Assieme al filosofo Ciancio e al teologo Salmann giovedì sarà a Bergamo per discutere dell'«Insignificanza di Dio?»
Carlo Dignola
Sergio Belardinelli insegna Sociologia dei processi culturali ed educativi all'Università di Bologna. Giovedì sera (ore 20,30) prenderà parte a una tavola rotonda organizzata al Centro congressi Giovanni XXIII dal Centro universitario Sant'Andrea e dall'Istituto superiore di Scienze religiose di Bergamo. Con lui dialogheranno il filosofo Claudio Ciancio, dell'Università del Piemonte orientale, e il teologo Elmar Salmann della Gregoriana di Roma. Il titolo dell'incontro è un po' provocatorio, soprattutto se si fa finta di non aver visto quel punto di domanda messo alla fine: «Insignificanza di Dio?».
Belardinelli è un marchigiano di formazione mitteleuropea, che ha collaborato con il cardinale Camillo Ruini al Progetto culturale della Cei. Figlio di una madre cattolica ma anche di un padre artigiano di convinta fede repubblicana, vive tutt'ora a Pergola, nel Pesarese, dove – come ha notato Il Foglio – «pullulano le lapidi dell'antico Stato pontificio ma nella piazza principale troneggia ancora un sapido memento anticlericale» in cui si legge: «Prima nelle Marche/ aborrendo il potere temporale dei Papi/ Pergola insorse». E anche lui resta un laico vero, di quelli a cui garbano più le idee – cristiane o meno che siano – che le parrocchie intellettuali. Ha appena pubblicato un libro interessante nel quale sostiene una tesi anch'essa provocatoria: che il mondo cattolico dovrebbe riscoprire i pensatori, spesso atei, del '700 francese e tedesco. Ne L'altro illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità (Rubbettino, pp. 192, euro 19) Belardinelli critica il concetto di laicità dello Stato intesa in senso anticristiano, ma è convinto anche che la Chiesa, dal canto suo, si sia un po' scordata dei preambula fidei, che abbia spesso saltato il piano del ragionare umano pensando di passare direttamente per i Cieli.
Professore, lei sostiene che oggi dovremmo reimparare dai philosophes ad amare la verità in tutta la sua forza.
«È quello che ha detto Benedetto XVI nel famoso discorso che fece a Ratisbona, sul quale si è molto discusso per altri motivi…».
Islam, roghi di bandiere in piazza... Pochi però, anche nel mondo cattolico, lo hanno letto.
«Benedetto XVI a Regensburg accennava al fatto che esiste una parte dell'Illuminismo che va assolutamente valorizzata: quella che ha piena la fiducia nella ragione. L'Illuminismo è vissuto del pathos della verità. La cosa drammatica e sconfortante è vedere che gli illuministi di oggi sono diventati tutti i nihilisti e relativisti. Senza verità il rischio è che si confondano pluralismo e relativismo, diritti e desideri, tolleranza e indifferenza, e che il tanto sbandierato dialogo tra culture si trasformi in una sorta di rituale astratto dove tutti hanno le stesse ragioni, come vorrebbe l'ideologia del multiculturalismo. Un luogo comune abbastanza diffuso vuole che il relativismo multiculturalista sia il solo modo per fronteggiare il confronto con culture diverse senza cedere al fanatismo e alla violenza. Si tratta di un gravissimo errore, il quale, oltre a danneggiare noi occidentali, danneggerà anche gli "altri", alimentando proprio quel fanatismo che vorremmo evitare».
Nel suo saggio lei sottolinea il fatto che il relativismo ha un effetto pericoloso anche sul piano politico. La democrazia, senza un'idea della verità, si sta riducendo a una chiacchiera vuota.
«Uno dei punti più importanti del mio libro credo sia proprio questo sforzo di autocomprensione della nostra democrazia. Anche al fondo della politica oggi si è insinuata una pessima filosofia di tipo relativista. È come se ci fossimo a poco a poco convinti che la democrazia è tale nella misura in cui rinuncia all'idea della verità e si affida esclusivamente alle logiche della maggioranza e della minoranza. Ora, in democrazia il fattore maggioranza è un aspetto fondamentale, è ciò che legittima la decisione. Però anche Jürgen Habermas nei suoi ultimi scritti dice che la democrazia è una forma di governo "esigente" e "sensibile alla verità". Questo secondo me è fondamentale: il fatto che noi decidiamo a maggioranza non vuol dire affatto che la verità non esista, che tutti gli argomenti e tutte le decisioni abbiano lo stesso valore. Significa semplicemente che in omaggio a un criterio antropologico importante, la dignità degli uomini, abbiamo finalmente capito che su questo piano è molto meglio un errore condiviso che una verità imposta con la violenza. E questo "finalmente" vale anche per la Chiesa, che ci ha messo un po' di tempo a maturare certe convinzioni:in un contesto di uomini liberi e uguali nessuno può avere la pretesa di imporre ciò che è giusto conto la volontà degli interessati».
La volontà della maggioranza è il metodo di una democrazia, non il suo contenuto.
«Quando in Parlamento si discute una legge, cosa si fa? Si adducono argomenti, si dice: questo è meglio di quest'altro. Questo significa che abbiamo fiducia che alcuni discorsi valgano più, o meno, di altri. Poi, siccome la realtà – come si dice – preme, a un certo punto si chiude la discussione e si alzano le mani: e la maggioranza vince. Se ci pensiamo bene, la buona pratica democratica tiene insieme le due dimensioni».
Non è una questione teorica, o «religiosa»: censurare la verità rischia di diventare un punto di debolezza per il nostro sistema sociale.
«Gravissimo, perché ci fa perdere di vista un pericolo: quello che le maggioranze si mettano d'accordo anche sulle cose più obbrobriose. La maggioranza non rappresenta come tale ciò che è vero e ciò che è giusto, ma semplicemente un criterio di legittimità della decisione. Sono due cose molto diverse. Lungi dal costituire il fondamento di una cultura liberale e democratica, il relativismo ne costituisce la malattia, l'anticamera del più radicale funzionalismo».
Se la democrazia si riduce a un battibecco i cui argomenti scadono sempre più in basso, esistono dei rischi. Come ha detto venerdì Ian Buruma su Repubblica, qualcuno potrebbe cominciare a pensare che un sistema più autoritario ma più efficiente – come ad esempio quello cinese – sia migliore del nostro. A Sanremo l'inno di Emanuele Filiberto di Savoia alla «tradizione» di un'Italia più pulita e più monarchica è stato protagonista di un clamoroso repêchage...
«La crisi del nostro sistema, purtroppo, mi sembra abbastanza avanzata: stanno venendo meno i criteri più elementari di serietà. È tragico, ma rischiamo di saltare per aria per un eccesso del ridicolo. Il fatto che si parli così spesso di mutande, prima che segnalare una certa immoralità di chi governa, dice la fragilità del contesto culturale entro il quale queste cose si discutono».
Nel suo libro lei mette in luce due derive alle quali siamo di fronte: quella del laicismo più radicale, che rifiuta la tradizione cattolica, e però anche una tradizione...
«Clericale, che rifiuta in blocco la tradizione moderna. Esiste un clericalismo cattolico che non accetta il mondo di oggi, e questo, dal mio punto di vista, è un danno ancora più grave. Se noi conduciamo le nostre battaglie pensando che la verità e il bene fossero tutti nel bel mondo di ieri – che bello non era affatto – siamo sconfitti in partenza. Anche l'età moderna ci ha insegnato qualcosa. La Chiesa stessa ha saputo imparare molto da essa. Tanto è vero che oggi, paradossalmente, in questi mondi stracchi e ammortiti a difendere la libertà e l'autonomia delle persone sembra rimasta solo la Chiesa cattolica».
Benedetto XVI a lei non appare affatto un Pontefice conservatore, mi sembra di capire.
«Per me questo Papa e Giovanni Paolo II che l'ha preceduto sono due grandi della cultura del nostro tempo.
La figura intellettuale di Benedetto XVI è gigantesca. Le cose che ha detto sul dialogo con il mondo di oggi, sulla capacità che abbiamo e che dobbiamo acquisire di salvare ciò che è buono nella cultura del nostro tempo sono fondamentali.
In una lettera che ha scritto ai vescovi nel marzo scorso il Papa ha usato un'espressione molto bella: "Dobbiamo rendere Dio di nuovo presente in questo mondo".
È il compito che raccomanda a ogni cristiano. Forse ci siamo dilungati troppo sulle funzioni sociali, morali, pragmatiche della fede e abbiamo trascurato un po' la sostanza: nostro Signore è venuto per la salvezza – non per la salute – di tutti. Questo Papa insiste sulla necessità che Dio torni a parlare al cuore degli uomini, nella consapevolezza che esso è sempre più indurito dal contesto nel quale ci troviamo».
Lei a Bergamo viene a parlare non dell'assenza o della «morte di Dio», di cui si discute da decenni, ma della sua «insignificanza».
«Del fatto che se ne possa benissimo fare a meno».
Molti pensano che, se anche c'è, Dio con le nostre faccende non c'entra.
«Il tema dell'insignificanza di Dio, io credo, ormai passa necessariamente attraverso la tragedia dell'insignificanza dell'uomo. È con questa che, ci piaccia o no, bisogna fare i conti. Solo affrontando seriamente la crisi dell'uomo c'è qualche speranza che si recuperi anche quella dimensione ineludibile che lo muove verso Dio. Cancellare Dio significa cancellare anche l'uomo, l'uno vive dell'altro. Una mente visionaria e folle come quella di Nietzsche questo l'aveva visto con grande lucidità già cent'anni fa. Dio ormai nel mondo contemporaneo diventa plausibile solo attraverso la tragedia. D'altra parte è significativo, perché la tragedia è un genere letterario che ha bisogno della realtà. Non si dà effetto tragico se non c'è un forte senso concreto. Non è un caso secondo me: l'insignificanza dell'uomo oggi è soprattutto legata all'insignificanza della realtà. Abbiamo depotenziato completamente il reale, stiamo virtualizzando tutto, gli uomini, le cose, anche l'idea di Dio. Occorre invertire la rotta. Per farlo, però, bisogna calarsi fino il fondo nel maelström. Non possiamo evitare la "discesa agli inferi"».
E questo, ci ha spiegato René Girard – un autore che lei cita spesso – dice qualcosa anche sull'essenza del cristianesimo: vivere nel XXI secolo forse ci permette di capire di più l'inizio.
«Sì: oggi vediamo di più la "crucialità" dell'esistenza».
Dunque la sfida del nostro tempo è anche interessante.
«Ma certo. C'è un lato esaltante in essa. Come in tutti i secoli: la pratica cristiana è affascinante proprio per la capacità che ha di stare ogni volta nel cuore degli uomini, in tutte le condizioni nelle quali la storia li chiama a vivere».
Nel cuore del tempo.
«Valeva per l'uomo medievale, per l'uomo moderno, e vale anche oggi. Di sicuro – e questa in un certo senso è una cosa incredibile – quella di Cristo è una Parola che è per noi. È sempre per noi. Non abbiamo neppure bisogno di tante mediazioni, siamo tutti attrezzati quanto basta. Ognuno deve stare sul punto in cui il suo tempo lo sfida».
Cristiano e laico, sotto quest'aspetto si trovano sulla stessa sponda.
«Assolutamente».
© Copyright Eco di Bergamo, 21 febbraio 2010