DI RICCARDO C ASCIOLI C he il mondo stia invecchiando non è una novità. Non lo è neppure il fatto che l’invecchiamento porti con sé una serie di conseguenze economiche e sociali negative. Meno noto è che questo processo non riguarda soltanto le nazioni sviluppate, Europa in testa. Riguarda tutto il mondo, e in un modo tutto particolare i Paesi in via di sviluppo. È qui infatti che il processo di invecchiamento procede a un ritmo accelerato e le conseguenze per questi Paesi saranno drammatiche. Lo testimoniano i dati contenuti nell’ultimo Rapporto dell’Onu sull’invecchiamento della popolazione ( World Population Ageing 2009). Se a livello mondiale il processo di invecchiamento della popolazione «è senza precedenti nella storia dell’umanità» e «sta colpendo quasi tutti i Paesi del mondo», «il processo di invecchiamento della popolazione è più veloce nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi sviluppati ». Tanto per dare un’idea, gli anziani che nel 1950 vivevano nei Paesi poveri erano il 54% del totale, oggi sono il 64%. E nel 2050 costituiranno l’80%. Inoltre oggi nei Paesi sviluppati circa il 20% della popolazione supera i 60 anni, percentuale che arriverà al 33 nel 2050. Per i Paesi poveri invece gli anziani rappresentano oggi appena l’8 per cento della popolazione, ma nel 2050 raggiungeranno il 20, in pratica l’attuale situazione delle nazioni ricche. Il problema è che i Paesi in via di sviluppo «avranno meno tempo per adattarsi alle conseguenze dell’invecchiamento». Non solo: questo processo per loro «avviene a più bassi livelli di sviluppo socio-economico rispetto a quanto vissuto dai Paesi sviluppati». Il che significa ancora maggiori problemi per la mancanza di una rete assistenziale e previdenziale in grado di sostenere le fasce di popolazione più in difficoltà. Esemplare la questione pensionistica: nelle nazioni povere non solo l’età pensionabile è mediamente più alta che in quelle sviluppate, ma gli anziani sono spesso costretti a lavorare per poter vivere, vista l’esiguità o la mancanza delle pensioni. Così, mentre nei Paesi sviluppati gli ultrasessantacinquenni attivi economicamente sono il 14%, in quelli in via di sviluppo questa percentuale cresce fino al 35. Anche il dato sull’alfabetizzazione spiega le minori opportunità economiche e i disagi sociali: mentre nei primi l’alfabetizzazione è praticamente universale, nei secondi la metà che oggi supera i 65 anni è analfabeta. «Soltanto il 40% delle donne e il 65% degli uomini oltre i 65 anni hanno almeno la capacità elementare di scrivere e leggere», recita il rapporto. Un altro dato interessante riguarda «il doppio fardello demografico» di cui soffrono le zone rurali rispetto a quelle urbane (delle prima c’è una maggiore concentrazione nei Paesi poveri). Si tratta del numero più alto sia di bambini sia di anziani in rapporto alle persone in età produttiva, coloro che lavorando sostengono le altre due categorie. Questo è l’esito sia di un più alto tasso di fertilità nelle zone rurali, sia di una maggiore migrazione della forza lavoro verso le aree urbane. E anche «l’accesso ai servizi sociali tende ad essere più limitato nelle aree rurali e i tassi di povertà sono più alti». La questione dell’emigrazione diventa un ulteriore fattore aggravante sia nell’invecchiamento della popolazione sia nelle sue conseguenze, perché priva le nazioni in via di sviluppo della popolazione in età produttiva chiamata a sostenere anziani e bambini. Un elemento importante, e che può apparire sorprendente, è che un forte contributo alla velocità nell’invecchiamento della popolazione viene dal drastico calo dei tassi di fertilità, anche per i Paesi in via di sviluppo. Il perdurare di tale fenomeno in Occidente è noto: dal 1950-55 al 2005-2010 i Paesi più sviluppati hanno visto il tasso di fertilità scendere mediamente da 2,8 a 1,6 figli per donna. Ma nello stesso periodo il Terzo Mondo è passato da 6 a 2,7 figli per donna, tenendo conto che il calo si è registrato a partire dagli anni ’70 del ventesimo secolo. Si deve peraltro tenere conto che la situazione non è omogenea: mentre in alcune regioni dell’Africa il tasso di fertilità è ancora di 5,2, nell’Asia orientale, nel Sud-Est asiatico, in America centrale e meridionale esso è sceso sotto quota 2,5. Attualmente ben 31 Paesi in via di sviluppo hanno un tasso di fertilità al di sotto del livello di sostituzione, che è di 2,1 figli per donna. Questi dati dimostrano quanto sia stata miope la politica delle agenzie dell’Onu che negli ultimi decenni hanno abbondantemente finanziato i programmi di controllo delle nascite nel Terzo mondo, contribuendo all’accelerazione dell’invecchiamento della popolazione. Oltretutto, fa notare Susan Yoshihara, vice presidente del Catholic Family and Human Rignts Institute (un’organizzazione non governativa accreditata all’Onu), «la cosa peggiore è che coloro che promuovono la diminuzione delle nascite spacciandola per diritti a favore delle donne, sono quelli che più le danneggiano. Perché vivendo più a lungo degli uomini e costituendo perciò la maggior parte della popolazione anziana, le donne avranno bisogno di più figli per essere sostenute nell’anzianità. Il rapporto nota infatti che le persone anziane che vivono da sole rischiano maggiormente l’isolamento sociale e la povertà economica e necessitano di un supporto speciale». Inoltre il rapporto mette in evidenza, prosegue la Yoshihara, «che le donne sono meno propense a ricevere servizi sociali dallo Stato, per non parlare della crisi economica e finanziaria globale del 2007-2008 che ha portato con sé forti riduzioni nel valore dei fondi pensione in molti Paesi del mondo». Purtroppo né le agenzie dell’Onu né i principali Paesi occidentali che 'spingono' per le campagne di controllo delle nascite sembrano dare segni di ravvedimento davanti all’evidenza dei numeri. I Paesi in via di sviluppo avranno maggiori problemi per la mancanza di una rete assistenziale e previdenziale in grado di sostenere le fasce più in difficoltà |