Roma, “Il carrierismo nel sacerdozio è
senz’altro un male. Un male che c’è sempre
stato ma che oggi sembra avere proporzioni
più vaste. Altrimenti non si spiegherebbero
i continui richiami di Benedetto
XVI in questo senso: ‘E’ una tentazione
da cui non sono immuni neppure coloro
che hanno un ruolo di governo nella
chiesa’, ha ricordato recentemente il Papa”.
Massimo Camisasca, superiore generale
della Fraternità San Carlo – più di
cento preti missionari e una quarantina di
seminaristi –, per anni portavoce di Comunione
e liberazione in Vaticano, parla col
Foglio a pochi giorni dall’uscita nelle librerie
del suo ultimo lavoro: “Padre. Ci saranno
ancora sacerdoti nel futuro della
chiesa?” (San Paolo). Uno scritto dedicato
ai preti, come uno “schiaffo” che Camisasca
dà alla sua categoria perché, l’ha scritto
nella prefazione al volume il segretario
della Congregazione per l’educazione cattolica,
Jean-Louis Bruguès, “il pronostico
è cupo, ma preciso: sono molti i sacerdoti
che, in Europa e nell’America del nord,
hanno perso il gusto della loro vocazione.
La loro vita attraversa gravi difficoltà: la
solitudine pesa, il rischio di abbandono li
minaccia. Che fare? La risposta è semplice,
evidente e nello stesso tempo terribilmente
audace: una riforma”.
Un pronostico cupo, dati alla mano,
quello delle vocazioni sacerdotali: in Italia,
nel 1978, i preti diocesani erano 41.627,
nel 2006 si erano ridotti a 33.409, il 25 per
cento in meno. Anche i sacerdoti appartenenti
a ordini religiosi sono in calo: da
21.500 a 13.000, il 40 per cento in meno. Un
calo che riguarda un po’ tutta l’Europa e
che in certi paesi (come la Francia, il Belgio
e l’Olanda) ha proporzioni drammatiche.
Certo, non c’è solo il carrierismo a influire
negativamente sulla vocazione sacerdotale.
C’è anche dell’altro, eppure “la
tentazione” – come l’ha definita il Papa –
del potere e della carriera sono un male
oggi evidente. Spiega Camisasca: “Ritengo
che il carrierismo altro non sia che un sintomo
della crisi che sta investendo il sacerdozio
oggi: spesso la carriera è una delle
tante modalità tramite le quali si cerca
di coprire l’insoddisfazione per la propria
vocazione. Un prete soddisfatto, un prete
realizzato, non ha vuoti da riempire attraverso
il potere”.
Camisasca non offre ricette per supplire
alla crisi vocazionale dell’oggi ma dà
delle indicazioni per uscirne. Indicazioni
che sono un ritorno all’essenziale, a ciò di
cui la vita di un prete deve essere fatta
perché sia piena: silenzio, preghiera, liturgia,
messa, studio, vita in comune, amicizia,
castità e missione. Tante cose, ma il
contrario dell’“attivismo: una delle minacce
più insidiose per la vita del prete”.
“L’attivismo – scrive Camisasca – è un’azione
di superficie: vede dei problemi, avverte
dei bisogni, cerca di rispondere. Spesso
il prete che vive così si disperde in una
molteplicità di direzioni e di opere”. E ancora:
“Dentro l’attivismo, spesso inconsapevolmente,
si nasconde l’illusione di salvare
gli altri attraverso il nostro ‘fare’. La
carità, invece, ci spinge a entrare nell’azione
di Dio, a diventare collaboratori di
un’opera che ci precede e ci supera”.
Benedetto XVI l’ha detto nella notte di
Natale che per ogni uomo “la liturgia è la
prima priorità. Tutto il resto viene dopo”.
Occorre “mettere in secondo piano altre
occupazioni, per quanto importanti esse
siano, per avviarci verso Dio, per lasciarlo
entrare nella nostra vita e nel nostro tempo”.
E forse questo è anche il cuore del
messaggio che Camisasca vuole dare nel
suo libro: oltre l’attivismo, oltre il carrierismo,
oltre le lotte di potere sempre presenti
nella chiesa cattolica, c’è l’essenziale:
una vita sacerdotale riempita da Dio,
dal suo silenzio, dalla preghiera. Che poi è
probabilmente ciò che affascina del prete.
Ciò che ha portato, ad esempio, Chesterton
a scrivere di “Padre Brown”, Marshall di
“Padre Smith”, Bernanos del suo “Curato
di Campagna”.
Paolo Rodari
Il Foglio 17 febbraio 2010