DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

I 26 martiri di Nagasaki, una Buona Notizia per tutti noi

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Dopo due secoli e mezzo di “splendido isolamento”, verso la metà del 1800 il Giappone si aprì di nuovo al mondo occidentale ed europeo, alla sua cultura e alle sue tradizioni, alla tecnologia e ai valori. Era infatti dal 1825 che le varie potenze occidentali premevano sulle autorità di quel grande paese dell’Estremo Oriente perché si aprisse di nuovo al commercio. Ma non solo. Esse chiedevano in particolare un trattamento umano per i loro naufraghi, la concessione di stazioni di rifornimento (carbone) nei porti e la libertà di operare sul suolo dell’arcipelago per i loro mercanti (ma anche per i missionari). Chiedevano insomma una svolta importante alla storia giapponese. E per iniziarla o per facilitarla gli americani pensarono che occorresse un piccolo “shock”. Nel 1854 infatti, violando tutti i divieti, ecco comparire nella baia di Tokyo una flotta di 9 navi guidate dall’ammiraglio Matthew Perry. Non ci fu bisogno di altri discorsi. Quella mossa, più che eloquente, costrinse lo “shogun” al potere ad aprire un certo numero di porti alle navi occidentali. Yokohama (non lontano da Tokyo) fu uno dei primi porti prescelti. Nel 1856 arrivò il primo ambasciatore americano e due anni dopo era pronto il primo trattato commerciale, sul quale poi si baseranno gli altri delle potenze europee.

Dopo l’accordo franco-giapponese del 1859 furono i Missionari delle Missioni Estere di Parigi, tra i primi, ad arrivare in Giappone e riprendere l’evangelizzazione, godendo di maggiore libertà, anche se le leggi anticristiane erano ancora vigenti. Anche se in un primo momento il loro apostolato si svolgeva principalmente tra gli europei dei porti. Alcuni anni più tardi i missionari si stabilirono a Nagasaki edificando una chiesa dedicata ai martiri del Giappone (del 1597) che erano stati canonizzati l’8 giugno del 1862 dal Papa Pio IX.

Fu il Venerdì Santo del 1865 che si presentò in chiesa un gruppetto di giapponesi che rivelarono agli stupiti missionari che c’erano circa 10.000 cristiani rimasti fedeli e sparsi nei villaggi dell’isola di Goto e nella valle di Urakami. Li chiamavano “kakure kirishitan” cioè “cristiani nascosti”. Per più di due secoli i cristiani giapponesi furono sottoposti ad una persecuzione costante e a varie umiliazioni. Ma non cedettero. Certo il numero di fedeli diminuì sensibilmente (si calcola che all’inizio del 1600 erano circa 400.000) e i missionari occidentali lentamente scomparvero. Ma il vero miracolo, date le circostanze, fu che la fede cristiana venne trasmessa dai genitori ai figli senza l’aiuto e la guida di nessuna struttura ecclesiastica. E questo per più di due secoli. Fino a quell’incontro del 1865 con i missionari. Incoraggiati da questa testimonianza l’opera di evangelizzazione ripartì con entusiasmo, anche se solamente nel 1889 furono abolite le leggi anticristiane, che concedevano di nuovo la libertà religiosa.


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Continuando l’opera di Francesco Saverio

Verso la metà del 1547, nell’isola di Malacca, Francesco Saverio, missionario gesuita, fece la conoscenza di un indomito lupo di mare, di nome Yajiro, un ex pirata dei mari della Cina. Particolare fondamentale: era giapponese. Questi gli fece una bellissima descrizione del Cipangu, cioè del Giappone. Yajiro parlava dei propri connazionali come di un popolo di buona cultura, animato dal desiderio di imparare e dell’interesse anche per le cose religiose. Francesco ascoltava tutte queste cose, sognando già il suo nuovo campo di apostolato. Voleva presto rispondere a questo desiderio dei Giapponesi di conoscere “cose nuove su Dio”. Non fu il primo missionario occidentale in Giappone, ma rimase certamente il più originale e il più famoso.

Rimase solo pochi anni in Giappone ma pose le solide basi per il futuro lavoro di evangelizzazione, che fu continuato da altri missionari gesuiti e francescani (ai quali si aggiunsero in seguito anche i domenicani e gli agostiniani). A quarant’anni dalla predicazione di Francesco Saverio, nel 1590, i cristiani arrivarono ad essere circa 200.000. E la comunità dei convertiti di Nagasaki era diventata il centro di questo piccolo Popolo di Dio giapponese. Tra questi si distinse Paolo Miki, un giovane predicatore.

Paolo era nato nel 1556 da una famiglia nobile e benestante di Kyoto, importante città d’arte e di cultura. Era figlio di un nobile samurai, convertito al Cristianesimo assieme ad alcuni monaci buddisti. Fu battezzato a 5 anni e da ragazzo entrò nel seminario dei gesuiti. Proseguendo gli studi di teologia fino a diventare sacerdote. Il giovane religioso riusciva bene in tutto (eccetto che in latino!). I suoi superiori perciò gli chiesero di approfondire la cultura del suo popolo, a tutti i livelli, per essere in grado di dialogare con i vari strati sociali della società giapponese: con la gente colta come i monaci buddisti e shintoisti e con quella povera di cultura e di altri mezzi materiali, spesso oppressi dai loro padroni. Paolo riusciva a dialogare con ogni tipo di persona, colta o senza cultura, ricca e nobile o povera ed umile. E sempre con efficacia. Con il suo modo di fare e di dialogare si guadagnò la stima ed il rispetto di tutti. Era inoltre un predicatore valente e convincente sia con la parola sia con la testimonianza di vita.


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Morire cantando i salmi e perdonando

Il lavoro di evangelizzazione tra la sua gente sembrava avere un sicuro avvenire, ricco di soddisfazioni apostoliche e di risultati di conversioni. Ma all’orizzonte si intravedono nubi foriere non di pace ma di dolore e di persecuzione (il motivo, dal punto di vista storico, non è ancora del tutto chiaro).
Nel 1587, infatti, lo shogun al potere, Hideyoshi Toyotomi, promulgò un editto di espulsione di tutti i predicatori cristiani. Cominciava così la persecuzione: minacce di morte sul rogo a famiglie di giapponesi convertiti, chiese bruciate nei villaggi, proprietà confiscate di autorità. Missionari costretti a lavorare in semi clandestinità. Finché lo shogun dittatore ordinò l’arresto dei missionari e dei loro collaboratori catechisti specialmente nelle città di Kyoto, Osaka e Nagasaki. Paolo Miki fu arrestato nel 1596. E quando fu trasferito in carcere vi trovò altri missionari (alcuni francescani con Pietro Battista), catechisti laici, ragazzi chierichetti giovanissimi (15 anni circa).

Anche in questa circostanza difficile, Paolo emerse con la sua personalità e con la sua santità: diventando per tutti un punto di riferimento, di esempio e di coraggio, di pazienza e di costanza nella sofferenza per la propria fede.
Furono invitati tutti a rinnegare la propria religione ma nessuno lo fece. Furono minacciati a morte, mutilati (taglio di un orecchio), esposti al ludibrio e alla vergogna durante il viaggio di trasferimento, ma nessuno cedette. L’esecuzione doveva avvenire per crocifissione, a Nagasaki. Così erano gli ordini, che furono eseguiti il giorno 5 febbraio. Erano 26 cristiani. E morirono qualcuno pregando in silenzio, qualche altro cantando i salmi, tutti perdonando ad alta voce il loro persecutore e i carnefici che eseguivano gli ordini di morte. Erano i primi martiri cristiani in terra di Giappone. Correva l’anno 1597.

MARIO SCUDU


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Pieni di consolazione e di gioia nel Signore

Dei frati che ci troviamo qui, sei siamo stati presi e per molti giorni tenuti in carcere. La stessa sorte è toccata a 17 nostri terziari giapponesi, a un sacerdote della Compagnia di Gesù (il giapponese padre Paolo Miki) e a due suoi catechisti.
Siamo ora in viaggio in questi freddi mesi invernali... Ciò nonostante, ripieni di consolazione e di gioia nel Signore, andiamo avanti, poiché nella sentenza emessa contro di noi è stato detto che saremo crocifissi per aver predicato il santo Vangelo. Gli altri, perché seguaci del Vangelo.
Per coloro che desiderano morire per Cristo, ora si presenta una buona occasione. Sono persuaso che i fedeli di questo luogo si sentirebbero molto confortati se qui ci fossero i religiosi del nostro Ordine...
Sapevamo che eravamo stati condannati a morte, ma solo a Osaka siamo stati informati che ci dirigevamo a Nagasaki per esservi crocifissi.
La vostra carità ci raccomandi molto al Signore, perché il nostro sacrificio sia a lui gradito...
Fratelli carissimi, aiutateci con le vostre preghiere perché la nostra morte sia accetta alla divina Maestà.
Nel cielo, dove a Dio piacendo speriamo di arrivare, ci ricorderemo di voi...

Da Le Lettere, del missionario francescano spagnolo San Pietro Battista Blasquez, dei giorni 4 gennaio e 2 febbraio 1597, l’ultima scritta tre giorni prima di morire



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Passione di Paolo Miki e compagni

Piantate le croci, fu meraviglioso vedere in tutti quella fortezza alla quale li esortava sia Padre Pasio, sia Padre Rodriguez. Il Padre commissario si mantenne sempre in piedi, quasi senza muoversi, con gli occhi rivolti al cielo. Fratel Martino cantava alcuni salmi per ringraziare la bontà divina, aggiungendo il versetto: «Mi affido alle tue mani» (Sal 30,6). Anche Fratel Francesco Blanco rendeva grazie a Dio ad alta voce. Fratel Gonsalvo a voce altissima recitava il Padre Nostro e l’Ave Maria.
Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiarò ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il Vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso. Quindi soggiunse: «Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c’è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano».
Si rivolse quindi ai compagni, giunti ormai all’estrema battaglia, e cominciò a dir loro parole di incoraggiamento.
Sui volti di tutti appariva una certa letizia, ma in Ludovico era particolare. A lui gridava un altro cristiano che presto sarebbe stato in Paradiso, ed egli, con gesti pieni di gioia, delle dita e di tutto il corpo, attirò su di sé gli sguardi di tutti gli spettatori. Antonio, che stava di fianco a Ludovico, con gli occhi fissi al cielo, dopo aver invocato il santissimo nome di Gesù e di Maria, intonò il salmo Laudate, pueri, Dominum, che aveva imparato a Nagasaki durante l’istruzione catechista; in essa infatti vengono insegnati ai fanciulli alcuni salmi a questo scopo.
Altri infine ripetevano: «Gesù! Maria!», con volto sereno. Alcuni esortavano anche i circostanti ad una degna vita cristiana; con questi e altri gesti simili dimostravano la loro prontezza di fronte alla morte.
Allora quattro carnefici cominciarono ad estrarre dal fodero le spade in uso presso i giapponesi. Alla loro orribile vista tutti i fedeli gridarono: «Gesù! Maria!» e quel che è più, seguì un compassionevole lamento di più persone, che salì fino al cielo. I loro carnefici con un primo e un secondo colpo, in brevissimo tempo, li uccisero.

Dalla Storia del martirio dei santi Paolo Miki e compagni scritta da un autore contemporaneo
(Cap. 14, pp. 109-110; Acta Sanctorum Febr. 1, 769)


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I Martiri di Nagasaki

Appena i condannati a morte scorsero le croci che portavano scritto i loro nomi, s'inginocchiarono davanti ad esse e le baciarono. Ciascuno fu legato vestito a quella che gli era stata assegnata e tutti contemporaneamente furono sollevati in alto, fatti degno spettacolo non solo agli uomini, ma anche agli angeli. Luigi Ibarki era andato in cerca della sua di corsa e vi si era steso sopra, mansueto come un agnello, lietamente gridando: "Paradiso! Paradiso!" Al comando di Azamburo quattro guardie impugnarono le lance, il P. Pierbattista intonò allora il Benedictus e tutti lo terminarono insieme con un coraggio e una pietà che intenerì gli stessi pagani presenti persino alle finestre delle case circostanti. Il piccolo Antonio per conto suo intonò il salmo: "Lodate, fanciulli, il Signore", al quale fecero eco gli altri due suoi compagni fino alla fine, Tommaso e Luigi. Il primo ad essere ucciso da due colpi di lancia fu Filippo Las Casas, l'ultimo il P. Pierbattista.



La prima comunità cattolica del Giappone fu fondata a Kagoshima nel 1549 da S. Francesco Saverio (+1552), giuntovi da Goa (India) con due confratelli e un neofita, il nobile guerriero Anjiro, che aveva ricevuto il battesimo con un suo amico e un suo servo. In due anni il Saverio fondò altre comunità nell'isola Hirado, a Bungo, a Yamagushi, da cui il cristianesimo si diffuse in altri centri, compresa la capitale Miyako, con il favore dei rispettivi daimy o signori feudali. Per oltre quarant'anni il cristianesimo, godendo di ampia libertà, continuò la sua marcia, facilitata dalle conversioni collettive, proprie del sistema feudale, in cui i sudditi seguono facilmente l'esempio dei propri signori. Nel 1587 i cattolici avevano raggiunto la cifra di 205.000 unità, ed erano assistiti da 43 sacerdoti, coadiuvati da altri 73 tra chierici e fratelli, 47 dei quali giapponesi.
Il primo editto di persecuzione contro di loro fu emanato il 24-7-1587 da Toyotomi Hideyoshi (+1598), luogotenente generale dell'imperatore, nonostante avesse ricevuto, di ritorno dalla visita a Roma a papa Gregorio XIII, l'ambasciata di quattro giovani principi giapponesi organizzata dai Gesuiti nel 1582-84. Non pare che egli ne abbia esasperata l'esecuzione, perché la Compagnia di Gesù continuò ad esercitare il suo apostolato con frutto tra il popolo, insieme con i Francescani giunti nel 1593 dalle Filippine, tuttavia pose le premesse per le successive sanguinose persecuzioni. Sembra che fossero diverse le cause del primo bando: il rifiuto da parte dei Gesuiti di una nave per la spedizione militare giapponese in Corea; l'opposizione delle vergini cristiane a diventare le concubine dell'imperatore; il timore, esagerato dai bonzi, dell'influsso straniero in seguito all'aumento dei cattolici. Ma quello che nel 1597 provocò un altro decreto di persecuzione, questa volta generale, furono le fantasticherie con cui il comandante spagnuolo della nave San Filippo, urtò la suscettibilità del dissoluto imperatore Taikosama Hideyoshi, uccisore del suo predecessore, Oda Nobunaga (+1582).
Nel luglio del 1596 la San Filippo, in viaggio da Manila al Messico con 240 passeggeri a bordo, fu sbattuta dalla tempesta sulle coste del Giappone. Nella sosta, il capitano, avendo veduto un mappamondo, si millantò delle terre che nei due emisferi erano soggette al re di Spagna Filippo II. Mashita, ministro dell'imperatore, gli chiese meravigliato come avesse fatto un solo uomo a diventare padrone di mezzo mondo. Il mentitore asserì che i sovrani spagnuoli in un determinato paese prima mandavano i religiosi a convertire il popolo alla fede, e poi facevano intervenire le truppe per completarne la sottomissione. L'imperatore, da principio favorevole ai cristiani, appena ne fu avvertito, s'insospettì dell'apostolato dei gesuiti e dei francescani e, temendo che si affaticassero soltanto per ingrandire i loro sovrani, 1'8-11-1596 ordinò ai governatori di Osaka e Miyako di fare arrestare tutti i religiosi che vi si trovavano.


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I perseguitati riuscirono a disperdersi in tempo per le campagne, fatta eccezione di tre gesuiti, sei francescani e diciassette loro Terziari. I Gesuiti, residenti a Osaka, furono:
1) Giovanni Soan, sacrestano e catechista, nato nell'isola di Goto (Giappone) nel 1578 da genitori cattolici. Era entrato nella Compagnia di Gesù poco tempo prima il suo arresto. 2) Giacomo Kisai, catechista, nato nel 1533 a Bingen (Giappone). Abbandonato dalla moglie, nella casa dei gesuiti esercitava l'ospitalità secondo il costume giapponese. 3) Paolo Miki, alla vigilia della Messa, nato nel 1563 a Giamashivo, nel regno di Ava (Giappone), da nobile famiglia cattolica. Allievo dei Gesuiti dagli undici anni, a ventidue era stato ammesso nella Compagnia di Gesù in cui rifulse per l'osservanza delle regole. Fu il più celebre predicatore gesuita in Giappone.
I francescani furono:
1) P. Pierbattista, Commissario dei Frati Minori, nato a Santo Stefano, presso Avila, nel 1542. Fu in Spagna predicatore, guardiano e lettore di filosofia, poi missionario nel Messico (1581) e nelle Filippine (1583). Inviato da Manila come ambasciatore e missionario in Giappone (1593), fu ben accolto dall'imperatore e poté fondare tre conventi e due ospedali. Dotato del dono dei miracoli, nella festa di Pentecoste guarì una giovanotta lebbrosa. 2) Francesco da San Michele, fratello laico, nato da nobili genitori alla Parilla, nella diocesi di Valenza. Dotato del dono delle lingue e dei miracoli operò in Giappone più conversioni degli altri suoi compagni. 3) Francesco Blanco, sacerdote di vita austera, nato a Orense, nella Galizia. 4) Gonzales Garcia, fratello laico, nato da genitori portoghesi nel 1557 a Vasai (Bombay). Per amore della povertà rinunciò al commercio. Siccome sapeva bene il giapponese fece da interprete al P. Pierbattista nella sua ambasciata a Taicosama. 5) Filippo Las Casas, chierico, nato nel 1572 nel Messico, da genitori spagnuoli. Per i suoi disordini fu cacciato di casa. Pentito, aveva vestito l'abito francescano, ma non perseverò. Dopo aver condotto ancora una vita disordinata, a Manila si fece di nuovo francescano. Giunse a Miyako al momento degli arresti. 6) Martino d'Aguirre, sacerdote, nato nel 1566 nel castello di Vergara presso Pamplona. Aveva esercitato le funzioni di predicatore e di professore di teologia e conosceva bene la lingua giapponese.
I Terziari Francescani, tutti giapponesi, furono: 1) Paolo Suzuki, direttore dell'ospedale di San Giuseppe in Miyako; 2) Gabriele Duizko, convertito da Golzales Garcia, devotissimo dell'Eucarestia e della Passione di Gesù; 3) Giovanni Kuizuya, di Miyako, convcrtito con la moglie e il figlio lo stesso anno del martirio; 4) Tommaso Idanki, di Miyako, soccorritore dei poveri; 5) Francesco Medico, di Miyako, medico di professione e scrittore di opuscoli in difesa della fede; 6) Michele Kozaki, soccorritore dei poveri e dei malati nella propria casa; 7) Tommaso Kozaki, figlio del precedente, quattordicenne, servitore dei muratori nella costruzione della chiesa e del convento di Miyako; 8) Gioacchino Sakiye, di Osaka, convertito dalla moglie, cuoco dell'ospedale e dei frati; 9) Bonaventura di Miyako, fatto battezzare dal padre ancora bambino e cresciuto dalla madre idolatra tra i bonzi per vent'anni; 10) Cosimo Takia, catechista, di nobile famiglia della provincia di Oari; 11) Leone Garasuma, catechista e interprete di nobile famiglia coreana, di vita austerissima, convertito da Cosimo Takia; 12) Mattia di Miyako, che spontaneamente si offrì a sostituire un altro Mattia assente perché provveditore del convento; 13) Antonio di Nagasaki, chierichetto tredicenne, di padre cinese e madre giapponese; 14) Paolo Ibarkhi, di Oari, catechista, fratello uterino di Leone Garasuma; 15) Luigi Ibarkhi, nipote dei precedenti, dodicenne, servitorello del convento; 16) Pietro Sukezico, cristiano di antica data, incaricato dal P. Organtino di Sakai di seguire i prigionieri e assisterli nelle loro necessità; 17) Francesco Fhaelante, di Miyako, calzolaio, che si associò al precedente nella cura dei prigionieri. Questi ultimi due non erano compresi nella sentenza di condanna. Furono aggregati agli altri martiri dal comandante appena seppe che erano anch'essi cristiani, stanco di vederseli tra i piedi.
All'inizio del 1597 gli arrestati furono condotti tutti sulla piazza di Miyako con le mani legate dietro la schiena. Colà fu loro tagliato un pezzo dell'orecchio sinistro, non avendo voluto il governatore Xibungo che, secondo la sentenza dell'imperatore, fossero recise ad essi entrambe le orecchie e mozzato il naso. In seguito i prigionieri, grondanti sangue, furono fatti salire a gruppi di tre sopra delle carrette e condotti come malfattori per le vie della città. Li precedeva una guardia che recava sopra un'asta scritto il motivo della loro condanna: "Perché costoro, venuti dalle Filippine con titolo di ambasciatori, si trattenevano in Miyako predicando la legge dei cristiani, che io proibii gli anni passati rigorosamente, e hanno fabbricato la chiesa e fatto scortesie, comando che siano crocifissi a Nagasaki insieme con i giapponesi che si fecero della loro legge". La popolazione, in un mesto silenzio, mostrò simpatia per quelle vittime innocenti che pregavano insieme e andavano serene alla morte. Soprattutto i tre fanciulli che cantavano ad una voce le orazioni che sapevano, eccitarono la compassione anche dei più insensibili spettatori. Qualche cristiano sollecitò dalle guardie il favore di salire sulle carrette, ma esse non osarono oltrepassare gli ordini che avevano ricevuto.
L'imperatore aveva disposto che il viaggio da Miyako a Nagasaki, di circa 450 miglia, fosse fatto a cavallo e a piedi, sia per intimidire il popolo che per aumentare le sofferenze ai confessori della fede. Lungo il percorso, che durò ventisei giorni al freddo e alla pioggia, le popolazioni si mostrarono ovunque sollecite di procurare loro qualche sollievo. Il 1-2-1597 arrivarono a Korazu. Paolo Miki incontrò un gentiluomo che conosceva molto intimamente, tentò di convertirlo, ma invano. Il comandante della città tentò di fare apostatare due dei fanciulli, Luigi e Antonio, ma non ebbe successo. Vedendo che i prigionieri preferivano morire anziché rinnegare la propria fede, scrisse a Nagasaki, perché fossero innalzate cinquanta croci sulla pubblica piazza.
Alla notizia, diversi cristiani si lusingavano di essere associati ai martiri gloriosi. Dalla città di Fakata il P. Pierbattista e Paolo Miki trovarono la maniera d'inviare due lettere, l'una al P. Gomez. viceprovinciale, e l'altra al P. Antonio di Nagasaki, perché provvedessero ad assicurare loro la recezione dei sacramenti. Furono mandati al loro incontro a Konoki, il 4 febbraio, i Padri Francesco Passio e Giovanni Rodriguez, con il permesso del governatore di Nagasaki, Fazamburo. Il comandante concesse loro di confessare i prigionieri, ma non di celebrare la Messa e comunicarli. Il P. Pierbattista domandò allora perdono ai Gesuiti di non aver seguito con maggior prudenza le prescrizioni di Mons. Martinez, loro vescovo in Giappone, e di essersi attenuto piuttosto alle istruzioni ricevute a Manila.
A Nagasaki, frattanto, dove i portoghesi avevano manifestato il loro malumore e il governatore temeva una sollevazione della popolazione, furono fatte trasportare soltanto ventisei croci sopra una collina. Il 5 febbraio i prigionieri giunsero per mare a un piccolo molo non lontano dall'eremitaggio di San Lazzaro. Vi si recarono a piedi e là i Padri Gesuiti comunicarono loro che si avvicinava l'ora dell'esecuzione. Si confessarono ancora una volta e poi si diressero verso la collina in faccia al mare, dove, in un recinto, erano state erette le croci. Al loro passaggio i cristiani si prostrarono raccomandandosi alle loro preghiere. Tra la moltitudine accorsa molti piangevano. Di tanto in tanto si udivano dei pagani esclamare: "Che delitti hanno commesso questi stranieri? Qua dovevano finire tanti onori resi loro a Taikosama in Nangoia?". Commovente fu l'incontro dei genitori e dei parenti con i condannati alla crocifissione. Antonio di Nagasaki rispose ai suoi, che gli promettevano grandi beni se avesse rinunciato alla fede cattolica: "Le cose che voi mi promettete sono tutte temporali: quelle che mi promette il mio Gesù sono eterne".
Appena i condannati a morte scorsero le croci che portavano scritto i loro nomi, s'inginocchiarono davanti ad esse e le baciarono. Ciascuno fu legato vestito a quella che gli era stata assegnata e tutti contemporaneamente furono sollevati in alto, fatti degno spettacolo non solo agli uomini, ma anche agli angeli. Luigi Ibarki era andato in cerca della sua di corsa e vi si era steso sopra, mansueto come un agnello, lietamente gridando: "Paradiso! Paradiso!" Al comando di Azamburo quattro guardie impugnarono le lance, il P. Pierbattista intonò allora il Benedictus e tutti lo terminarono insieme con un coraggio e una pietà che intenerì gli stessi pagani presenti persino alle finestre delle case circostanti. Il piccolo Antonio per conto suo intonò il salmo: "Lodate, fanciulli, il Signore", al quale fecero eco gli altri due suoi compagni fino alla fine, Tommaso e Luigi. Il primo ad essere ucciso da due colpi di lancia fu Filippo Las Casas, l'ultimo il P. Pierbattista. Costui non era ancora morto quando una donna pagana, priva della loquela, gli fu condotta dinanzi. A contatto della croce da cui egli pendeva, ella riacquistò ad un tratto la favella. Credente in Dio, ella medesima gli chiese il battesimo, che il martire gli amministrò con la mano lasciatagli libera dai lacci che stringevano al patibolo. Paolo Miki tra i tormenti predicò fino all'ultimo con una straordinaria eloquenza e terminò con una fervente preghiera per i suoi carnefici e la conversione di tutti i giapponesi.
Quando tutti furono trafitti, i cristiani fecero irruzione nel recinto per soddisfare la loro devozione e raccogliere con pannolini il sangue di quei martiri, che Urbano VIII beatificò nel 1627 e Pio IX canonizzò 1'8-6-1862.
Per oltre sessanta giorni gli uccelli di rapina rispettarono i loro corpi spiranti un fragrante odore percepito dagli stessi pagani. Quello del P. Pierbattista fu più volte visto discendere dalla croce, recarsi nella chiesa di Nagasaki e celebrare la Messa servita in veste bianca da Antonio tra il canto di schiere angeliche. Per invitare alla fede i pagani, Dio permise che attorno al capo dei martiri apparisse più volte un'aureola di luce e che dal cielo scendessero su ciascuno di loro globi di fuoco. Testimoni oculari affermarono pure che il corpo di P. Pierbattista, sessantadue giorni dopo la morte, si mosse alla presenza d'innumerevoli giapponesi e che dalle sue ferite sgorgò, come già al terzo giorno dopo la morte, copiosissimo sangue.

Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 104-109.
http://www.edizionisegno.it/


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DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
DURANTE LA VISITA ALLA COLLINA DEI MARTIRI

Nagasaki (Giappone), 26 febbraio 1981

Cari amici,

1. Oggi voglio essere uno dei tanti pellegrini che vengono qui alla collina dei Martiri in Nagasaki, nel luogo dove i cristiani, con il sacrificio della loto vita, sigillarono la loro fedeltà a Cristo. Essi hanno trionfato sulla morte con un atto insuperabile di lode al Signore. In atteggiamento di preghiera davanti al monumento dei Martiri, vorrei penetrare nel mistero della loro vita, vorrei che essi parlassero a me e a tutta la Chiesa intera, vorrei ascoltare il loro messaggio ancora vivo dopo centinaia di anni. Come Cristo, essi furono condotti in un luogo dove venivano giustiziati i criminali comuni. Come Cristo, donarono la loro vita affinché tutti noi potessimo credere nell’amore del Padre, nella missione salvifica del Figlio, nella infallibile guida dello Spirito Santo. A Nishizaka, il 5 febbraio 1597, ventisei Martiri testimoniarono la potenza della Croce; erano i primi di una ricca messe di Martiri, perché molti, successivamente, avrebbero consacrato questa terra con la loro sofferenza e morte.

2. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

Sono morti dei cristiani in Nagasaki, ma la Chiesa in Nagasaki non è morta. Essa doveva andare sotto terra e il messaggio cristiano fu trasmesso dai genitori ai figli, fin quando la Chiesa non ritornò alla luce. Radicata in questa collina dei Martiri, la Chiesa di Nagasaki sarebbe cresciuta e fiorita, fino a diventare un esempio di fede e di fedeltà per tutti i cristiani, una espressione di speranza fondata in Cristo Risorto.

3. Oggi io vengo in questo luogo, come pellegrino, per ringraziare Dio per la vita e la morte dei Martiri di Nagasaki – per quei ventisei, e tutti gli altri che li hanno seguiti – compresi gli eroi della grazia di Cristo recentemente beatificati. Ringrazio Dio per la vita di tutti coloro, ovunque essi siano, che soffrono per la loro fede in Dio, per la loro lealtà a Cristo Salvatore, per la loro fedeltà alla Chiesa. Ogni epoca – passata, presente e futura – produce, per l’edificazione di tutti, brillanti esempi della potenza che è in Gesù Cristo.

Oggi vengo alla collina dei Martiri per testimoniare il primato dell’amore nel mondo. In questo santo luogo gente di ogni condizione diede prova che l’amore è più forte della morte. Essi incarnarono l’essenza del messaggio cristiano, lo spirito delle Beatitudini, così che chiunque rivolga lo sguardo su di loro possa essere ispirato a lasciar modellare la sua vita dall’amore disinteressato di Dio e dall’amore del prossimo.

Oggi, Io, Giovanni Paolo II, Vescovo di Roma e Successore di Pietro, vengo a Nishizaka per pregare affinché questo monumento possa parlare all’uomo moderno come le croci su questa collina parlarono a coloro che furono i testimoni oculari secoli fa. Possa questo monumento parlare al mondo per sempre, dell’amore, parlare di Cristo.













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