l’avvicinarsi del 150mo dell’unificazione rende concreto il rischio di trasformare la memoria di quanto accaduto nei “dintorni del 1861” nell’ennesima serie di polemiche radicalizzate su una doppia retorica: da un lato quella dell’acritica apologia dell’evento unitario, dall’altro quella del vittimismo e del rivendicazionismo. Il secondo fronte si articola poi in una versione nordista, all’insegna del «chi ce l’ha fatto fare di caricarci il Sud», e in una versione pseudomeridionalista, all’insegna del «maledetto il giorno che siete scesi». Se si ha voglia di abbandonare qualsiasi retorica, la ricerca di elementi realmente unificanti deve partire da pochi dati di realtà.
Il primo è l’esistenza in Italia di una unità culturale antecedente di svariati secoli rispetto al momento dell’unità statale; una unità culturale che comprende una molteplicità di articolazioni, ma che è tale perché si riconosce nel ceppo comune dell’eredità filosofica ellenica e del legato giuridico romanistico, entrambi inverati dal Cristianesimo.
Poi c’è tanto altro: ci sono le enclaves di origine greca e albanese, ci sono i ladini e i valdesi e c’è la ricchezza di espressione artistica di ogni epoca della nostra storia e di ogni luogo della nostra geografia. Ma, se ancora oggi usciamo di casa al mattino e ci guardiamo intorno, cogliamo nelle nostre piazze e per le nostre vie i simboli o quanto meno i residui, di quel ceppo culturale che è stata la nostra dominante, e che è la sintesi di tre colli: l’Acropoli, il Campidoglio e il Golgota. Il secondo elemento di realtà è che prima dell’Unità la consapevolezza del comune destino dell’Italia era viva e diffusa – pur se attraversava i confini di Stati differenti – forse anche più di quanto non lo sia stata dopo il 1861. Ne sono riprova la risposta comune che nel corso dei secoli è stata data, superando le differenze fra ducati, principati e regni, alle aggressioni esterne (dapprima il pericolo saraceno, poi quello ottomano), e i forti legami fra le università sorte sul territorio italiano, e fra gli artisti che hanno lasciato le loro opere lungo la Penisola: legami in certi casi di maggiore sostanza rispetto a quelli oggi rintracciabili, nonostante internet, fra le attuali università e fra gli artisti contemporanei.
Mi permetto – avendo dapprima ascoltato e poi letto sul Corriere la relazione del prof. Guido Rossi al seminario «Quali le radici culturali dell’Italia», organizzato da Aspen – di dubitare della opportunità di cercare un fondamento alternativo, o quanto meno radicalmente alternativo, a quello che emerge con tanta evidenza dalla nostra storia. E magari di cercarlo partendo dalla rassegna delle condanne a morte o delle condanne tout court (da Giordano Bruno a Campanella), di cui il «bieco oscurantismo clericale» avrebbe costellato un cammino di ostacoli posti al libero dispiegarsi del pensiero, della scienza e delle arti. Non solo perché certe rassegne rischiano di essere incomplete; non solo perché, completandole, tanta mitologia riguardante l’unificazione è destinata a frantumarsi; ma soprattutto perché riproducono le medesime contrapposizioni che hanno incrinato fin dall’inizio la fondazione dello Stato unitario. «Fare i conti con la storia» – espressione usata e abusata – vuole dire, per riprendere quanto sosteneva Luciano Violante quando era presidente della Camera, «agevolare la costruzione di una storia unica della nostra Repubblica, senza omissis e senza vendette, nella quale tutti possano riconoscersi». Intendiamoci. Se per «storia unica» e quindi per radici culturali unificanti da riscoprire si intende la riscrittura dei manuali e delle monografie, magari su impulso del ministero dell’Università o di assessori regionali all’Istruzione, e quindi una sorta di «storia di Stato» o di «regione», questa prospettiva non va neanche presa in considerazione.
La sfida sottesa in quella espressione è un’altra: è intendere «storia unica» secondo il significato di «storia oggettiva», cioè storia come descrizione fattuale di ciò che è realmente accaduto, lasciando da parte le lenti dell’ideologia. E paradossale – lo dico all’indomani del ricordo delle foibe che ciò finora sia avvenuto con minore difficoltà per la Resistenza rispetto al Risorgimento.
Quali potrebbero essere le conseguenze, anche politiche, della constatazione che l’Italia non nasce nel 1861, che nei secoli antecedenti il Risorgimento vi era una «nazione spontanea» (per riprendere la felice espressione di Mario Albertini), che aveva una comune identità, fondata su una comune religione, su principi e cultura, anche politica, sostanzialmente omogenei, e su una articolazione sociale ricca e variegata, in città dall’antica tradizione, più che in regioni? E che di quel mondo è rimasto tanto, se è vero che il mito di fondazione dello Stato unitario oggi è in crisi, perché non è riuscito a far breccia come avrebbe voluto nella memoria collettiva degli italiani? Sostenere questo non vuole dire promuovere «operazioni nostalgia», né attentare all’Unità nazionale: il rispetto e la lealtà per la nazione, per come si è formata e consolidata, per i suoi simboli, per i doveri ai quali chiama, per i sacrifici che esige, sarebbero traditi dal rifiuto di conoscere o di far conoscere le modalità di formazione dello Stato unitario. Non è, per esempio, «operazione nostalgia» quanto, al di fuori di etichettature politiche, da circa dieci anni, avviene nel Parco della Grancia, nelle vicinanze di Potenza: un grande affresco delle insorgenze antigiacobine e dell’invasione piemontese, raccontato all’aperto, nei fine settimana estivi, realizzato con professionalità, coniugando rigore nella ricostruzione storica, efficacia nel messaggio visivo e diffusione ampia e non settoriale; sarà un caso che, mentre i musei si spopolano, questi spettacoli di ripresa della memoria storica incontrano grande successo?
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