di Eliana Versace "Non so perché, quando leggo una biografia (di Leonardo, di Goethe o di santa Teresa d'Avila) mi chiedo sempre una cosa: chi era la loro madre, che persona era, che parole diceva, quanto erano profondi i suoi silenzi?". Così, si esprimeva Jean Guitton nell'introdurre i suoi Dialoghi con Paolo vi, conversazioni e ricordi dal tratto confidenziale, raccolti dal filosofo francese nel corso degli anni e pubblicati nel 1967.
A margine di un convegno di studi organizzato a Modena per ricordare la figura di Ermanno Gorrieri, alcuni noti storici italiani hanno espresso una considerazione analoga a quella confidata da Guitton, sollecitando di conseguenza gli studiosi a non trascurare ma anzi, al contrario, ad approfondire nei loro studi biografici il rapporto che lega gli uomini di fede alle proprie madri. Partendo da un assunto condivisibile e ben motivato, si asseriva infatti che la fede, nel corso dei secoli è stata trasmessa quasi sempre per via femminile, dunque è proprio in quello speciale e primario legame che si stabilisce tra ogni uomo e sua madre, che andrebbero rintracciati i germogli della più intima spiritualità di ciascuno.
Una tale ricerca, che può avere una utile e felice valenza storiografica nel ricostruire le vicende biografiche dei personaggi pubblici, assume un significato più profondo e quasi imprescindibile se si vuole indagare il sorgere e maturare d'una vocazione religiosa. In questo Anno sacerdotale, indetto da Benedetto XVI nella memoria del curato d'Ars, numerosi testi, articoli e libri hanno riproposto appunto l'umile figura del parroco francese. Alla luce delle precedenti osservazioni potremmo allora chiederci: in che contesto familiare è maturata la sua fede? E, ancora - andando più a fondo per cercare di rispondere a quelle domande che restano solitamente inevase nelle biografie tradizionali - chi era la madre del curato d'Ars?
Giovanni Maria Vianney ci parla indirettamente di lei quando, rivolgendosi ai suoi parrocchiani constatava - con le consuete parole semplici che hanno reso grande il suo ministero - come "la virtù passa dal cuore della madre nel cuore dei figli". Di sua madre, Maria Beluse, moglie del campagnolo Matteo Vianney, sappiamo poco. L'abate Alfred Monnin, principale biografo del curato d'Ars, nei suoi scritti ci ha lasciato un'immagine altamente simbolica di questa donna sconosciuta presentandocela - con un evidente intento pedagogico - accostata al marito in un audace paragone con santa Elisabetta, la madre del Battista. Scriveva Monnin che, "come Zaccaria ed Elisabetta", i coniugi Vianney, "due giusti davanti al Signore", camminavano fedelmente e senza macchia nelle sue vie. Così che dei patriarchi avevano avuto la benedizione e, in dieci anni, il Cielo aveva dato loro una corona di sei figliuoli".
In Italia venne intitolato alla signora Vianney il capitolo di un volumetto, Madri di Santi, ormai quasi introvabile, pubblicato esattamente ottant'anni fa dall'Unione delle donne cattoliche italiane e scritto, con uno stile devozionale e una prosa edificante dal chiaro fine didascalico, da Albina Henrion.
Tra i ritratti delle donne che avevano guidato i figli alla fede, accompagnandoli verso una vocazione religiosa che sarebbe stata infine glorificata dalla santità, oltre al principale e fulgido esempio di Monica e Agostino, con cui si apriva il libro, troviamo dunque diverse pagine dedicate alla devota contadina francese Maria Vianney. Sappiamo che il suo quartogenito, battezzato lo stesso giorno della nascita, l'8 maggio del 1786, nella piccola chiesetta di Dardilly fu affidato dalla madre, già con la pia scelta del nome, alla protezione congiunta di san Giovanni Battista e della Vergine Maria. Dalla mamma, il piccolo, pur restando quasi completamente analfabeta fino all'età di 17 anni, aveva appreso, quasi respirandola nella vita familiare, quella consuetudine alla preghiera assidua e quotidiana che sarà forza e conforto in tutta la sua vita. "Dopo Dio - dirà il curato d'Ars, soffermandosi sul dono della preghiera - esso è l'opera di mia madre". Perché i bambini - aggiungeva con sapienza - "fanno volentieri ciò che vedono fare". E allora, ripensando alla straordinaria virtù di carità, all'inebriante amore verso Dio e verso il prossimo che animò il santo curato in ogni momento della sua missione sacerdotale, non stupisce scoprire come presso la casa dei coniugi Vianney, ancor prima della nascita di Giovanni Maria, avessero spesso trovato accoglienza e rifugio, nei freddi mesi invernali, numerosi poveri e bisognosi, alloggiati nel solaio della modesta dimora, assistiti dalla signora Vianney e ospitati alla stessa mensa della famiglia. Viene riferito che anche Benedetto Labre, il santo "vagabondo di Dio" che, peregrinando, predicava il Vangelo nella più assoluta povertà, sia passato dalla casa dei Vianney. E, "dovunque passano i santi - avrebbe detto un giorno il curato d'Ars - Iddio passa con loro".
Affrontando molteplici difficoltà e superando l'iniziale scetticismo del marito, la signora Vianney incoraggiò il figlio nella maturazione della sua scelta sacerdotale, ottenendo infine il consenso del coniuge affinché il ragazzo, inviato nella vicina Ecully, potesse acquisire dall'abate Bailey la necessaria istruzione, che l'umile famiglia non aveva potuto offrirgli. All'esempio della madre - morta nel febbraio del 1811 - che non fece in tempo ad assistere all'ordinazione del figlio, Giovanni Maria Vianney ricorrerà spesso nell'instancabile e caritatevole esercizio del suo ministero e "ripensando a sua madre - viene narrato - piangeva di tenerezza".
Diversi aspetti di similitudine alla vicenda del curato d'Ars presenta la biografia di Pio x, intimamente devoto al parroco francese, che ne volle la beatificazione. Papa Sarto, che era stato anch'egli, da giovane, un semplice curato nel piccolo borgo veneto di Salzano, elevò Giovanni Maria Vianney alla gloria degli altari l'8 gennaio del 1905, nella basilica di San Pietro, riconoscendolo, per primo, come modello e riferimento per i sacerdoti.
Da sua madre, Margherita Sanson, quel Papa, Giuseppe Sarto, non aveva ereditato solo un'impressionante somiglianza fisica. Margherita, un'illetterata cucitrice della campagna veneta, avrebbe trasmesso al figlio, il futuro san Pio x, anche un'intensa educazione spirituale. E il quarantenne Giovanni Sarto, padre del Pontefice, che aveva sposato la moglie - di oltre vent'anni più giovane di lui - a un'età che un tempo era considerata matura, aveva accolto i suoi undici figli - l'ultimo dei quali arrivato quando l'uomo era già sessantenne - acconsentendo fiducioso ai misteriosi e provvidenziali disegni divini. Ricorderà un amico della famiglia: "La giornata si terminava con la preghiera e l'esame di coscienza in famiglia; ciascuno confessava i suoi torti e domandava perdono a colui che aveva offeso; usanza ammirabile che esisteva nella famiglia Sarto, come nelle primitive famiglie del cristianesimo" - aggiungendo ancora - "perciò è forse da meravigliarsi che un'anima santa sia uscita di là?". Con enorme sacrificio, dopo la morte del marito, fu Margherita a farsi carico della numerosa famiglia, che viveva in una situazione d'estrema ristrettezza economica, riprendendo il suo vecchio lavoro di cucitrice. Nonostante ciò, Margherita Sanson Sarto insieme ai suoi figli "al mattino era in piedi alle cinque, faceva lunghe preghiere, assisteva alla santa Messa, si comunicava, recitava l'ufficio della Vergine, leggeva in ginocchio un capitolo del Nuovo Testamento". La vocazione sacerdotale del figlio venne dunque accolta dalla donna come una grazia che il Signore benignamente le aveva accordato in risposta alle sue preghiere. A Margherita fu anche concesso il tempo e la gioia di vedere il suo secondogenito servire la Chiesa come vescovo di Mantova e poi ancora nella veste di patriarca di Venezia. Un vecchio aneddoto - tramandato dagli antichi abitanti di Riese, il paese natale del futuro Papa, e che forse val la pena ricordare perché ci rende esplicita quella spiritualità semplice e concretamente vissuta di cui s'era nutrito Giuseppe Sarto - narra che quando suo figlio, appena nominato vescovo di Mantova, volle andare a visitare e ringraziare l'anziana madre inferma, Margherita, dopo averne baciato l'anello episcopale gli mostrò la sua fede nuziale esclamando "È molto bello il tuo anello, Giuseppe; ma tu non l'avresti se io non avessi questo". Il matrimonio tardivo, e provvidenziale, di Giovanni Sarto con la sua giovane sposa, vissuto con una fede incrollabile e quasi biblica, tra fatiche e privazioni, avrebbe infatti donato alla Chiesa un Pontefice e un santo. Ma questo Margherita Sanson non poteva saperlo. "La madre di un Papa non ha mai saputo di esserlo" - osserverà, molti anni dopo, Paolo vi pensando alla mamma, la bresciana Giuditta Alghisi, con espressioni di grande tenerezza - "ma suo figlio lo sa. E soffre di non poterle dire la sua riconoscenza, di non poterlesi inginocchiare davanti, per ricevere una benedizione". Rispondendo alla curiosità di Guitton, Papa Montini ammetteva un impagabile debito di gratitudine nei confronti di sua madre. "Credo di dover molto di quel che sono a mia madre, al suo modo di pensare e di sentire". E, ancora, in un altro colloquio raccontava: "A mia madre devo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione che è preghiera, della preghiera che è meditazione. Tutta la sua vita è stata un dono". E continuava, ricordando i genitori, indispensabili l'uno all'altro, che morirono entrambi nel 1943, a pochi mesi di distanza: "All'amore di mio padre e di mia madre, alla loro unione devo l'amore di Dio e l'amore degli uomini". Non stupisce allora che sia stato un Papa, e proprio Paolo vi, nella sua ultima enciclica - la tanto contestata Humanae vitae - a trovare le parole più belle e veritiere per parlare dell'amore tra un uomo e una donna, di quell'"amore totale" che unisce in maniera esclusiva marito e moglie e che è realmente "una forma tutta speciale di amicizia personale", un amore "pienamente umano", e quindi insieme "sensibile e spirituale".
Ed è, infine, ancora un dialogo di Paolo vi a offrirci una prima, essenziale, risposta agli interrogativi che hanno mosso queste: "Noi - ci viene detto - viviamo tutti più o meno (lo ammetteva anche Renan) di quello che una donna ci ha insegnato nella dimensione del sublime. E i figli lo sentono più delle figlie, a causa della diversità delle nature. E i figli preti ancora più fortemente, perché sono votati alla solitudine". Ma, alla luce delle significative esperienze qui richiamate, anche nella più intima e insondabile maturazione d'una vocazione sacerdotale - e in ogni altra missione che chiunque, laico o religioso, è misteriosamente chiamato dalla Volontà divina a compiere, al servizio di Cristo e della sua Chiesa - possiamo cogliere l'eco delle parole di Gesù, raccolte da Giovanni, che risuonano nel nostro animo come un'imperitura e feconda promessa di fedeltà: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Giovanni, 15, 16).
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2010)