DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

CREDENTI E NON, LE DOMANDE SONO LE STESSE. BRUNO FORTE

Come rilanciare il dialogo fra credenti e non credenti – cui si riferisce papa Benedetto XVI parlando della necessità di ristabilire un 'atrio dei Gentili' – nel modo più autentico possibile?
A questa domanda si potrà rispondere correttamente solo se si terrà presente la paradossale vicinanza ed insieme la differenza che esiste fra i due interlocutori. La vicinanza è presto detta: il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita nel credente, perché solo chi crede in Dio e ha fatto esperienza del Suo amore, può anche sapere che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Perciò, il non credente non è fuori di chi crede, ma in lui: il cosiddetto ateo, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è non per semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una condizione di ricerca e di dolore, che gli fa 'sentire' come suoi la nostalgia e il desiderio di Dio. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che non lasci tracce: al contrario, è passione, sofferenza di una vita che paga di persona l’amara sfida di non credere. Non a caso il celebre aforisma 125 della 'Gaia scienza', dove Nietzsche racconta del folle uomo che nella chiara luce del mattino andò sulla piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: «Dio è morto... e noi lo abbiamo ucciso!», contiene la struggente denuncia del dolore infinito di non credere, del senso di abbandono, di orfananza, che consegue per tutti all’assassinio di Dio. Il non credente, come il credente, è un uomo che lotta con Dio: «Mi religión es luchar con Dios» (Miguel de Unamuno). In realtà, sono il patire e il morire a suscitare in noi la domanda, che è alla base di questa lotta. Il dolore rivela la vita a se stessa più fortemente della morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita. Il cammino dell’uomo sta tutto nel prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non nascondendola, come ha fatto troppo spesso la modernità, ma domandando, interrogandosi, pensando. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità e quindi alla morte, lì si rivelano la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere, lì si affaccia la lotta con Dio. Lì l’uomo si scopre pellegrino verso la vita, un mendicante del cielo, e si comprende come la grande, vera tentazione è per tutti quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe possedere la verità tutta intera. «L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo» ('I racconti dei Chassidim', a cura di Martin Buber): il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. Martin Heidegger, parlando della 'notte del mondo' nella quale ci troviamo, dice che il dramma dell’epoca moderna non è la mancanza di Dio, ma il fatto che gli uomini non soffrano più di questa mancanza, e perciò non avvertano più il bisogno di superare l’infinito dolore della morte, considerando esilio e non patria questo tempo che passa.
Ricordando questo, credenti e non credenti – nell’irriducibile differenza di un incontro avvenuto o ancora da avvenire con Colui che è la verità in persona – possono sentirsi accomunati in un medesimo viaggio, nello stesso confessato o inconfessato desiderio di Dio. Da qui è possibile muovere per costruire insieme un 'atrio dei Gentili', dove ritrovarsi uniti nello stupore, nella domanda, nella testimonianza e nell’incontro, davanti al Mistero santo che tutti ci avvolge.


© Copyright Avvenire 26 febbraio 2010