Roma. Quanti sacerdoti ci saranno in
Europa tra quaranta, cinquant’anni? A
leggere i dati diffusi due giorni fa dal Vaticano
e desunti dall’annuario pontificio
2010, ce ne saranno molto pochi. Un minimo
storico che non può che preoccupare.
La “radiografia” della chiesa cattolica
nel mondo – appunto l’annuario pontificio
– è stata mostrata sabato a Benedetto XVI
dal segretario di stato vaticano, il cardinale
Tarcisio Bertone, e dal sostituto della
stessa segreteria, monsignor Fernando Filoni.
La cosa è stata resa nota da un comunicato
della sala stampa vaticana dove si
dicono molte cose. Anzitutto che i sacerdoti,
sia diocesani che religiosi, nel periodo
2001-2008 sono sì aumentati progressivamente
ma soltanto dell’uno per cento: dai
405.178 del 2000 si è arrivati ai 408.024 del
2007 e ai 409.166 del 2008. Insieme si spiega
che cresce il numero dei seminaristi. E
qui, oltre a rilevare che l’aumento è irrisorio
(il numero è sempre lo stesso: uno per
cento) si fa un quadro per continenti. E si
dice che i candidati al sacerdozio crescono
soprattutto in Africa (3,6 per cento), in
Asia (4,4 per cento) e in Oceania (6,5 per
cento), mentre l’Europa ha fatto registrare
un calo del 4,3 per cento e l’America risulta
stazionaria. Cosa significa tutto ciò? Che
andando avanti nel tempo, quando i tanti
sacerdoti europei che già oggi hanno più
di 65 anni lasceranno, l’Europa si troverà
sprovvista di preti e non potrà fare altro
che “pescare” altrove. E’ fra trenta, quarant’anni
che l’effetto di questa crisi vocazionale
mostrerà tutti i suoi effetti. Recentemente
è stata pubblicata una proiezione
relativa all’Italia: nel 1978 i preti diocesani
erano 41.627, nel 2006 soltanto 33.409, il
25 per cento in meno. Ancora più rilevante
è il calo dei sacerdoti appartenenti a ordini
religiosi, passati da 21.500 a 13.000, il
40 per cento in meno.
La crisi vocazionale europea è senz’altro
ascrivibile a una generale secolarizzazione
di tutto il continente. Giovanni Paolo
II ha fatto molto per arginare questo fenomeno
tanto che non in pochi si domandano
dove sarebbe arrivata la chiesa se
non ci fosse stato lui. Non per niente si deve
senz’altro al suo grande pontificato il
fatto che è la Polonia, prima dell’Italia e
della Spagna, ad avere ancora oggi il maggior
numero di sacerdoti e di seminaristi.
Seppure il calo rispetto a venti, trent’anni
fa, è netto: nel 1972 c’erano in Polonia
8.458 seminaristi, oggi ce ne sono 5.736. Nel
1972 c’erano in Italia 8.131 seminaristi, nel
2007 sono scesi a 5.791. Impressionante il
calo della Spagna: nel 1972 di seminaristi
ce n’erano 4.583, oggi ce ne sono 2.115. Tra
i paesi europei il dato più negativo è quello
irlandese: nel 1972 nella cattolica Irlanda
c’erano 1.144 seminaristi. Oggi se ne
contano soltanto 178.
Anche le principali diocesi europee mostrano
dati allarmanti. Milano passa dai
250 seminaristi del 1989 ai 139 di oggi. Torino
dai 52 del 1989 ai 19 di oggi. Parigi dagli
81 del 1989 ai 63 di oggi. A Praga nel
1989 c’erano 33 seminaristi, oggi che il regime
comunista non c’è più ce ne sono nove.
Varsavia è passata da 333 a 193. Cracovia
da 395 a 136. L’unica eccezione positiva
è Madrid: dai 150 del 1989 ai 191 di oggi.
La chiesa è un’istituzione sempre in movimento
e nulla vieta che nel giro di pochi
anni questo trend indiscutibilmente negativo
cambi di segno. Un indizio (e una speranza
per la chiesa) in questo senso viene
dai movimenti ecclesiali o comunque dalle
associazioni esterne alle diocesi.
Paolo Rodari
© Copyright Il Foglio 23 febbraio 2010