DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

E adesso gli scienziati «litigano» sul clima

DI G IANNI F OCHI
S
arà stato il 'climatega­te', scienziati che tra­mavano per far passa­re sul clima una visione ar­tefatta a conferma delle re­sponsabilità dell’uomo; sarà stato l’allarme ingiustificato sulla rapida fusione dei ghiacciai himalayani; sarà stato il fallimento del mega­convegno di Copenaghen; saranno state le osservazio­ni sugl’interessi privati di Rajendra Pachauri, capo dell’Ipcc. Sta di fatto che quell’organismo (in italiano Ipcc corrisponde a gruppo consulente intergovernativo sui cambiamenti del clima) ha perso negli ultimi tempi alcuni appoggi incondizio­nati.
Per dirne una, Nature pub­blica oggi un servizio com­posto dai pareri di cinque climatologi sul modo di mi­gliorarne il lavoro. Un’oc­chiata ai loro ruoli potrebbe far pensare all’ennesimo in­tervento partigiano: si tratta infatti di scienziati premi­nenti nella redazione degli ultimi due rapporti di valu­tazione (2001 e 2007). Ma se uno teme che sia stato come chiedere all’oste se il vino è buono, nel leggere deve ri­credersi.
In effetti soltanto due ( Tho­mas Stocker dell’università di Berna e Jeff Price del Wwf americano) si limitano a chiedere cambiamenti non sostanziali. Mike Hulme del­l’università dell’East Anglia scrive invece che l’Ipcc non è più in grado di fornire una valutazione integrata delle conoscenze; già tre anni fa, facendo un paragone coi prodotti alimentari, egli as­seriva che la struttura e il modo di lavorare avevano oltrepassato la loro data di scadenza.
Eduardo Zorita del Gkss (Germania) esordisce così: «Come l’anno scorso la fi­nanza, l’Ipcc soffre ora d’u­na mancanza di fiducia che rivela crepe nella sua strut­tura ». Dice poi che i suoi membri occupano «uno spazio sfumato tra scienza e
politica» e si trovano alla mercé di chi ha voluto la lo­ro nomina. Questo climato­logo chiede dunque che l’or­ganismo diventi indipen­dente dai condizionamenti di vario tipo, come quelli che possono venire da governi, industria e lobby universita­rie. Aggiungiamo che gli scettici riguardo all’influen­za umana sul clima sono spesso accusati di subire le pressioni dei petrolieri; ma i suddetti affari di Pachauri dimostrano che l’industria 'verde' ha un potere alme­no altrettanto forte.
Zorita propone inoltre che i rapporti pubblicati dall’Ipcc vengano rivisti in modo tra­sparente da studiosi indi­pendenti,
e includano in maniera aperta le varie opi­nioni. Le frecciate più forti arrivano però da John Chri­sty dell’università dell’Ala­bama: «Molti governi hanno nominato soltanto autori (dei rapporti, n.d.r.) che era­no allineati con una politica stabilita». Dall’ultimo rap­porto appare «una fastidio­sa omogeneità di pensiero sulla relazione fra umanità e clima». I coordinatori «han­no l’ultima parola nel ciclo di redazione e dunque con­trollano il senso generale».
Ne deriva un consenso arti­ficioso. «Testate di prestigio,

Nature
compresa, sono di­ventate la claque delle visio­ni ufficiali, e i governi ne hanno approfittato per ten­tar d’attuare politiche di ri­duzione drastica delle emis­sioni, volta a 'fermare il ri­scaldamento globale' a co­sti crescenti dell’energia».
«La verità, che piaccia o no agli ideatori delle azioni po­litiche, è che gli scienziati so­no ancora enormemente i­gnoranti in fatto di clima».
Speriamo che, per i cambia­menti climatici, nessuno contrabbandi più una pre­sunta unanimità della scien­za, secondo cui chi si prova­va a esprimere dubbi veniva irriso e zittito. Dobbiamo al­meno riconoscere che per o­ra le visioni contrastanti pos­sono avere la stessa autore­volezza.