DI C ARLO C ARDIA
P eriodicamente riaffiorano antiche polemiche di matrice illuminista sul rapporto tra fede, ragione, scienza, come è accaduto di recente con alcune affermazioni di Umberto Veronesi. Per il quale la religione è di ostacolo alla ragione perché chiede di credere ciecamente, senza prove, mentre la scienza conduce alla verità e si fonda su dati certi. A onor del vero, una critica così aspra alla religione ha avuto scarsa eco perché si pone in tale contrasto con la storia della scienza che pochi se la sono sentita di difenderla. La religione cristiana è all’origine del più grande sviluppo del pensiero scientifico e umanista in Europa e nel mondo, e nessuno oggi nega che con il cristianesimo si è realizzata la svolta decisiva che ha dato vita all’homo faber capace di costruire il proprio futuro. D’altronde il più grande elogio della scienza lo si trova nella Bibbia, dove gli uomini sono esortati ad accettare «la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessuna cosa preziosa l’eguaglia» (Prv 8, 10-11), e si dice che «suo principio è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore» (Sap 6, 17). A me, però, preme soffermarmi sulla presunta funzione salvifica della scienza, quasi che in essa l’uomo raggiunga la verità e realizzi la pienezza del proprio essere. In questo modo si deforma la funzione del sapere scientifico che è strumento per ampliare le conoscenze, non il fine ultimo dell’essere, strumento donato agli uomini perché usino l’intelletto per comprendere il cosmo e migliorare sé stessi.
Il sapere scientifico risponde all’apertura al futuro che è propria dell’uomo, e nel divenire della storia si riempie di molte cose, la voglia di conoscere ciò che ci circonda fino agli spazi ultimi dell’universo, il desiderio di creare strumenti di conoscenza e di benessere, la vocazione innata ad armonizzare conoscenza e bellezza. L’uomo sa che se si fermasse, se dicesse 'adesso conosco ogni cosa, non ho più alcuna meta da raggiungere', in quel momento perderebbe identità e libertà. Si trasformerebbe in un essere ripetitivo, forse tecnologicamente perfetto, ma privato della spinta che lo incoraggia sempre oltre la meta appena raggiunta. Anche per questo la scienza ha dei limiti intrinseci che però servono per conseguire traguardi sempre più ambiziosi. Nella dialettica tra vocazione a sapere e limiti della conoscenza stanno la grandezza e la tensione dell’intelligenza. Anche le idee e le teorie errate che si accumulano nel progresso scientifico svolgono una funzione importante, se non altro perché dopo aver verificato l’errore si sceglie la strada giusta, o si sbaglia di meno. Ma l’uomo, questo è il punto che il pensiero illuminista non ha mai voluto af- frontare, percepisce sin dall’inizio che la sua mente aspira a qualcosa di più, a conoscere, almeno a intuire, l’infinito e l’invisibile. Immanuel Kant pone precisi limiti alla conoscenza umana, ma aggiunge che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo perde senso, diviene piatta e statica. Ma il razionalismo scientista preferisce chiudere in un cassetto questa parte di Kant.
L’ uomo avverte che le facoltà superiori aprono orizzonti che vanno oltre la materialità, anche se occorrono tempo, fatica, affinamenti continui, per mettere insieme pezzetti e segmenti di verità. E comprende che esiste nella sua coscienza un’altra dimensione, non contraria alla scienza ma più grande del sapere scientifico, capace di concepire e realizzare cose immateriali come la bellezza e l’armonia, l’amore per gli altri, il sacrificio di sé. In questa dimensione interiore teologi e filosofi innestano la vocazione a superare i limiti della vita e a proiettarsi in un orizzonte il più vicino possibile alla verità e alla perfezione. Con la modernità la tensione feconda tra il sapere e i suoi limiti ha conosciuto nuove lacerazioni, soprattutto quando si è trasformata la tensione in una mistura di superbia e di malinconia che avvolge poco alla volta il cammino del pensiero. Superbia per le capacità dell’intelletto, malinconia per la finitezza della vita individuale che conosce spazi di fulgore ma deperisce e lascia dietro di sé universi infiniti quasi inutili perché apprezzabili per pochi istanti dall’uomo. A volte superbia e malinconia creano un corto circuito nelle menti più sensibili che colgono l’assurdità di una esperienza umana votata al declino. Già nell’Ottocento, quando l’euforia per il processo scientifico vuole cancellare l’'illusione' religiosa, c’è chi ricorda che comunque vadano le cose «la gioventù spensierata costituirà sempre solo una piccola parte dell’umanità e l’altra parte sarà vittima della triste vecchiaia» (Eduard von Hartmann). Il corto circuito provoca nel pensiero europeo pessimismo, nichilismo, a volte autodistruzione, e Max Stirner scopre che con l’illuminismo «l’uomo ha ucciso Dio soltanto per diventare lui stesso unico Dio nei cieli», senza però poter aspirare alla grandezza divina. E un dio senza divinità è come un involucro pieno di vuoto. Il superamento di superbia e pessimismo è possibile, avviene spesso all’interno dell’esperienza religiosa, in quella cristiana in particolare, dove l’alterigia è cancellata dall’accettazione grata dell’atto creatore, e dei limiti della nostra umanità, la malinconia è colmata dall’inserimento dell’essere in un progetto senza confini, aperto all’amore divino che propone l’esperienza terrena come anticipazione di un destino più alto.
N on deve stupire che il corto circuito tra superbia e pessimismo si ripresenti periodicamente con una mimesi che colpisce anche il profano, come è avvenuto di recente negli sviluppi della fisica e dell’astronomia. Molti ricordano che l’anno scorso alcuni scienziati, cercando di riprodurre le condizioni scientifiche del Big Bang (singolarità all’origine dell’universo), quasi annunciavano che volevano trovare la 'particella di Dio', un qualcosa cioè che spiegasse tutto e permettesse la formulazione di una teoria totalizzante della realtà. I profani, cioè quasi tutti noi, ignorano che la teoria del Big Bang è relativamente recente, si è affermata nel corso del Novecento, è in certa misura contestata dalle teorie quantistiche che, soprattutto ad opera di Stephen Hawking, avvertono che l’inizio dell’universo può essere qualcosa di più sfumato dell’esplosione primordiale dal quale tutto nasce come da un punto infinitesimale. Ciò perché, ammessa anche la validità parziale del Big Bang, restano aperte le ipotesi sull’unicità dell’universo, sulla molteplicità e proliferazione di universi che si intersecano, sul destino di ciascuno di essi, e comunque non si è ancora riusciti a costruire la 'teoria unificante' ( theory of everything)
che spieghi ogni cosa dell’universo. È singolare constatare che, movendo da una fede religiosa forte e serena, si è più disponibili di altri ad accettare gli esiti della ricerca scientifica, a studiarli, scrutarli con stupore e gratificazione. Invece, ancora oggi, si ripropone la presunzione della scienza, come unica verità per l’uomo, oppure si alimenta l’attesa della scoperta della 'particella di Dio', senza av- vertire la contraddizione insuperabile (anche di tipo semantico) contenuta nell’annunciata epifania. La conoscenza piena della verità, una volta raggiunta e compressa nei limiti della vita materiale, porrebbe fine all’ansia di andare oltre, porterebbe all’uomo-robot pago della verità raggiunta; mentre la delusione per una verità sfuggita produrrebbe nuove lacerazioni e farebbe aumentare la vertigine della ragione di fronte ad ipotetici sconvolgenti scenari (pluralità di universi, multidimensionalità, espansione o contrazione del singolo universo, ecc.).
La vertigine si attenuerebbe se si inserisse la ricerca scientifica in un orizzonte più vasto, riconoscendo che le acquisizioni della scienza non contrastano con valorizzazione delle facoltà spirituali dell’uomo, del suo universo interiore, della vocazione umana all’infinito. Se alcuni scienziati parlano della musica dell’universo (in senso metaforico, qualcuno in senso letterale), ciò è perché l’immensità del creato è una delle fonti dello stupore che riempie l’uomo quando si affaccia sulla soglia dell’inesprimibile. Lo stupore, se bene interpretato, dimostra meglio di ogni altra cosa che le aspirazioni spirituali costituiscono una forza formidabile della coscienza che tende a Dio come al suo naturale compimento.
I n questa dimensione, presunzione, pessimismo, ricerca spasmodica della scienza assoluta, scomparirebbero e si sentirebbe un’altra musica, quella musica che Schopenhauer definiva come lo strumento che ci parla dell’universo in una lingua che essa stessa non comprende. L’ascolto dell’interiorità darebbe maggior pregio alle scoperte scientifiche, viste come arricchimento del nostro essere, tappe di una evoluzione dell’uomo senza confini perché egli aspira alla realizzazione più grande. Superbia e pessimismo scomparirebbero d’incanto, trasfigurati nell’attesa di un compimento pieno, mentre la scienza costituirebbe una componente sempre più affinata e preziosa di una crescita armonica che caratterizza da sempre il cammino dell’umanità.
Immanuel Kant pone precisi limiti alla conoscenza umana, ma aggiunge che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo perde senso, diviene piatta e statica L’ascolto dell’interiorità darebbe maggior pregio alle scoperte scientifiche, viste come arricchimento del nostro essere, tappe di una evoluzione dell’uomo senza confini
© Copyright Avvenire 26 febbraio 2010