di Roberto Volpi
La questione critica oggi è se l’umanità
riuscirà a effettuare i cambiamenti
necessari, pena una catastrofe,
nel poco tempo disponibile”.
Lester R. Brown si congeda così dal
lettore nel suo saggio di maggior successo,
tradotto in Italia con il suggestivo
titolo “I limiti alla popolazione
mondiale”. Libro del 1974, “In the human
interest”, secondo il non certo
modesto titolo originale, arriva in tutte
le librerie allorché i tassi di fecondità
cominciano a mostrare segni evidenti
di flessione in molte aree del
mondo, segnatamente in quelle occidentali.
La decelerazione dell’aumento
della popolazione, e dunque
dei suoi ritmi, si sta rivelando più
prolungata e consistente del previsto.
La catastrofe demografica non c’è stata
né è alle viste. Il pianeta, d’altro
canto, supporta e sopporta piuttosto
bene la popolazione esistente, e nessuno,
credo, può sostenere che se ci
sono ancora oggi nel mondo sacche
consistenti di miseria, e pure di fame,
questo dipenda dal fatto che la terra
non ce la fa a nutrire tutti i suoi abitanti.
Per farcela ce la fa, sono le istituzioni
politiche, le agenzie internazionali,
i governi locali a non farcela.
Sono gli assetti politici internazionali,
con le relative fratture e debolezze,
frizioni e controversie, a mostrare la
corda di fronte al problema vero:
quello di consentire una redistribuzione
delle risorse che, pur nelle inevitabili
disparità e incongruenze, non
lasci una quota ancora troppo elevata
della popolazione mondiale senza il
necessario per vivere decentemente.
Quello demografico – la “bomba
demografica” – è stato il primo grande
problema che la comunità degli
“scienziati sociali” ha sollevato con
una mai venuta meno insistenza catastrofista
già a partire dalla metà
degli anni Sessanta del secolo scorso.
L’altro problema, a esso strettamente
connesso, quello del consumo delle
risorse – segnatamente delle fonti
energetiche e delle materie prime,
ma anche di quelle alimentari (vedi
per esempio la pesca) – dette invece
la stura a una ancora più copiosa, se
possibile, pubblicistica, tutta orientata
nella stessa direzione, che non si
è più fermata: il mondo si sarebbe
depauperato irreversibilmente, nel
giro di più o meno tre decenni, continuando
da un lato i ritmi in essere
del popolamento del pianeta e, dall’altro,
quelli del prelievo e della dissipazione
delle risorse.
Cosicché, essendo queste posizioni/
previsioni assurte al massimo splendore
tra la seconda metà degli anni
Sessanta e gli anni Settanta, e concordando
tutti i loro sostenitori sull’impossibilità
di oltrepassare una soglia
alquanto ravvicinata di anni, oltre
la quale i destini del mondo sarebbero
stati segnati irreversibilmente,
non si fosse intervenuti in modo
drastico bloccando in primis la crescita
demografica e quindi introducendo
modelli del tutto nuovi di sviluppo
e consumo, siamo ormai in grado,
e vorrei dire quasi in dovere, di
mettere nero su bianco la domanda
delle domande: com’è che la scienza,
segnatamente quella “sociale”, e gli
scienziati – la grande scienza, quella
che occupa le posizioni di preminenza,
che vanta finanziamenti e ascolto,
che comanda nelle università e nei
centri di ricerca, che ispira strategie
e indirizza i potenti e la politica – non
ha azzeccato proprio le più impegnative
e importanti previsioni? E com’è
che continua a prefigurare scenari
che vengono regolarmente smentiti,
se non del tutto comunque in modo
esiziale dall’evolversi della realtà?
Da un po’ d’anni è la volta del global
warming. E’ sconcertante scoprire
giorno dopo giorno su quanto controverse
– ed è dire poco – basi scientifiche
sia stato costruito, e continui a
esserlo, il drammatico scenario che
dal “global warming” conseguirebbe.
E che del resto sarebbe, a sentire gli
scienziati che hanno sposato quella
tesi (la stragrande maggioranza degli
scienziati), già in atto da un pezzo.
In ordine di tempo, un’altra verità,
quella dell’influenza A(N1H1), contrabbandata
per una “nuova spagnola”,
e finita ben presto nel dimenticatoio,
dopo essersi rivelata per una
pandemia all’acqua di rose e avere
lasciato sul terreno un paio di miliardi
di vaccini inutilizzati che nessuno
sa dove mettere, è solo l’ultima delle
tante gaffe previsionali su scala mondiale
globale che la scienza – in questo
caso non strettamente sociale ma
medico-biologica, con ricadute invero
imponentemente sociali tipiche della
medicina – ci rifila. E aveva forse la
scienza economica previsto la crisi finanziaria
che, partita dagli Stati Uniti,
avrebbe interessato il mondo intero?
Naturalmente no. Pletore di economisti
a questionare, e intanto prima
l’economia di carta e poi quella di
ciccia cadevano in ginocchio. Ma la
scienza non è riuscita neppure a prevederne
i contraccolpi.
Frattanto, tra un errore e l’altro, si
moltiplicano gli appuntamenti globali
degli esperti di questo e di quello.
Appuntamenti che più sono globali e
frequentati, più sono istituzionali e
propagandati, più sono appetiti dagli
stati, che se li disputano come olimpiadi.
Imbattibile sotto questo aspetto
è la Conferenza mondiale sull’Aids.
Ne hanno già fatte diciassette, si viaggia
verso la diciottesima. L’ultima, a
Città del Messico nell’agosto del 2008,
ha fatto segnare cifre da capogiro: tra
i venti e i trentamila tra biologi e genetisti,
medici e virologi, operatori sanitari
e uomini delle istituzioni sanitarie,
e circa quattromila lavori scientifici
o presunti tali presentati e, si assicura,
discussi. Nel frattempo l’Onu
continua a sfornare, anno dopo anno,
le stesse cifre. Numero di persone viventi
Hiv positive o con Aids conclamato
a un dato anno: 32-33 milioni, di
cui due milioni di bambini. Numero
di morti in un dato anno: 2-2,2 milioni.
Non cambia neppure la distribuzione
geografica: poco meno del 70 per cento
delle persone viventi con Hiv o
Aids e il 75 per cento dei morti sono,
e continueranno a essere concentrati,
nell’Africa subsahariana. E anche il
fatto che non si riesca a trovare un
vaccino per l’Hiv, il virus (retrovirus)
più indagato in assoluto, anche questo
fatto, si converrà, rappresenta uno
degli scenari più inquietanti che la
scienza sia riuscita metterci di fronte.
I fondi per la ricerca sono pochi, si
sente dire a ogni angolo di strada,
specialmente in Italia. E infatti non
passa giorno che un numero ragguardevole
di persone, dal presidente della
Repubblica fino all’ultimo consigliere
del più minuscolo comune della
Val di Fassa sepolto dalla neve per
i due terzi dell’anno, non senta l’irresistibile
impulso di ripetere il mantra
delle società opulente d’oggigiorno:
“Bisogna investire nella ricerca”. E
mai che qualcuno ci dica in proposito
qualcosa di più circostanziato. Quale
ricerca e in quali ambiti e come e per
cosa e perché. Mai che qualcuno accenni
alla possibilità di una valutazione
di efficacia dei soldi spesi nella
ricerca. E mai che si sappia, del resto,
cosa e quanto producono i fondi impiegati
nella ricerca – ché, se poi non
producono alcunché, è tipico della ricerca,
è noto, non produrre risultati
immediati e neppure a breve termine,
è tutta roba che si vedrà col tempo,
semmai si vedrà. Come se la ricerca
fosse una cosa a sé, quasi un’astrazione,
eterea e imprevedibile.
E mentre ci culliamo in questa visione
della scienza da albero degli
zecchini d’oro, ne sotterri uno e te ne
ritrovi a bizzeffe sui rami al posto delle
foglie, basta innaffiare, la ricerca
pubblica, privata o mista fa – più che
legittimamente, sia chiaro – il suo gioco.
E il gioco della ricerca si snoda in
buona parte tra le sponde dell’opportunismo
per un verso e del conformismo
per l’altro. L’opportunismo è
quello che la porta a dirigersi prevalentemente
dove c’è qualcosa di più
dell’odore dei soldi. E il conformismo
a scegliere di infilarsi in ambiti e
aree capaci di fare presa, anche attraverso
i mezzi di comunicazione di
massa, sul grande pubblico, e dunque
di conferire più potere.
Per questo, del resto, confonde così
spesso prospettive e scenari. Intanto
perché non è neppure detto che
gliene importi granché, delle prospettive
e degli scenari (e anche in
questo non c’è niente di male, basta
saperlo, e basta che non si cerchi di
contrabbandare la tesi esattamente
opposta, che sul versante della scienza
e della ricerca è tutto un formicolio
di etica e ragione morale da non
esserci posto per il più ininfluente interesse
personale).
Poi, e soprattutto, perché per vendersi
al meglio deve agitare costantemente
il peggio. Se il mondo non tracolla,
o giù di lì. Se le persone non sono
costantemente minacciate, nel lavoro,
nella salute o nei sentimenti. Se
i destini individuali e collettivi non
sono sottoposti a un rischio sempre
crescente. Se niente o quasi di tutto
questo è davvero come viene rappresentato,
come si potrà vendere un
qualunque prodotto che prometta un
domani migliore, se non una qualche
forma di salvezza?
Il catastrofismo non è una scelta, è
una necessità. Non c’è nessuna genia
più catastrofista degli scienziati d’oggigiorno,
e su tutti quelli che abbiamo
chiamato sociali, perché è proprio
profetizzando sciagure, enfatizzando
pericoli, inventariando rischi a non finire
che si possono reclamizzare al
meglio gli antidoti. La ricerca è oggi,
globalmente parlando, una ricerca di
antidoti a quello che ci hanno ficcato
in testa come lo “stress di/del vivere”.
Ed è per questo, del resto, che la
scienza di oggi sente così fortemente
la concorrenza della religione, perché
è sul terreno dei mali del mondo
che ormai la scienza pretende di avere
l’ultima parola, se non proprio il
monopolio delle parole e degli atti.
Ma rischi e pericoli sono, lungo
questa strada, in agguato anche per la
scienza stessa – altroché. Intanto
conformismo chiama conformismo, e
questo alla lunga è micidiale, per la
ricerca. Se la fisica teorica moderna è
“stringhista”, nel senso di improntata
pressoché in toto alla teoria delle
stringhe, è lì che si concentreranno i
finanziamenti. Ma se finanziamenti,
incarichi e riconoscimenti vanno quasi
del tutto in quella direzione, chi si
azzarderà a esplorare qualche direzione
diversa? Ma se nessuno o quasi
si avventura su terreni insoliti, impervi
e pure ingenerosi, che ne sarà
dello spirito stesso della ricerca?
Eppoi l’opportunismo finisce quasi
sempre col prendere la mano. Si va
allestendo il grande bazar della medicina
predittiva. La previsione probabilistica
di un grave evento patologico
nella vita di una persona, come
il tumore o l’infarto, dedotta dalla lettura
del genoma, ancorché scientificamente
del tutto opinabile, ha tratti
patentemente assurdi: trascura infatti
il fattore più decisivo, lo “shakeraggio”
della vita, per dirla con il
grande genetista americano Richard
Lewontin, che “attiva” certi geni e altri
ne “neutralizza” in modi e con intensità
del tutto diverse da individuo
a individuo. Questo metodo predittivo
verrà contrabbandato come il più
grande rimedio contro la malattia e
la morte, dando luogo a un mercato
destinato a “esplodere” in un caleidoscopio
di invenzioni (test) per fare
soldi, valanghe di soldi con tecniche
imbonitrici non così lontane dal modello
Vanna Marchi. Ma adottando –
al di là di ogni raffinato camuffamento
– questo modello, la ricerca finirà
per tagliarsi l’erba sotto i piedi, perché
i risultati alla lunga la condanneranno,
squalificandola.
Quest’ultimo è solo un esempio di
come occorra prepararsi, svanite o
anche soltanto indebolite che fossero
le grandi profezie globali apocalittiche,
a fronteggiare le innumerevoli
profezie individuali, personalizzate,
che si accingono ad avvelenare il clima
dei prossimi anni, agglutinandosi
le une con le altre come pastina in
brodo, così da delineare una sorta di
nuova e globale “fenomenologia del
male possibile”. Come la prima, e per
le stesse ragioni della prima, fatalmente
destinata anch’essa a prefigurare
scenari di enorme impatto emotivo
e mediocre sostanza. Cosicché si
porrà anche per essa l’interrogativo
su quale sarà la capacità dell’impatto
emotivo di riuscire a tenere a lungo
l’insipienza ben sotto il pelo dell’acqua.
© Copyright Il Foglio 23 febbraio 2010