coppie eterosessuali potranno usufruire del servizio, ma i «clienti», non pazienti, «sono le donne single e le coppie omosessuali». Il governo farà pagare, grazie ai soldi pubblici, solo 380 euro, mentre le cliniche private costano almeno 1050 euro. E a chi protesta, affermando che così si fanno nascere volontariamente bambini senza padre, Witjens risponde: «Non c’è nessuna prova che i bambini crescano meglio con o senza padre. Il governo non ci ha mai chiesto di ridurre l’accesso allo sperma alle coppie omosessuali o donne single».
«BAMBINI SU MISURA». Secondo l’ex vescovo anglicano di Rochester, Michael Nazir-Ali, «questo annuncio solleva importanti questioni circa il futuro dei nostri bambini. I bisogni del bambino sono da considerare come primari, non è sufficiente “volere” un bambino, soprattutto se con caratteristiche particolari. Questa banca permetterà alle donne di scegliere i profili del donatore, che includeranno l’educazione e i criteri “attrattivi”, facendo nascere lo spettro di “bambini su misura”, nati secondo i desideri dei genitori. Ma cosa succederà se durante la gravidanza e la nascita ci saranno delle “interferenze” con i risultati desiderati? Questi bambini verranno rifiutati?». La risposta è semplice, basta guardare al caso del piccolo Gammy: nato con la sindrome di Down e per questo abbandonato dalla coppia australiana che l’aveva commissionato a una madre surrogata. Volevano un figlio sano.

Le coppie gay dietro il nuovo attacco alla legge 40


di Paola Binetti
Tratto da Il Sussidiario.net il 7 febbraio 2011

Strano destino quello della Legge 40, colpita da una sorta di accanimento giudiziario che sta cercando di smontarla pezzo per pezzo, come se rappresentasse l’ostacolo più grosso per la realizzazione della felicità coniugale e familiare.

Eppure gli obiettivi della legge sono semplici e chiari: è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita (PMA), che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, allo scopo di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana.

Il ricorso alla PMA è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità. Detto in altre parole, la procreazione medicalmente assistita si pone come una alternativa terapeutica alla sterilità e all’infertilità con l’impegno a tutelare i diritti di tutti i soggetti coinvolti: madre, padre e figlio.

Con l’ultima sentenza, il Tribunale di Milano ha rilevato nel divieto all’eterologa un ostacolo che non permette di garantire la realizzazione della vita familiare. È la terza volta che il divieto sulla fecondazione eterologa viene rimandato alla Consulta per averne una valutazione che in definitiva lo dichiari incostituzionale. Nel quesito, come sempre accade c’è una parte che esprime un valore generalmente condivisibile - garantire la realizzazione della vita familiare - e una fallacia logica che in realtà stravolge non solo l’impianto della legge, ma lo stesso valore che in teoria si vorrebbe difendere.

Non c’è dubbio, infatti, che questa legge costituisca - sia pure involontariamente- una vera e propria dichiarazione dei diritti essenziali dell’uomo: il diritto alla vita e il diritto alla famiglia. E questi due diritti sono da lungo tempo nell’occhio del ciclone di una cultura caratterizzata non solo da un profondo relativismo etico, ma soprattutto dal capovolgimento della prospettiva antropologica. In questo caso, mentre si pretende di garantire la realizzazione della vita familiare, si introduce una prospettiva che altera la natura dei rapporti tra padre-madre-figlio, perché il figlio viene a essere figlio di un genitore biologico, estraneo alla vita di famiglia che si intende tutelare.

Nella fecondazione eterologa, la scelta di introdurre in modo artificiale un soggetto terzo rispetto alla dinamica familiare implica un sovvertimento dei vincoli affettivi che caratterizzano il rapporto di coppia. Il presunto diritto al figlio diventa una sorta di grimaldello che scardina la naturale relazione di questa donna con questo uomo, per cui crea una nuova e artificiale relazione con un soggetto che si pone come padre reale, ma destinato a un anonimato affettivo ed emotivo.

Questo figlio sarà con tutta probabilità figlio di questa madre e di un padre altro, di cui successivamente qualcuno prenderà il posto, non perché il bambino sia rimasto orfano e sia stato abbandonato, ma perché intenzionalmente qualcuno ha decretato la “morte” affettiva del padre, destinandolo a una concreta forma di abbandono. Da un punto di vista simbolico si è capovolta un’antica condizione per cui il padre abbandonava il figlio, trasformandola in una nuova situazione in cui il figlio abbandona il padre, non appena è stato concepito. Una sorta di “usa e getta” rivolta al maschio considerato esclusivamente come fornitore di spermatozoi. Un utilitarismo che non ha nulla di quella ricchezza di affetti familiari che pure dovrebbe “garantire la realizzazione della vita familiare”. Tutti i ruoli sono invertiti ed è abbastanza facile immaginare come da questo punto di partenza si possa poi arrivare allo sfilacciamento di tutti gli altri legami affettivi.

L’eterologa in una prassi antica non era altro che il segno e il simbolo di “un tradimento” in cui il concepito era figlio di un altro e come tale andava incontro a una serie di difficoltà e di disagi in cui la componente affettiva ed emotiva si intrecciava spesso anche con quella economica ed ereditaria. La moderna tecnologia diagnostica ha più volte permesso disconoscimenti o riconoscimenti di figli nati al di fuori del vincolo coniugale, riconoscendo un valore strutturale al rapporto naturale tra madre e padre e tra figlio e relativi genitori. Figlio naturale e figlio adottivo possono vantare gli stessi diritti rispetto a molteplici parametri, ma resteranno pur sempre diversi, proprio sotto il profilo naturale, in cui la componente biologica appare essenziale.

Oggi la tecnologia permette di correggere numerosi errori che possono darsi in natura, facilita processi che altrimenti non potrebbero giungere a buon fine, funge da catalizzatore in situazioni ad alta complessità, ma non potrà mai alterare la dialettica naturale che vede un figlio come frutto di un rapporto tra una donna e un uomo, che sono a buon diritto genitori di questo figlio. L’evoluzione tecnologica che proprio nel campo della procreazione sembra permettere dei livelli di complessità inimmaginabili fino a pochi anni fa non può modificare la consapevolezza che ogni figlio è figlio di una madre e di un padre, che lasciano nel suo organismo, cellula per cellula le tracce della loro identità, sempre rintracciabili in tutto l’arco della vita e in ogni cellula del suo organismo.

E la politica non può non interrogarsi su questi nuovi modelli tecnologici che alla luce di un’antropologia capovolta tentano di stravolgere la naturale percezione della paternità e della maternità. Ogni figlio ha diritto a sapere chi è suo padre, anche per gli eventuali problemi di salute che potrebbero insorgere nella sua vita; ma ha diritto a saperlo anche alla luce della sua relazione personale con il presunto genitore con cui il rapporto potrebbe non essere dei migliori, proprio alla luce di quella scelta originaria che rende il padre “veramente” padre e il figlio “veramente” figlio.

È questo uno dei paradossi che si sono creati nella legislazione austriaca, nei cui confronti il prossimo 23 febbraio la Corte europea dei diritti dell’uomo sarà chiamata a pronunciarsi in via definitiva sulla conformità alla Convenzione dei diritti dell’uomo. La disciplina austriaca, infatti, mentre pone un divieto analogo a quello italiano alla procreazione assistita di tipo eterologo permette l’inseminazione artificiale di tipo eterologo. Un pastrocchio giuridico che vede alla sua base la difficoltà a ricostruire correttamente la mappa delle relazioni familiari proprio a garanzia di una piena realizzazione della vita familiare.

Il punto in cui bio-giuridica e bio-etica intercettano la bio-politica è proprio nell’assoluta necessità con cui oggi la politica deve prendere una posizione chiara rispetto alla famiglia: alla sua identità e alle problematiche collegate con la sua realizzazione e il suo sviluppo. Anche la libertà individuale deve trovare i suoi parametri di riferimento in una logica di tipo relazionale che prende atto della premessa antropologica per cui l’uomo è un essere per l’altro e con l’altro, anche perché è un essere che nasce dall’altro.

Il rapporto tra vita e libertà appare nella logica dei contestatori del divieto dell’eterologa del tutto stravolto, per cui invece di considerare la libertà un attributo della vita (sono libero perché sono vivo) si finisce col considerare la vita un’appendice della libertà (sono libero di vivere o di non-vivere).

L’accanimento con cui alcuni, sempre gli stessi per la verità, sempre con la stessa matrice culturale e sempre con la stessa appartenenza associativa, stanno distruggendo la legge 40, non ha nulla a che vedere con il desiderio di garantire la piena realizzazione della vita familiare, ma piuttosto con il suo contrario; con l’impegno ostinato a smontarne l’impianto, vanificando la tenuta dei legami familiari e riconducendoli in una sorta di anonimato affettivo, per cui ai due genitori originari è possibile sostituire qualsiasi altro surrogato tecnologico in un’avventura virtuale in cui niente è come sembra.

L’obiettivo che i detrattori della legge 40 si pongono è proprio quello di sfidare la politica ad abbandonare le sue incertezze e le sue titubanze per definire il chi è della famiglia, con la sua mission specifica, che la vede contestualmente impegnata nel dare la vita e nel custodirla fino alla sia naturale conclusione. Difendere la legge 40 sta diventando uno dei modi concreti per difendere contestualmente vita e famiglia, preservando l’una e l’altra dai ripetuti assalti che nascono da una visione individualistica dell’uomo, che svaluta i diversi tipi di legame, a cominciare da quelli familiari, considerandoli come un mero ostacolo alla realizzazione di sé.

La fecondazione artificiale eterologa è una delle tante picconate alla famiglia che si riveste di buonismo e di familismo, ma anche in questo caso non riesce a nascondere quale sia il suo punto di approdo: la legge 40 apre alle coppie di fatto (se provviste di determinati requisiti di stabilità), ma è proprio il vincolo dell’eterologa che non consente attualmente la fecondazione nelle coppie omosessuali.

Ammettere la fecondazione eterologa potrebbe essere l’inizio di un processo che la legge italiana non prevede e quindi un modo di raggirare non una legge, ma l’intero impianto della nostra Carta costituzionale e del nostro diritto attuale. Per questo ci auguriamo che il No della Consulta sia chiaro, netto e consapevole.

FIV: “bambini preziosi”. E gli altri?

di Carlo Bellieni

Forse non lo sapete ma da qualche anno alcuni bambini sono “più uguali degli altri”. Sono quelli chiamati dalla letteratura scientifica “bambini preziosi” (precious babies, in inglese), e per loro si prevede un trattamento speciale rispetto agli altri: infatti essere “precious baby” è uno dei nuovi motivi, e abbastanza diffuso, per eseguire un taglio cesareo. Dalla Nigeria (Nigerian Postgraduate Medicine Journal, settembre 2002) all’Australia (Birth, settembre 2010), fino all’Italia, tanto da essere criticato aspramente sulla rivista Progetto Sanità dell’aprile 2008.

Ma chi sono questi “fortunati”? Lo spiegano Howard L. Minkoff, e Richard Berkowitz sulla rivista “Obstetrics and Gynecology” (settembre 2005): ”Il termine preziosa è spesso usato per gravidanze arrivate tardi o ottenute con FIV”. Al pari di altri fattori “più medici”, nascere da FIV è un’indicazione al cesareo per molti medici, spiegano questi autori. Perché? Cosa hanno questi bambini di diverso tanto da definirli “preziosi? Sarebbe il fatto che sono “l’ultima spiaggia”: se le cose vanno male, difficilmente la coppia ne potrà fare un altro. “Alcuni protocolli ritengono che questa non rimpiazzabilità debba far sviluppare una strategia che contempli un ricorso più facile al taglio cesareo. In questo caso i medici devono sapere di star alterando in sostanza la giustizia sostantiva, uno dei pilastri dell’etica della riproduzione”. Sembra infatti che in caso di “bambino prezioso” si abbassino i criteri comuni per operare un cesareo, come spiega la succitata rivista “Birth”. “Esempi includono abbassare il criterio di peso del feto per cui si fa il cesareo” spiegano Minkoff, e Berkowitzsulla “o aumentare quello del pH fetale”.

Ma perché, se questo è davvero utile al feto, non si usa questa “cautela” per tutte le gravidanze? “Il problema non è tanto che qualche bambino venga chiamato prezioso, ma che ci siano alcuni che non sono chiamati così”. Come dar loro torto? Gli autori suddetti si domandano quanto questo sia giusto. Non verso i bambini nati da FIV che se ne hanno un giovamento è bene che a loro arrivi; ma verso gli altri per i quali, se quanto la letteratura riporta corrisponde al vero, hanno un trattamento diverso.

Questo non significa che dei medici trattano “meglio” alcuni e “peggio” altri. Semplicemente significa che li trattano in modo diverso a parità di condizioni cliniche e questo è inquietante. Se si esegue un cesareo ad una donna perché si pensa che il suo lutto in caso di un esito infausto sarebbe grande nel caso che non possa più aver figli, si pensa forse che chi ne può avere altri avrebbe un lutto meno grave? E se talvolta sono le madri stesse con FIV a chiedere un cesareo senza che vi siano strette indicazioni mediche, non merita approfondire i motivi che portano a questa richiesta, visto il tasso alto di queste tecniche che da tante parti invece si chiede di abbattere?

D’altronde è perlomeno discutibile l’idea diffusa che per il bambino sia meglio nascere col cesareo, come spiega su Le Figaro del 10 novembre 2010 il ginecologo Jaques Milliez, dell’Accademia Nazionale di Medicina, per rischi respiratori e di altra natura che sarebbero maggiori in questo caso.

Noi crediamo che tutti i bambini sono ugualmente preziosi, e non vorremmo che qualcuno ricevesse cure diverse per il modo in cui è stato concepito o per riguardo verso i suoi genitori che forse non ne potrebbero avere un altro, ma non per questo sono “più uguali” degli altri. C’è nella cultura occidentale una visione salvifica della FIV, come se si dicesse: “Tanto la medicina ci metterà un riparo”, quando ad esempio, si decide di aspettare all’infinito ad avere figli; che oltretutto pecca di irrealismo di fronte ai limiti della procreazione medica. Trattare i bambini nati da FIV in maniera differente dagli altri aiuta solo a perpetuare questo mito.


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Ultime notizie dal suk procreativo: si arruolano anche i parenti. Nuove frontiere della fecondazione artificiale

di Assuntina Morresi

Dal vaso di Pandora della fecondazione artificiale è uscita l’ennesima novità: regolare la 'riproduzione collaborativa', cioè la fecondazione in vitro che coinvolge più di due persone – come per l’eterologa o la maternità surrogata – quando è in famiglia. Una coppia sterile, insomma, anziché comprare ovociti o liquido seminale o affittare uteri di estranee, scelte su cataloghi di agenzie specializzate, potrebbe farseli dare dai parenti, a cominciare da quelli più prossimi (genitori, fratelli e figli) fino ai cugini, passando per zie e nipoti. La nuova sigla è Imar, che sta per 'riproduzione medicalmente assistita intrafamiliare', e l’idea è in un documento ufficiale dell’Eshre (European Society of Human Reproduction and Embryology), la più importante società scientifica europea degli operatori del settore.
La proposta dovrebbe allarmare molto più delle chiacchiere di questi giorni. Secondo gli 'esperti', a certe condizioni è possibile che un bambino sia concepito con gameti provenienti dai fratelli già nati, o da quelli dei nonni (età permettendo), o sia portato nell’utero della sorella o della cugina di quella che sarà sua madre 'sociale' e che forse non è neppure quella genetica: insomma, una combinazione pazzesca di gameti e uteri di terze e quarte persone parenti fra loro, con intrecci familiari complicati e per i quali non esiste neppure un lessico adatto. Al di là dell’orrore che tutto questo suscita, è interessante leggere il documento proposto dall’Eshre, dove tanti nodi vengono al pettine.
Innanzitutto le motivazioni di questa nuova offerta del suk procreativo: gli autori ammettono che così si riducono i costi dei gameti e degli uteri in affitto. È oramai evidente a chi ha un minimo di onestà intellettuale che la 'donazione' dei gameti non esiste: si comprano su catalogo, con preferenze inconfessabili e costi più elevati per donne belle, istruite e bianche, o per maschi dalla tipologia vichinga. Insieme all’utero in affitto, la compravendita degli ovociti rappresenta una delle nuove forme di commercio del corpo umano, che potrà essere più facilmente mascherata da 'altruismo' se lo scambio avviene fra le mura domestiche.
Gli autori stessi si interrogano sulla possibilità di pressioni morali nei confronti di familiari che non cedano i propri gameti o non mettano a disposizione l’utero. E d’altra parte, aggiungiamo noi, qualsiasi forma di pagamento diventerebbe totalmente incontrollabile. Ma nel testo c’è molto altro: ci si interroga per esempio sul fatto che uno scambio di gameti e di uteri fra sorelle e fratelli o fra genitori e figli possa essere considerato simile a un incesto. La verità è che in questo caso la separazione fra sesso e procreazione, da decenni teorizzata e tecnicamente possibile, diventa difficile da elaborare: se una donna porta in grembo i figli di suo fratello o ne usa il seme, o una figlia cede i propri ovociti a sua madre, la 'genitorialità biologica' fra il bambino e gli zii o addirittura la nonna è innegabile. In tanti paesi l’incesto è reato: non lo è più se si separa il sesso dalla procreazione? E poi, siamo sicuri che il povero nascituro riuscirà ad accettare tutto questo? Non a caso il testo discute a lungo sulla confusione che si può ingenerare nel bambino di fronte a certi intrecci di rapporti familiari, e si conclude che non sempre può essere opportuno dirgli la verità.
Ma non avevano detto che l’importante è solo l’amore di chi quel figlio lo vuole a tutti i costi? E ancora, ci si chiede quando si debbano rendere obbligatori i test genetici e la diagnosi preimpianto se i gameti sono di parenti stretti, visto il maggiore rischio di nati malformati.
Insomma: l’autodeterminazione vacilla. Il 'posso quindi voglio' ha dei limiti. Ma allora, non è forse arrivato il momento di fermarsi e chiedersi, tutti quanti, dove ci sta portando tutto questo?

«Avvenire» del 22 gennaio 2011

La dittatura del desiderio

Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 27 ottobre 2010

Due casi di questi giorni ci devono interrogare seriamente su quale società vogliamo costruire e su quali diritti vogliamo tutelare. I due fatti, diversi tra loro, mostrano come i diritti del bambino e il fontale diritto alla vita siano sempre più un arbitrio in mano al relativismo etico.

Un risarcimento di un milione e 600 mila euro è stato riconosciuto ad una coppia di coniugi per un errore diagnostico che non li ha avvertiti della malattia del figlio, e quindi non ha loro consentito di procedere con l'aborto. Come ha scritto il Foglio siamo ormai all'ideologia della "nascita sbagliata". Forse non tutti si rendono conto che questa sentenza ammette e permette che una vita malata possa essere selezionata e impedita. Pur comprendendo le fatiche e i sacrifici cui sono sottoposte le famiglie che devono affrontare una seria malattia del loro figlio, non possiamo arrenderci a questa idea di uomo che ricorda troppo da vicino la Rupe Tarpea. Noi non ci rassegniamo e diciamo che tutte le vite umane hanno uguale valore e tutte arricchiscono l'umanità, tutte sono segno di amore.

Che dire poi della notizia che appare sui giornali, dove si racconta di un disabile (ironia della sorte, proprio quella persona che forse oggi è ritenuta inutile e quindi sarebbe selezionata alla nascita) che vuole offrire il suo sperma per permettere a coppie di lesbiche di avere un figlio: un bambino ha diritto ad avere una mamma ed un papà, anche su questo non si può transigere. L'idea, o meglio l'ideologia, che solo i sani debbano nascere o continuare a vivere (vedi anche l'eutanasia) è completamente disumana, essendo l'uomo per sua natura sottoposto alla malattia e al dolore, ma forse è proprio questo il problema: si vuole disumanizzare l'uomo. Anche i recenti casi sulla fecondazione eterologa e con Fivet o attraverso un ragazzo disabile che si offre ad una coppia di lesbiche per avere un figlio (se si riflette, l'eterologa anche in provetta è simile a questa "naturale" come scrivono i giornali) che per natura non possono avere in quanto dello stesso sesso, rappresenta l'estremizzazione di desideri che non rispettano e non accettano la natura dell'uomo.

Il bambino è malato? Allora la madre surrogata deve abortire

Cronache eterologhe

di Nicoletta Tiliacos

Una coppia di Vancouver ha voluto che la donna da cui aveva affittato l’utero non partorisse il figlio Down


Cronache dal Mondo Nuovo. Dopo aver fatto ricorso all’utero in affitto per avere un figlio, una coppia di Vancouver ha scoperto con l’amniocentesi che il bambino atteso era affetto da sindrome di Down. A quel punto, ha preteso che la “madre surrogata” abortisse. La vicenda è finita sui giornali canadesi solo perché la madre surrogata all’inizio si è rifiutata di dar seguito alla richiesta della coppia. Ne è nato un contenzioso – davvero degno della fantasia di Huxley e del suo “Brave New World” – sul valore dell’accordo privato concluso in precedenza, che garantiva ai committenti la possibilità di rifiutare un figlio malato. I due genitori biologici hanno annunciato che se il bambino fosse nato (ma alla fine l’aborto c’è stato), loro non avrebbero assunto nei suoi confronti nessuna responsabilità. E’ la logica commerciale: c’è una coppia di committenti, c’è una prestatrice d’opera (ufficialmente a titolo di solidarietà, perché le regole canadesi lo richiedono, ma un pagamento c’è: lo chiamano “rimborso spese”), c’è un prodotto che deve rispettare certi standard. Se il prodotto è difettoso, il committente recede, e con lo stesso diritto con cui si noleggia una donna per una gestazione, le si intima di interromperla.
Intervistata dal quotidiano National Post, Juliet Guichon, bioeticista dell’Università di Calgary, avanza dubbi sull’applicazione di “regole commerciali al concepimento di figli”. Sally Rhoads, che con il sito Surrogacy in Canada assiste le coppie che ricorrono all’utero in affitto, pensa invece che “le parti dovrebbero accordarsi fin dall’inizio sul da farsi, e garantirsi di pensarla nello stesso modo sull’aborto”. La contrattualistica procreativa va solo perfezionata. Alcuni stati americani consentono alla coppia committente di portare in tribunale la fornitrice di utero, allo scopo di recuperare il compenso già corrisposto, se questa si ostina a voler partorire un bambino nel frattempo diventato indesiderato. In Canada, in altri tre casi di rottura imprevista del contratto di maternità surrogata (le coppie committenti avevano divorziato mentre le gestazioni erano in corso), le fornitrici di utero hanno deciso di partorire e di tenere con sé i bambini, dei quali sono diventate madri a tutti gli effetti.
Questo accade nel mondo ricco. “E’ etico pagare i poveri del mondo per far loro partorire i nostri bimbi?”, si chiedeva un anno fa Vanity Fair, con un impressionante reportage sulle moderne schiave indiane dell’utero in affitto. I signori Pankert di Tubinga – uno storico dell’arte lui e una direttrice di banca lei – si sono risposti di sì. E visto che la Germania proibisce severamente sia l’eterologa femminile sia l’utero in affitto, si sono rivolti a una delle tante cliniche indiane della fertilità. Sono nati i gemelli Jonas e Philip, frutto di una fornitura di ovociti e di utero in affitto da parte di due diverse donne indiane, al modico prezzo di seimila euro. Ma i bambini, scrive lo Zeit, vivono ancora a Jaipur con il padre, perché non hanno passaporto. Sono tedeschi, dicono le autorità indiane, che consentono ormai tutte le pratiche eterologhe, per coppie e per single, ma non intendono dare la cittadinanza alle centinaia di bambini che ogni anno nascono nel paese grazie a quelle pratiche. Sono indiani, replicano i tedeschi, per i quali vale la nazionalità della donna che ha partorito i gemelli.

«Il Foglio» del 16 ottobre 2010

Edwards. Non è il Nobel per l’Etica!

di padre Gonzalo Miranda, L. C.
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 10 ottobre 2010

Un giornalista mi chiede “perché la Chiesa si oppone alla concessione del premio Nobel a Robert Edwards”, pioniere della fecondazione in vitro.

Non si tratta di opporsi, ma di distinguere: non gli è stato concesso il “Nobel per l’etica” (che, fortunatamente, non esiste) ma quello per la medicina. Da molti commenti, invece, sembrerebbe che il riconoscimento da parte della Accademia di Oslo debba per forza spazzare via ogni dubbio e ogni domanda sui molteplici problemi etici legati alla pratica della fecondazione artificiale.

Si ripete in continuazione la cifra di 4 milioni di bambini nati grazie alle ricerche di Edwards. E sembra che, con questi numeri alla mano, ogni tentativo di riflessione etica sia ormai fuori luogo. “Il Vaticano prepara il rogo mediatico”, ha scritto qualcuno. C’è, però, qualche cosa di strano nel mondo della fecondazione artificiale: non pochi operatori in questo campo si pentono e cambiano lavoro. Ne conosco ormai diversi. Riflettono, si interrogano, si tormentano... e a volte lasciano le provette, nonostante i lauti guadagni. Avete mai visto un ginecologo tormentato nella sua coscienza per il fatto che con il suo lavoro aiuta i bambini a venire in questo mondo nella sala parto?

4 milioni di bambini nati. Quanti milioni di bambini non nati? Quanti milioni eliminati in stadio embrionale nello stesso momento in cui i loro fratelli venivano trasferiti nell’utero della madre? Quanti milioni si trovano oggi congelati in azoto liquido, perché “avanzano”? Non si tratta soltanto di deviazioni o di incidenti imprevisti. Robert Edwards annunciò di aver ottenuto embrioni umani in vitro già in due articoli scientifici nei primissimi anni 60. Naturalmente, non si sognava nemmeno, in quel tempo, di trasferirli in utero per dare loro la possibilità di continuare a vivere. Embrioni umani prodotti in laboratorio con lo scopo di migliorare la tecnica. Louise Brown è nata dopo che molti embrioni umani erano stati sacrificati per poter ottenere il risultato.

Si ricorre alla scappatoia del “pre-embrione”. Si afferma che prima dell’impianto in utero è solo “un amasso di cellule” o un mero “progetto di vita”, e voilà, problema risolto. Per niente. I manuali di embriologia umana continuano testardi ad insegnare che nel momento del concepimento comincia l’esistenza di un nuovo individuo; nella specie umana, un individuo umano. E poi, se non degli embrioni, vogliamo dire qualcosa almeno a proposito dei bambini che nascono da fecondazione in vitro? “Tutti sani” è stato scritto in questi giorni. Si vede che leggono poco. Ormai abbondano gli articoli su rivise scientifiche specializzate che evidenziano tutta una serie di problematiche mediche, per niente banali, i figli della provetta.

Ecco alcuni testi recenti:

- “I bambini nati da coppie infertili, qualsiasi sia stato il trattamento, corrono un maggior rischio di nascta prematura e sotto peso, condizioni associate con il ritardo dello sviluppo” (Pediatric and Perinatal epidemiology, marzo 2009).

- “Anche se la ICSI [tecnica molto utilizzato oggi] è accettata, rimangono le preoccupazioni sulla sua sicurezza e sui potenziali rischi per i bambini”; tasso di malformazioni congenite del 6, 5% contro il 4% generale (Gynecol Obstet Invest, gennaio 2010).

- “Diversi disordini del imprinting genetico avvengono con frequenze significativamente superiori nei bambini concepiti con la Riproduzione Assistita che in quelli concepiti spontaneamente” (Ann Endocrinol (Paris), maggio 2010).

- “Abbiamo riscontrato un aumento moderato del rischio di contrarre il cancro nei bambini concepiti con la FIVET” (Pediatrics, luglio 2010).

I veri esperti del settore conoscono questi e altri studi preoccupanti. Gli apologeti della fecondazione arrificiale non ne vogliono sapere. La gente normale, soprattutto le coppie infertili, dovrebbero essere informate. Per mera giustizia. Tutto pulito, dunque? Non proprio. E ciò spiega in parte le perplessità e gli abbandoni di alcuni operatori nel settore. Ci sarebbe poi da aggiungere tutto il discorso sul rispetto della dignità della persona nel modo di farla esistere e venire in questo mondo. Le persone si procreano, non si producono. La persona è il frutto in un’atto inter-personale di amore dei propri genitori. Le tecniche che si pongono come aiuto affinché l’atto di amore nella donazione sessuale degli sposi possa dare il suo frutto naturale, si pongono nella logica della procreazione. La fecondazione in vitro è un atto di produzione.

Mi hanno risposto recentemente su un giornale, dicendo che il bambino nato da fecondazione artificiale è frutto di un’atto di amore; addirittura simile all’atto di amore creatore di Dio. Si confondono le cose. Posso desiderare di avere un figlio, come posso desiderare di avere un iPad. E posso, in entrambi i casi, porre i mezzi necessari per ottenerlo, anche con dei sacrifici. Questo è amore in quanto volontà di... Non è questo l’amore sponsale che genera un figlio. Il figlio nasce da un’atto di amore tra gli sposi, non da un mero atto di volontà per ottenere il bambino desiderato. Lo capisce bene il tecnico che prende coscienza che è lui, e solo lui, a causare l’esistenza del bambino nel suo laboratorio. Una volta ottenute le cellule necessarie dai futuri genitori, loro non c’entrano niente. Potrebbero addirittura essere morti in un incidente di ritorno a casa. Il tecnico può andare avanti e far sorgere le nuove vite.

Sono risolti tutti i dubbi morali sulla Riproduzione Assistita? Non mi pare. La concessione del Nobel a Robert Edwards certamente non li cancella. Piuttosto dovrebbe stimolare la riflessione e il dibattito.

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* Padre Gonzalo Miranda è docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Roma)

Che idea vi siete fatti della fecondazione in vitro?

Sulla pagina dell’OCCIDENTALE ho impostato il ragionamento che trovate sotto: vi va di rispondere?

Provocazioni biopolitike

Che idea vi siete fatti della fecondazione in vitro? Non vi domando che idea appoggiate, ma che idea vi siete fatti VOI? Già, perché in questo marasma di giornali, si finisce col diventare tifosi di una fazione piuttosto che ragionare. Per questo vi chiedo: che ne pensate VOI? Pensateci bene: io da parte mia preferisco sempre non dare risposte confezionate, ma dare strumenti per poter analizzare e ragionare. E sulla fecondazione in vitro questo è necessario e spesso manca. Perché è facile dire “no” per punto preso, così come è facile dire “sì” per commozione.

A me personalmente inquietano due cose; la prima è semplice: tante coppie non riescono ad aver figli e questo commuove, inquieta, genera solidarietà, e non è buona politica negarlo: non si può dire che il problema non esiste e non muoversi per risolverlo. Non si può negare il problema. Il guaio è che la soluzione proposta, la fecondazione in vitro, è solo un palliativo e una corsa ai ripari, mentre nessun organismo internazionale che l’appoggia si muove con altrettanta forza per ridurre la marea crescente di sterilità. E’ come se invece di dare ad una popolazione povera case riscaldate, li lasciassimo al freddo, ma gli mandassimo costose medicine contro la polmonite.

L’altro fatto che mi inquieta è che non si vuole riconoscere la vita dove è la vita: tutti noi siamo stati embrioni e qualcuno provi a negarlo! Non capivamo nulla quando eravamo embrioni, certo; ma eravamo noi. La fecondazione in vitro con gli embrioni congelati o con quelli “scartati” alla diagnosi preimpianto, ci fa dimenticare quest’evidenza.

C’è poi da dire che fare un figlio con lo sperma di una persona diversa da quello che sarà il padre per il bambino, genera forti interrogativi.

Ma VOI che ne pensate? E che pensate della legge 40 che mette dei paletti partendo dai punti suddetti? Bisogna spingere di più nel senso della prevenzione: vedete un movimento in questo senso? Il figlio viene considerato un “diritto”: è una buona cosa?

Sono solo alcuni tra i tanti spunti, ma sono una provocazione per smettere di essere “tifosi di una fazione” (può succedere). Confrontiamo le nostre idee a partire da questi (e magari da altri) spunti, ma ragioniamo al di fuori di quello che gridano i grandi giornali: se proviamo a confrontare quello che decidiamo con le nostre vere esigenze di bellezza, giustizia, libertà, troveremo delle buone risposte.

Riconosco che l'idea che personalmente mi sono fatta è decisamente sgradevole, perché penso alla bellezza di un rapporto coniugale aperto a qualsiasi cose il Buon Dio voglia far accadere. Tutte le altre sono complicazioni che è sempre difficile affrontare, dall'iperstimolazione ovarica, dalla seccatura di avere a che fare con medici che ti frugano in lungo e in largo, che fanno le loro considerazioni entrando nella tua vita privata, nei tuoi drammi spesso con mancanza di pietà, ma con professionalità (pagata anche, se non ci dovesse essere, a caro prezzo), ecc.
Preferisco una via più naturale e la natura offre davvero mille possibilità tra le quali scegliere e sono tuttte migliori di quelle che avrei progettato io. Lo dico per esperienza!


Aggiungo un articolo tratto dall'
OSSERVATORE ROMANO in cui si parla di un libro recentemente pubblicato dal neonatologo, Carlo Bellieni

10 ottobre 2010

Due femministe, quattro suore, due ginecologi e una psichiatra a confronto; un insieme variegato e sorprendente di testimonianze che invitano il lettore a riflettere su quali siano i reali desideri delle donne di oggi, spesso messi a tacere o condizionati dai modelli culturali contemporanei. Un libro atipico, La carne e il cuore: storie di donne di Carlo Bellieni (Siena, Cantagalli, 2010, pagine 116, euro 9) che, proprio grazie alla sua apertura alla "polifonia del reale" ha vinto la seconda edizione del premio letterario "Donna e Vita", ideato dall'associazione Scienza e Vita "per valorizzare chi meglio racconta, rivela e difende il talento della femminilità".
Secondo la giuria, l'opera curata da Bellieni è quella che meglio ha saputo raccontare, anche con l'ausilio di dati scientifici, una femminilità diversa, libera da pressioni sociali e schemi ideologici, che si confronta apertamente sui temi della maternità, fortemente voluta, rimandata o rifiutata, della clausura, della lotta sul lavoro, della pubblicità, dell'educazione. Il curatore lascia la parola alle donne che non si riconoscono nei modelli di omologazione imposti dalla società e che, con le loro scelte, si ribellano a "quello che ci si aspetta da loro".

Dai paladini del figlio "a tutti i costi" a quelli che non lo vogliono perchè inquina...

Parrebbe, a prima vista, l’ultima follia dell’eco-femminismo e dei fanatici della vita a impatto a zero. Ma potrebbe pure essere considerata l’altra faccia degli estremisti della fecondazione artificiale, degli stregoni che manipolano embrioni e ovuli femminili per assicurare alle coppie sterili un bel neonato pret-à-porter. Sono quelli che considerano il figlio come una partita doppia: entrate e uscite, costi e benefici.

Su un piatto i sacrifici che comporta mettere al mondo un figlio, sull’altro i vantaggi che esso procura. I contro sono tanti e tali che non c’è proprio partita. Tra questi, ultimo arrivato, il calcolo dei danni ambientali provocati dal pargolo: 9.441 tonnellate di Co2, cioè della sostanza velenosa responsabile dell’effetto serra e del surriscaldamento globale.

Panzane sesquipedali, ma abbastanza per decidere di non diventare genitori: sono i Childfree, ovvero coloro che scelgono consapevolmente di non avere figli e sono spesso felici di dichiararlo. L'associazione No Kidding, fondata a Vancouver nel 1984, e il libro di Corinne Maier (No Kid. Quaranta ragioni per non avere figli) hanno definitivamente sdoganato le coppie cosiddette Dink, acronimo di Dual Income No Kids (Due stipendi e Niente Bambini).

E’ in uscita il film con la splendida Julia Roberts: “Eat, Pray, Love” (Mangia, prega, ama), pellicola tratta dal best seller autobiografico di Elizabeth Gilbert, scrittrice antifamilista e no kids, che nelle interviste ama ripetere : “mi basta essere zia”. E la zietta yankee dà una bella spallata alla vita di coppia e alla famiglia tradizionale.

Il film racconta le paranoie di una divorziata in crisi che per ritrovarsi viaggia attraverso tre Continenti. Nel suo giro finisce per associare il mangiare a Roma, il pregare all'India e l'amore a Bali, nelle fattezze di Javier Bardem. Insomma, uno zuppone in stile Peace and Love. Ma, c’è da scommetterci, da noi sarà un successo: l’Italia in questo campo non ha certo bisogno dei consigli della fascinosa ex Pretty Woman. Rispetto agli altri Paesi europei, deteniamo, con 1,33 figli per donna, il record di natalità zero.


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Zapatero "sdogana" le mamme in affitto

n Spagna no, all’estero sì. Il governo di Madrid iscriverà nel suo Registro Civile tutti i bambini nati da una «madre in affitto» in Paesi – come gli Usa, la Russia, la Gran Bretagna o l’Ucraina – dove questa pratica è legale. Per il ministero della Giustizia l’obiettivo è fare ordine fra i casi di bimbi spagnoli venuti a mondo ricorrendo all’“affitto” della gestante al di fuori dai confini nazionali.

Ma il Foro della Famiglia avverte: questo passo può “aprire le porte” ad una futura legalizzazione delle “madri in affitto” anche nel Paese iberico. La decisione del governo di José Luis Rodriguez Zapatero preannuncia nuove polemiche in un terreno spinoso. La legge spagnola è chiara: secondo l’attuale legislazione nazionale, è “madre” solo la persona che dà alla luce un figlio. Lo sancisce la stessa Legge di riproduzione assistita, riformata nel 2006 dall’attuale esecutivo socialista. La norma, fra l’altro, considera “nullo” qualsiasi tipo di contratto (a pagamento o meno) che regoli la gestazione di una donna a favore di altri. Il ministero della Giustizia ha promulgato un decreto – apparso ieri sulla Gazzetta Ufficiale (il Boe spagnolo) – che permette ai piccoli venuti alla luce all’estero tramite una “madre in affitto”, di essere iscritti nel Registro Civile, purché uno dei due progenitori sia spagnolo e la mamma rinunci alla filiazione. La novità riguarda in modo particolare le coppie omosessuali. Finora poteva essere riconosciuto come genitore solo il padre biologico, mentre il partner – al di là del sesso (dato che in Spagna è stato regolarizzato il matrimonio gay) – doveva ricorrere all’adozione del bimbo. Da ora in poi, dunque, entrambi i partner (a prescindere dal sesso) potranno registrarsi come progenitori del bambino.

La notizia ricorda una vicenda recente. Una coppia omosessuale di Valencia si era rivolta ad una “madre in affitto” in California per avere due gemelli. Una volta in Spagna, dopo una lunga storia burocratico-giudiziaria, un tribunale valenciano ha annullato l’iscrizione nel Registro Civile dei due uomini come “progenitori” dei due piccoli. La decisione del ministero della Giustizia è stata accolta con grande soddisfazione dalla Federazione nazionale dei gay, dei transessuali e delle lesbiche: la normativa risponderebbe ad una domanda sociale e metterebbe fine ad una «chiara discriminazione», sostiene l’organizzazione. Ma per una buona fetta dell’opinione pubblica spagnola si tratta dell’ennesimo “strappo” di Zapatero in un ambito – quello familiare – che richiede sensibilità e cautela. Per Benigno Blanco, presidente del Foro della Famiglia, le conseguenze del regolamento saranno molteplici. In primis si rischia di «incentivare» la ricerca di «madri in affitto» all’estero. Ma non solo. «Ben presto qualcuno comincerà a chiedersi perché si può fare all’estero e non in Spagna, e alla fine verrà legalizzato» anche qui, ha detto Blanco al quotidiano Abc.

La nuova legge garantisce al piccolo il diritto di conoscere la madre biologica: il nome della donna verrà riportato nella sentenza giudiziaria del Paese d’origine, che dovrà essere presentata come condizione iniziale per l’iscrizione nel Registro spagnolo. L’atto giudiziario deve riconoscere che la madre gestante è d’accordo.
Michela Coricelli

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E la chiamano medicina

Può sembrare irriguardoso ricordare che la tecnica di fecondazione umana in vitro, che ha guadagnato al pioniere britannico Robert Edwards la punizione del Nobel per la Medicina, altro non era che il perfezionamento di un procedimento veterinario già largamente usato su conigli e mucche. I corifei della provetta, che ieri hanno celebrato il loro festival della banalità e della menzogna (la Fiv non guarisce affatto la sterilità. La aggira in un numero tuttora modesto di casi, visto che, a trentadue anni dalla nascita della prima bambina concepita in vitro, la percentuale di successo delle tecniche non si schioda dal trenta per cento), glissano sulle illusioni, le mitologie, i sogni di padroneggiare i meccanismi della creazione che rappresentano la vera “ragione sociale” di quelle tecniche.

Il big bang antropologico inaugurato da Edwards è quello che oggi ci fa parlare di “prodotto del concepimento” e non di figlio. E’ l’idea della “creazione” della vita in laboratorio, materiale biologico tra gli altri; è la separazione della procreazione dal sesso, dopo che il sesso era stato separato dalla procreazione con la contraccezione; è il cambiamento nel modo di rappresentare la generazione, i rapporti di parentela, il venire al mondo. Dalle provette di Edwards sono uscite le anticipazioni di quel Mondo Nuovo alla Huxley che oggi vive lautamente di compravendita di ovociti, di uteri in affitto, di fabbricazione di embrioni umani a fini di ricerca, magari ibridati con embrioni animali, di invenzione di coppie di genitori dello stesso sesso, di embrioni sovrannumerari conservati nell’azoto liquido e poi distrutti, o selezionati in provetta per ottenere un figlio dal corredo genetico “ottimale”. E la chiamano anche medicina.

La medicina che si intesta certi successi dimentica i suoi fallimenti. Il mare in declino della fecondità occidentale

Nobel a Robert Edwards per la sua scoperta, or sono quasi tre decenni, della rivoluzionaria tecnica della fecondazione in vitro già adottata dai veterinari. Commenti unanimemente favorevoli. C’è che la medicina è svelta a intestarsi i successi, quanto a non prendersi responsabilità degli insuccessi. Così, per esempio, se l’infertilità cresce (è tutto l’establishment medico-scientifico a dirlo), segnatamente nel mondo occidentale, sarà mica tutta colpa dell’inquinamento o dei ritmi di vita che non sono più quelli di una volta.

Fuor di metafora, la fecondazione in vitro ha permesso quattro milioni di nascite – ci ricordano i giornali – e al tempo stesso ha accompagnato la caduta del tasso di fecondità – ci ricordano le cifre ufficiali delle nascite. L’Unione europea a 27, da sola, ha perso la bellezza di tre milioni di neonati annue, tra la nascita di Louise Brown e oggi. E non si può negare che l’Europa sia, con gli Stati Uniti, l’area del mondo dove la fecondazione in vitro è stata ed è più largamente utilizzata. Dice: ma i milioni di nascite in più a essa dovute restano. Sì, ma guardiamo bene. Relativamente all’Italia, della generazione di donne nate nel 1990, una su quattro (per la precisione il ventiquattro per cento), secondo l’ipotesi più realistica delle previsioni Istat, resterà senza figli. Delle loro madri, nate nel 1960, sono rimaste senza figli in quattordici su cento. Secondo l’ipotesi “alta” le figlie potrebbero rimanere senza figli in proporzione addirittura più che doppia rispetto alle madri. Nel tempo della fecondazione assistita, artificiale, in vitro le donne senza figli tendono a crescere. Allora uno non capisce com’è che più rimedi si pigliano e più i risultati finali contraddicono le premesse. E’ un po’ come la lotta al tumore, miete successi, ma intanto i morti per tumore quando i successi non c’erano, e la prevenzione neppure, erano cinquantamila l’anno in meno rispetto ad oggi (ancora dati Istat, che nessuno cita mai – inutile aggiungere perché).

A proposito di questo problema della sterilità crescente.
Ha radici lunghe, complesse, antropologiche, e rischia di venire risucchiato dalla banalità – con tutto il rispetto – della medicina. C’è un venir meno formidabile dell’istinto, una volta naturale, di sopravvivenza della specie, come se l’ampliamento smisurato degli orizzonti dovuto alle nuove possibilità della scienza ci avesse rinchiusi nella prospettiva delle nostre sole vite, così poco interessati a quel che sarà. Un venir meno al quale si collega lo spostamento della fecondità sempre più in là nel tempo, sempre più in là, al punto che la classe d’età delle oltre quarantenni è l’unica oggi in grande spolvero sotto questo aspetto. C’è la crescente “inutilità” materiale del figlio nella funzione di sostegno della vecchiaia dei genitori, con addirittura l’inversione delle parti: i vecchi a sostegno di figli sempre più adulti ma che non vogliono saperne di assumersi le responsabilità dell’età adulta. C’è la scelta razionale, ponderata, della “non maternità” per la realizzazione a tutto tondo di una vita dedicata ad altro, di grande, di meno grande e pure di non grande – del tipo vacanze e notti ai tropici e aperitivi in qualche piazzetta, la cui perdita di esclusività è compensata dalla moltiplicazione delle piazzette.

E c’è pure la fecondazione in vitro. C’è l’“invenzione” del figlio. Perché anche un figlio che si può inventare contribuisce ad abbassare la naturale e fisiologica, ma anche culturale e infine antropologica, “propensione” al figlio. La propensione al figlio è letteralmente sotto assedio, in occidente, tra scienziati e opinion maker che almanaccano (qui, in Italia, in Europa) di superpopolazione e una moltiplicazione di pillole e contropillole del prima, del dopo e del durante da non raccapezzarcisi.
La funzione riproduttiva in quanto tale, quella comunemente legata alle coppie e alla loro vita insieme, è sempre più culturalmente confinata nell’alveo familiare, incapace ormai di rappresentare l’àncora che tutti ci tiene in questi mari. Cosicché quelli che tendono ai figli tendono ai “propri” figli, e i figli in quanto categoria generale e costitutiva vanno sparendo a una velocità ancora maggiore di quella fattuale delle nascite.
In tutto questo, il massimo che riusciamo a fare è affidarci alla medicina, alla fecondazione in vitro, all’invenzione dei figli. Senza accorgerci che anche questo è un fiume che attinge dal mare in declino della fecondità dell’occidente. Ci butta anche dell’acqua, in quel mare, è vero, ma nel bilancio finale è più quella che vi attinge.

di Roberto Volpi

Il grande ripopolatore da Nobel nel mondo spopolato dell’aborto. Ipocrita celebrazione dei concepiti in provetta. Giuliano Ferrara


Niente in apparenza è più allegro, edificante, rassicurante della capacità di dare figli al mondo, magari aiutati dalla medicina. Quattro milioni di bambini concepiti in provetta (tecnica IVF, in vitro fertilisation) sono celebrati come un miracolo scientifico e umanistico dai giornali italiani, che dedicano aperture di prima pagina al Nobel Robert Edwards, 85 anni, fisiologo emerito di Cambridge, lo scienziato che nel 1969 mise a punto la tecnica capace di far nascere poi, nel 1978, la capostipite della buona brigata dei nati IVF, Louise Brown. I giornali inglesi, che al contrario dei nostri quotidiani tenorili trattano la notizia con pudore (pagina interna, semplice cronaca su Guardian e Daily Telegraph), riferiscono una bella frase del nuovo Nobel laureate: “La cosa più importante nella vita è avere un figlio. Niente è più speciale di un figlio”. Questo magnifico adagio antiabortista, questa perorazione natalista, prende però un significato del tutto particolare in bocca a Edwards, fisiologo competente, fortunato, tenace e di valore, che ha rovesciato il paradigma della medicina moderna in fatto di riproduzione, provocando una rivoluzione culturale e antropologica che sfugge chiaramente, non so se alla sua comprensione, certo a quella dei suoi ammiratori e degli apologeti della tecnica IVF. Edwards infatti ha anche detto, e qui siamo invece in un mondo di percezioni huxleiane: “Non dimenticherò mai il giorno in cui ho guardato nel microscopio e ho visto una cosa buffa nelle colture... quel che ho visto era una blastocisti umana che mi osservava fissamente. Ho pensato: ce l’abbiamo fatta”.

Quattro milioni di bambini sono stati “prodotti” in vitro e poi accuditi, nutriti, formati e partoriti da un corpo di donna, cosa di cui non è possibile finire di rallegrarsi, per chi ha avuto la benedizione di un figlio e per chi ha avuto il diritto di nascere. Ma è incredibile che solo gli uomini di chiesa si siano domandati che fine hanno fatto quei milioni di “cose buffe” (letteralmente “something funny”) che guardano i loro fattori dall’occhio microscopico nei laboratori di fertilizzazione umana di tutto il mondo. Parlo ovviamente degli esclusi, delle cose buffe congelate, di quelle usate per la ricerca come topi-cavia, dei processi di fertilizzazione negoziati sul mercato degli ovociti, delle banche dati, delle scelte di maternità-paternità à la carte, dell’aborto selettivo attraverso lo strumento della diagnosi prenatale, e parlo più in generale della grande strage degli innocenti che caratterizza i trent’anni che ci separano dalla nascita di Louise Brown.

Per quattro milioni di celebrate cose buffe che procedono verso la nascita grazie a una tecnica che realizza volontà umana e desiderio, si dovrebbe contare, a rigore, un miliardo circa di cose buffe avviate all’esecuzione capitale in nome della “libertà riproduttiva”, con il consenso culturale, moralmente sordo, della comunità politica mondiale, specie dei corpi umanitari che custodiscono i diritti universali dell’uomo sanciti dalla dichiarazione del 1948. Spero soltanto che i ginecologi faustiani alla Flamigni, e altri uomini di scienza molto sicuri di sé, si appuntino bene la frase di Edwards: “…something funny in the cultures… what I saw was a human blastocyst gazing up on me…”. I figli orgogliosi di questo tempo capiranno l’importanza non solo linguistica di quella definizione dell’embrione fecondato, ovvero di quello che la legge 40 chiama il “concepito”: una blastocisti umana che guarda fissamente il suo autore. Per Chesterton il cattolicesimo libera gli uomini dalla schiavitù di essere figli del loro tempo. Scienziati e moralisti della libertà: la cosa buffa vi guarda.


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Il Nobel per la medicina. Una corsa al ribasso

di Carlo Bellieni
Tratto da L'Osservatore Romano del 7 ottobre 2010

L'assegnazione del Nobel per la medicina a Robert Edwards per la fecondazione in vitro (fiv) fa discutere.

Pur dando valore al riconoscimento, subito il "New York Times" si è stupito per l'attribuzione del premio a una ricerca di trent'anni fa e il giorno dopo "Le Figaro", forse non a caso, si è dilungato sull'esclusione negli ultimi anni dal novero dei Nobel di diversi studiosi meritevoli. È un premio che, tra l'altro, suscita interrogativi perché focalizzare sulla fiv il dibattito sulla riproduzione umana lascia fuori qualcosa di importante.

In questo dibattito c'è infatti un grande escluso, un escluso che fa sentire la sua mancanza con effetti devastanti a livello sociale e clinico: è la prevenzione della sterilità, patologia che nel mondo occidentale è in netto aumento anno dopo anno, mentre tutta l'attenzione in questo ambito è volta a garantire le richieste di fecondazione medica. Come se per curare il vaiolo ci si fosse limitati a cercare medicine nuove e costose per chi era già malato, invece di debellare questa malattia con la vaccinazione. E allora si rincorrono continuamente modalità di fecondazione, non spiegando che la sterilità può in gran parte essere prevenuta.

Si tratta di evitare certe infezioni, moderare l'uso di alcol e bandire le droghe, liberare l'ambiente da composti plastici o solventi che addirittura possono alterare la fecondità del nascituro, agendo sulle ovaie di un embrione femmina se la mamma li dovesse assimilare in gravidanza. E soprattutto si tratta di impostare una politica culturale e sociale per riportare in un range fisiologico l'età in cui le donne fanno i figli: più si aspetta e più è difficile concepire, anche con la fecondazione medica.

Invece domina un'etica da corsa ai ripari, e non è un caso isolato. Tutto il dibattito etico è tenuto forzatamente lontano dalla prevenzione. Si parla pochissimo anche di come prevenire le richieste di aborto o eutanasia, come se si trattasse di tabù: se la persona ha scelto, si dice, nessuno deve interferire; un criterio che è alla base dell'abbandono e della solitudine, ma che oggi viene chiamato libera scelta. E non volendo interferire con un supposto diritto, si fa terra bruciata sulle alternative; quando poi la politica o la società civile propongono un intervento preventivo, ci si straccia le vesti.

È una corsa al ribasso intollerabile, perché viola il diritto alla salute e perché fa fare passi indietro alla medicina moderna basata sulla prevenzione. Ed è una corsa illusoria: se infatti non si risolvono a monte, i problemi restano. Se non fosse una tragedia, sarebbe una farsa. Come se invece di prevenire la malaria con la bonifica delle paludi e la vaccinazione, impiegassimo appunto i fondi a disposizione solo per curare a caro prezzo chi è già infettato, lasciando la malattia diffondersi. Una cultura miope sta alla base di una politica transnazionale così fatta, e di questa avranno responsabilità verso il mondo intero gli organismi internazionali che l'appoggiano.

Ma è sul fronte dell'induzione dei bisogni che si gioca la partita. Il desiderio di un figlio non è indotto, ma lo è l'atteggiamento sbarazzino con cui l'idea di figlio viene accantonata fino agli anta, salvo poi pentirsi. Già, perché il problema è che per evitare il paternalismo, si cade nelle mani della pubblicità. I bisogni diventano quelli che ci vengono indotti e finiamo per reclamare costose corse ai ripari invece di un ambiente che non ci derubi della fertilità.

Quello dei bisogni indotti è un fenomeno ben noto in medicina, nella quale esiste il disease mongering ("mercanteggiamento di malattie"), cioè lo spacciare per malattie dei fenomeni fisiologici come la menopausa o la timidezza, per vendere farmaci attraverso sapienti campagne pubblicitarie con tanto di testimonial (si veda il libro-indagine Selling sickness di Ray Moynihan e Alan Cassels). E fa pari con l'invito martellante dai teleschermi a un consumo superfluo e non solidale o, come riporta Loredana Lipperini nel recentissimo Non è un paese per vecchie (Feltrinelli), con l'assimilazione restrittiva del concetto di salute a quelli di bellezza nella donna e di potenza nell'uomo, generando stress, disillusione e - quel che più conta - spesa.

Viviamo in modo stressante, tra malattie sessualmente trasmesse, lavori (stamperie, lavanderie, saloni di bellezza) che mettono a rischio la fecondità anche per l'impiego di sostanze che, se assorbite, mimano l'azione degli ormoni naturali e finiscono invece per bloccarla; mangiamo pesci al mercurio, abbiamo da poco allontanato il piombo dalle vernici e dalla benzina (proprio ieri il nostro giornale ha denunciato un tragico avvelenamento collettivo da piombo in Nigeria); spruzziamo antiparassitari sulla frutta (ci sono state epidemie di sterilità in Centro America per questo motivo); e tutto quello che i media sanno proporre per la nostra salute riproduttiva è la fecondazione in vitro.

Pensiamo piuttosto al bene comune, in una visione ecologica, che in altri termini significa una attenzione alla legge naturale, che non è mero naturalismo, ma intelligente prevenzione e rispetto del corpo. La Chiesa questo desidera: non persone spaventate che passano metà della vita nel terrore che arrivi un figlio e l'altra metà in quello che non arrivi più; ma persone informate, consapevoli della bellezza del corpo ma anche della forza coercitiva dei media, capaci di capire che vale più avere un figlio che comprare l'auto nuova, come invece mostra qualche pubblicità.

La cultura occidentale difficilmente seguirà questa preoccupazione: significherebbe indicare dei cambiamenti degli stili di vita, cosa che non è in grado di fare, tutta presa com'è a osannare l'autonomia e l'autodeterminazione. Ma non è saggio ignorare l'emergenza, e continuare a offrire a un mondo sempre più sterile solo nuove e costose tecniche fecondative. Una soluzione di grande impatto mediatico, ma certo solo palliativa.