DAL NOSTRO INVIATO A PORT-AU-PRINCE CLAUDIO MONICI U na lunga fila di gente di ogni età e ceto si raduna tutte le mattine, molto presto, e resta per ore sotto un sole cattivo davanti all’edificio degli Uffici emigrazione e immigrazione, in rue Lalue. Il luogo non è distante dalla centralissima Champs de Mars, dove giacciono i resti del Palazzo nazionale e sorge la grande tendopoli che ha fagocitato monumenti e giardini pubblici. Molte di quelle persone in fila vengono da sotto quei fragili tetti improvvisati, per alcuni anche solo un lenzuolo annodato da un albero a un lampione. Tra grida e richiami, decine di braccia allungate al cielo, sopra teste che si schiacciano fin contro la cancellata e agitano convulse grandi buste commerciali con dentro le pratiche per la domanda di un passaporto. «C’è molta confusione. Non è ancora stato definito niente di concreto. Nessuna idea chiara sugli interventi, perché nessuno sa che cosa fare e che cosa sarà deciso di fare, né che soluzioni prenderà il governo dato che le sue istituzioni e i suoi uffici sono stati azzerati dal terremoto – ci dice Jéròme Orbert, impiegato statale, anche lui in fila –. Molti della città, coloro che hanno potuto, se ne sono tornati ai paesi d’origine, nei villaggi, in campagna. Io voglio raggiungere i miei parenti in Francia. Non voglio che la mia vita diventi prigioniera della provvisorietà di una strada. Devo solo rinnovare il passaporto scaduto. Sì, siamo in tanti, come potete vedere, e non so quando riuscirò ad avere il documento. Ma poi parto e non torno indietro più. Il futuro a Haiti non esiste». Sono file che si allungano ogni giorno che il calendario si allontana da quel 12 gennaio che ha portato un sisma di 7,3 gradi Richter; si gonfiano intanto che nuovi giorni si aggiungono come a evidenziare quella che appare una impietosa sentenza di impotenza organizzativa di fronte all’immensità del disastro accumulato. Numerosi, intanto, si fanno gli assembramenti umani che si formano davanti alle ambasciate straniere. Come per quella del Canada, in Delmas 75, dove sono militari con la foglia di acero rossa sulla spallina della mimetica, armati di fucili d’assalto, a badare all’ordine sulla strada. Altrettante sono le file davanti agli sportelli bancari di Unibank o Sogebank. Le guardie haitiane di sicurezza privata, armate di fucili a pompa, mantengono le persone alla debita distanza del «si entra uno alla volta». Si va per prelevare il contante che servirà a due cose fondamentali: affrontare la giornata con i prezzi dei generi di consumo che lievitano, oppure per organizzare il proprio viaggio che si concluderà in un altro Paese, a cominciare dagli Stati Uniti, dove vive una folta comunità haitiana. E poi ci sono le file della fame, quelle che sembrano comporsi d’improvviso, là dove si diffonde la voce che ci sarà la distribuzione di generi alimentari. Ma nei quartieri più disperati, le baracche di lamiera arrugginita sul mare di La saline, Cité Soleil, Cité Militaire, dove è sempre stato difficile sopravvivere, e nulla è mai stato portato, se non per qualche emergenza, quasi nulla è cambiato. Niente c’era e niente c’è ancora. Sembra di assistere a un impulso spontaneo. Le file di persone a Port- auPrince appaiono come qualcosa che deriva da un moto di ritorno da un trauma, quello del terremoto, evidentemente. Qualcosa che avviene quando chi è sopravvissuto a una tragedia o a un incubo, giunge a stabilire che gesti e parole sono inutili. Solo una decisione alla quale, a quanto sembra, non si può che obbedire. E ad Haiti, in questa fase di incertezza sul suo futuro, la decisione che sta passando si chiama: andare via. Non solo perché c’è stato il terremoto che ha portato la sua catastrofe umana e materiale. Le sconquassate camionette bianche con i caschi blu della missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite, che armate salgono e scendono le strada costeggiate di edifici crollati e ancora qualche cadavere estratto dalle macerie in condizioni a dir poco pietose, sono lì a ricordare un passato mai spento, fatto di bande, a metà strada tra la delinquenza, il traffico di droga e la violenza politica, armate di pistole e bastoni, che per anni hanno spadroneggiato in quartieri dove ancora è difficile entrare, senza una sicurezza armata. «Port-au-Prince era la zona più ricca di tutto il Paese. L’università, un minimo di servizi, e il lavoro. Dopo il terremoto nemmeno uno dei diciotto edifici ministeriali è rimasto integro. Il governo non sembra ancora essersi ripreso dallo choc – racconta un diplomatico occidentale –. Solo se consideriamo che gli haitiani sono un popolo che ha sempre vissuto il digiuno come abitudine sociale, perché è un popolo che ha sempre mangiato una sola volta al giorno, quello che ancora regge nella gente, e che gioca un ruolo fondamentale di fronte alla consapevolezza di avere perso tutto, è solo la fede. Questo, però, non basta a frenare l’emorragia, l’esodo che si sta preparando. Ci vorrà qualcosa di più di un idea di tipo ' Piano Marshall' per risollevare Haiti. Certo – aggiunge il diplomatico – si dovrà puntare su un robusto coordinamento tra i grandi attori internazionali, i Paesi amici dei Caraibi, e l’America del sud. Ma i responsabili delle istituzioni locali devono sapere da subito che è anche venuto il momento di fare le cose giuste e il bene per tutti, altrimenti ci faremo tutti attori responsabili della fuga degli haitiani dalla loro isola». «Il governo non si è ripreso dallo choc. Quello che ancora sorregge il popolo è la fede Ma per fermare l’esodo non basta» |