PIERANGELO SEQUERI
Un crimine insopportabilmente odioso. Un peccato gravissimo, che va a ferire il midollo della persona – così delicata, ancora, nei piccoli dell’uomo. Il Papa, per tutta la Chiesa – come deve essere – va diritto al punto. L’abuso sessuale di minori devasta un’esistenza: anzi, molte. Compiuto da ecclesiastici, religiosi, cristiani, tradisce orribilmente, il patto fiduciale iscritto nel rapporto educativo. Ferendo la credibilità della Chiesa, trapassa da parte a parte tutti i credenti che, nel mondo, si svenano per accogliere e sostenere, nel puro amore dell’evangelo, milioni di vite sulle quali si accaniscono, già di loro strazianti, le brutalità della storia. Quelle che i potenti delle nazioni non sanno o non vogliono trattenere. Non dovete essere come loro, dice Gesù ai suoi, nell’ultima cena (Luca 22, 25-26).
Tutti coloro che credono spassionatamente in questo vangelo – e sono innumerevoli – ricevono, in questi giorni, dal Papa cattolico, una severa lezione di stile. Ma forse non solo loro. Non sono per soli ecclesiastici e credenti, mi sembra, questa parola e questo gesto esemplare del Papa. Qui, comunque, vorrei metterne in luce due tratti essenziali.
Il primo fissa un limite – doveroso – per il vischioso rimando (così diffuso, a copertura del declino dell’etica) alle condizioni e ai condizionamenti: il male del mondo, la società moderna, i meccanismi della psiche, le infanzie difficili, le storie sfortunate, le privazioni affettive. Sobrietà rigorosa e ferma, invece: e che sia benedetta mille volte. Il crimine è realmente odioso, e il peccato è scandalosamente grave. Non c’è da girarci intorno. Parliamo infatti di persone comunque riscattate, proprio attraverso la formazione e il ministero religioso, dalle premesse del degrado, dell’ignoranza, del fraintendimento della loro solitudine e della loro consegna. Parliamo di persone istruite e plasmate alla dedicazione evangelica della vita. Persone in grado, per definizione, di assumersi infine tutta la loro responsabilità. E dove ciò non fosse, i capi, nella Chiesa, devono farlo loro stessi: senza tentennamenti, senza reticenze. È questo, infatti, il loro modo di presiedere l’ethos della fede (in vista della carità, appunto, qui orribilmente contraddetta). La trasparenza dell’amore evangelico è il punto d’onore della loro vigilanza di 'episcopi'. Lungi dall’occultare, essi devono chiarire. E portare su di sé, insieme con tutte le parti vive della comunità, il debito d’onore e d’amore necessario a ricomporre legami così lacerati, e così vitali, per la cura degli affetti che fanno un uomo.
Il secondo tratto è altrettanto limpido e forte. Benedetto XVI parla di debolezza della fede, e del suo responsabile rigore personale: non semplicemente di debolezze della carne. Il profilo e la dimensione del tema attengono, infatti, ai fondamentali della fede (altro che etica come aspetto secondario dell’annuncio). Il Papa non teme dunque di parlare, a questo riguardo, di una generale «crisi della fede», la quale «tocca la Chiesa ». La fede non si trasmette con le cariche, né con gli incarichi. In un contesto di generale oscuramento del senso della dedizione cristiana, che si pone essa stessa di fronte al giudizio di Dio, la fede va passata al vaglio di un rigore etico che incide sulla sostanza, e non si limita a salvare le forme. La responsabilità della testimonianza chiede oggi una formazione al governo di sé – intellettuale, morale, affettivo – di più solida ascesi e caratura individuale. Non ci servono manager di grandi carriere promozionali, né fidi replicanti del mansionario standard. Abbiamo bisogno – adesso – di una grande passione, coltivata e collaudata singolo per singolo, per il ministero di fede della Chiesa. E la nostra ambizione è proprio quella di vederlo giudicato dai piccoli e dai poveri che ne devono essere protetti: a costo di ogni sacrificio. È questa la consegna. La barca di Pietro mette la rotta su questa parola del Signore. Quelli che hanno in mente altro, vanno lasciati a terra.
Avvenire 17 febbraio 2010